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Tatto e linguaggio, Editori Riuniti, 2003

Date post: 16-Nov-2023
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Saggi/scienze
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Saggi/scienze

Marco Mazzeo

Tatto e linguaggioIl corpo delle parole

Editori Riuniti

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Indice

Tatto e linguaggio

9 Introduzione

17 I. Animale razionale o bipede implume?1. L’animale razionale: il modello delle scienze cognitive, p. 17 - 2.Una storia parziale delle scienze cognitive, p. 22 - 2.1. La prima fa-se: dal comportamentismo al cognitivismo, p. 22 - 2.2. La seconda fa-se: dal cognitivismo alle scienze cognitive, p. 29 - 2.3. Gli ultimi quin-dici anni: nuova apertura o nuovo irrigidimento?, p. 31 - 3. La viacognitiva alla natura umana: un vicolo cieco, p. 36 - 3.1. McDowell:due nature, p. 38 - 3.2. Pinker: la seconda natura è ridotta alla prima,p. 42 - 3.3. Marconi: la soluzione è il cervello, p. 50 - 4. Verso il bi-pede implume, p. 56 - 4.1. Il «doppio schiacciamento» cognitivista:l’occhio di Hal, p. 57 - 4.2. Il corpo: lo sfondo rimosso, p. 63 - 4.3. Iltatto: senso del corpo, p. 66 - Letture consigliate, p. 71

73 II. L’animale sprovveduto1. Aprire la scatola della mente, p. 73 - 2. L’opposizione al comporta-mentismo: ambiente e spirito, p. 77 - 3. Un problema filosofico: am-biente vs mondo, p. 5 - 3.1. L’essere che tasta: l’uomo formatore dimondo, p. 89 - 3.2. L’animale povero di istinti, p. 92 - 3.3. Il problemadella antropogenesi, p. 98 - 3.4. L’animale non specializzato, p. 113 -4. Nudità e neotenia, p. 120 - Letture consigliate, p. 127

129 III. Nelle nostre mani 1. La mano e il senso del limite, p. 129 - 2. I dieci principi della per-cezione manuale secondo Révész, p. 132 - 3. Gibson: il tatto comesenso attivo, p. 148 - 4. Al lavoro: perché le nostre non sono mani di

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I edizione: settembre 2003© Copyright Editori Riuniti, 2003via Alberico II, 33 - 00193 Romawww.editoririuniti.itfax verde: 800 677822ISBN 88-359-5426-6

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Tatto e linguaggio

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scimmia, p. 154 - 5. I ciechi vedono? Le ricerche cognitive sul tatto,p. 162 - 5.1. Vedere con la pelle: Bach-y-Rita e la sostituzione sensoria-le, p. 164 - 5.2. La pelle in prospettiva: Kennedy e i ciechi che disegna-no, p. 172 - 5.3. Il tatto tra riscossa e sconfitta: le ricerche di Ledermane Klatsky, p. 180 - Letture consigliate, p. 188

189 IV. Esperienza tattile e facoltà del linguaggio1. Le scimmie che pescano: culture animali e culture umane, p. 189 -2. I bambini che ululano: natura e cultura umana, p. 193 - 3. L’erroredi Gulliver: linguaggio e dimensioni del corpo, p. 201 - 3.1. Esserpiccoli: perché Lilliput non esiste, p. 203 - 3.2. Esser grandi: perchénostro figlio non sarà mai alto 18 metri, p. 207 - 4. Tatto e facoltà dellinguaggio: la coevoluzione tra mondo e ambienti, p. 210 5. Prende-re contatto con sé: il tatto come fondamento del monologo, p. 218 -5.1. Cure tattili, p. 220 - 5.2. Il corpo allo specchio, p.225 - 5.3. Tatto,logica partecipativa e il parlare a se stessi, p.230 - 6. Funamboli e fu-matori: il tatto di secondo ordine, p. 238 - 6.1. I funamboli di Lilli-put, p. 241 - 6.2. Andare in fumo, p. 244 - Letture consigliate, p. 251

264 Bibliografia 279 Indice dei nomi283 Indice analitico

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Introduzione

Al centro di questo libro è la questione della natura umana.Cercheremo di rispondere a tre domande:

1. Cosa distingue l’animale umano dalle altre forme di vita? 2. È possibile affermare la diversità del genere umano rispetto

alle altre specie senza ridurre gli animali a macchine e senzaabbandonare una visione evoluzionistica dell’Homo sapiens?

3. Esiste un fondamento e un luogo di raccordo comune dellediversità linguistiche e culturali?

Al primo interrogativo risponderemo affermando che il dif-ferenziale tra condizione animale e umana è costituito dal no-stro corpo e dal nostro linguaggio. Piú precisamente è il tatto,il senso piú plastico e meno specializzato, a costituire la chiaveper comprendere il rapporto di somiglianze e differenze biolo-giche tra animali umani e non umani: è questo scarto che costi-tuisce la porta evolutiva attraverso la quale è potuto entrare illinguaggio.

Il tatto, come afferma l’etologo Desmond Morris (1971, p.9), vive un paradosso: «È cosí fondamentale che tendiamo atenerlo per scontato». È necessario dunque fare uno sforzo:costruire una prospettiva sinottica delle conoscenze scientifi-che oggi disponibili su questa modalità di senso e recuperareuna fenomenologia dell’esperienza tattile troppo spesso soffo-

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Il nostro principale obiettivo polemico sarà costituito dadue percorsi di ricerca, tra i piú influenti del secondo dopo-guerra. Il primo è rappresentato dalla scienza cognitiva (cap.I): almeno nella sua versione piú classica e ortodossa essa pro-pone un’analogia, tra conoscenza umana e computazione elet-tronica, che non è in grado di cogliere il succo dell’esperienzaumana. Il progetto cognitivo di naturalizzazione della cono-scenza fa cilecca proprio quando si tratta di colpire il bersaglioprincipale, comprendere cosa ci rende animali umani, poichénon coglie il raccordo tra biologia e cultura sul quale si incar-dina la nostra natura. Il secondo approccio, piú trasversale,può essere definito «riduzionismo linguistico» (l’espressione èdi Cimatti, 2000a): secondo questo modello, è solamente il lin-guaggio verbale a segnare la differenza tra vita animale e uma-na. In questo modo, però, la facoltà del linguaggio diviene qual-cosa di assoluto (non siamo che parola) e quindi misterioso:non comprendere le condizioni di possibilità del linguaggio si-gnifica sottoscrivere un materialismo rinunciatario che cede learmi di fronte alla religione, alla magia e alla metafisica lascian-do a loro il compito di interrogarsi (se non di rispondere) sullenostre origini, sulla provenienza e, dunque, sul senso della no-stra condizione.

Concentrare l’attenzione sul rapporto tra tatto e linguaggiosignifica rispondere positivamente alle altre due domande concui si apre questa introduzione. È proprio la nostra specificasensorialità che costituisce contemporaneamente un punto disnodo e di raccordo: in un caso segna lo scarto biologico traanimale umano e non umano, in un altro costituisce il fonda-mento comune delle varietà culturali.

La tesi centrale del libro, infatti, può essere riassunta dalmotto «di necessità, virtú»: la mancanza di armi naturali di uncorpo nudo (cap. II) e la plasticità di mani senza compiti per-cettivi prefissati (cap. III) si rivelano alla nascita come handi-cap insuperabili senza il sostegno, la collaborazione e il caloredi altri umani adulti. L’animale umano costituisce infatti l’in-carnazione per eccellenza della neotenia, quel fenomeno biolo-gico che permette alla specie di mantenere anche in età avan-

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cata da vulgate e semplificazioni, dal pregiudizio che la vistasia il primo tra i sensi. Per questa ragione eviteremo due solu-zioni frequenti nella storia del pensiero occidentale e nel sensocomune. La prima consiste nel parlare di un generico senti-mento del corpo, di un’esperienza vissuta e indicibile che fa ri-ferimento a un alveo mistico e ineffabile dell’esperienza: si pen-si, ad esempio, al linguaggio privato di Wittgenstein ma anche,piú semplicemente, alla frase che ognuno di noi avrà avuto ladisgrazia di sentire o proferire: «Tu non puoi capire perchénon sei nei miei panni». La seconda soluzione riduce invecel’esperienza tattile alla percezione manuale ed esalta la manocome organo miracoloso che, separato dal resto del corpo, do-na all’animale umano quella differenza che segnerebbe lo scar-to con le altre forme di vita.

Il tatto è, invece, un senso bipolare: vive dell’estensione nu-da di una pelle priva di peli e della plasticità di mani che nonsono aguzzi artigli, né potenti pinne ma forme pronte solo allagenericità del lavoro. Non si tratta, infatti, di un senso localiz-zato: ha un’area piú focale, le mani, ma non esiste un corrispet-tivo tattile degli occhi o delle orecchie, della bocca o del naso.La duplicità di questa modalità sensoriale è la sua caratteristicaprincipe e, al contempo, ciò che ha favorito il suo accantona-mento nella maggior parte della riflessione occidentale. Perquesta ragione, abbiamo cercato di chiarirne i tratti e il signifi-cato attraverso una panoramica, ragionata ma non sistematica(non mancano le lacune: da M. Merleau-Ponty a D. Katz), de-gli studi piú importanti del novecento che riguardano questamodalità di senso. Nel secondo capitolo ci occuperemo dellasomestesia, cioè della percezione del corpo intero: gli studi diun paradigma filosofico chiamato antropologia filosofica, dellascienza che studia il comportamento animale (l’etologia) e del-la biologia dello sviluppo ne costituiranno le linee portanti.Nel terzo capitolo, invece, descriveremo le capacità tattili dellemani (percezione aptica): gli studi della psicologia gestalticadella prima metà del secolo e della psicologia ecologica di J.J.Gibson risulteranno, ancora oggi, fondamentali.

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gricoltura); sono ancora invasione poiché l’intervento umano(l’allevamento, l’uso di fertilizzanti) non può non avere un ef-fetto antropico, non può non comportare un cambiamento del-l’ambiente a immagine e somiglianza dell’Homo sapiens.

La condizione umana vive dunque un contrasto intrinsecoalla sua natura: da un lato è altro da ciò che la circonda perchénasce priva di nicchia ecologica; dall’altro, è ciò che la circon-da (il mondo) perché frutto dell’operato della propria comu-nità. Il linguaggio verbale non solo non cancella questa ambi-valenza di fondo ma la eredita: il monologo costituirà il luogoprivilegiato d’analisi delle ambivalenze di una forma di vita perla quale la logica del principio di identità (A è uguale ad A) ela legge di non contraddizione (A non è non A) sono una con-quista storica e, come tale, sempre a repentaglio. Sarà proprioil parlare a se stessi, infatti, a costituire un esempio dell’alveopartecipativo nel quale il linguaggio verbale nasce e di cui nonpuò liberarsi definitivamente: l’animale umano, cosí dipenden-te dalle cure che riceve dai suoi conspecifici, impiega una vitaintera non solo a gestire il rapporto di distinzione e apparte-nenza con il mondo nel quale si trova a vivere, ma anche a di-stinguersi e a partecipare a una comunità senza la quale sareb-be letteralmente morto.

Per questa ragione, nella natura umana biologia e culturanon costituiscono termini antagonisti né domini da ridurre l’unl’altro. Si tratta piuttosto di due figure a incastro: i vuoti di uncorpo, quello umano, a corto di istinti definiti alla nascita, diarmi preconfezionate dalla specie e organi di senso già formatisono colmati dalle cure di una società che ci dà il tempo di cre-scere, di imparare, di portare avanti una maturazione organicala cui lentezza non ha paragoni nel resto del regno animale. Lacultura è la nostra salvezza biologica: ciò non significa, però,che tra corpo e linguaggio esista un rapporto lineare come quel-lo tra malattia e vaccino. Se le parole sono un farmaco, lo sonoin senso omeopatico.

Per un verso il linguaggio ci protegge da una stimolazionepercettiva altrimenti insopportabile, offre riparo a una pelleinsolitamente esposta agli agenti esterni tenendoci in contatto.

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zata i tratti morfologici dell’età infantile: una immaturità croni-ca che ci consente di apprendere fino agli ultimi giorni dellanostra vita e che, al contempo, mette in costante pericolo gliequilibri raggiunti dalla nostra esistenza. L’essere umano è co-stretto a trovare nella precarietà della sua condizione una sicu-rezza labile e una stabilità sempre revocabile. Il nostro corpoci permette di trovare percorsi individuali, di uscire dalle rigi-dità della programmazione istintuale, di evadere da una nic-chia ecologica specifica. Proprio per questa ragione, vedremoche l’uso di strumenti nella specie umana assume un rilievofondamentale perché, al contrario delle altre forme di vita, ri-veste un valore biologico decisivo: è ciò che le consente di so-pravvivere (cap. IV).

I casi di ragazzi selvaggi, abbandonati precocemente o alle-vati da altre specie animali (si pensi al celebre film di F. Truf-fault), testimoniano la plasticità di un corpo neotenico che esi-bisce la capacità di modellarsi sul calco delle forme di vita cuisi affida, di farsi piú lupo tra i lupi e piú gazzella tra le gazzel-le. L’essere umano, infatti, non nasce in un «ambiente» ma inun «mondo»: non si tratta di un contesto ecologico già deter-minato per il quale l’Homo sapiens nasce adatto ma della storiadi un organismo che per sopravvivere deve proteggere le pro-prie nudità con abiti, costruire una dimora che gli si addica o,male che vada, vivere del prestito istintuale della specie che loadotta. Dopo che una avventurosa sortita tra i lillipuziani e igiganti del Viaggio di Gulliver ci avrà dimostrato che la plasti-cità organica necessaria per parlare è resa possibile dalle di-mensioni del nostro corpo, vedremo che è proprio l’opposizio-ne materiale tra un mondo umano in espansione e ambientianimali in ripiegamento a costituire il motore coevolutivo traazione tattile e facoltà del linguaggio. Mani e parole sono, inprimo luogo, forme di intervento che modificano il contesto incui si insediano. Hanno un impatto ecologico tale da richiede-re spesso un’azione ulteriore dal carattere intrinsecamente am-bivalente: sono riparazione, poiché cercano di rimediare alcambiamento provocato (ad esempio l’estinzione delle predecacciate o l’impoverimento del terreno sfruttato attraverso l’a-

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si filosofici) di quel gruppo di amici che, con Daniele, divide lasua vita tra Roma e Cosenza: senza Paolo Virno, Felice Cimat-ti e Francesco Ferretti non so proprio come farei. Non dimen-tico Laura Detti che, dopo anni di discussioni, mi ha quasi con-vinto che vale la pena di leggere Kant e Scaravelli ma alla qua-le, in compenso, ho rubato il mio primo libro di Gould. La re-dazione di Montag (Guido Traversa, Brunella Antomarini eMassimiliano Biscuso) è stata sempre generosa offrendomi in-coraggiamento, spunti di riflessione e un luogo dove poter ri-flettere insieme. Nel mio soggiorno di studio a Parigi, PierreJacob mi ha accolto con grande disponibilità presso l’InstitutJean-Nicod consentendomi di partecipare come uditore liberoal DEA in scienze cognitive durante l’anno accademico 2002-2003. In questo periodo, l’entusiasmo e la curiosità di BorisGimenez-Sastre e Vincent Spehner mi hanno aiutato a com-prendere che con persone come loro le scienze cognitive pos-sono avere un futuro vitale e che, almeno su questo, dovrò for-se ricredermi.

Ho scritto l’ultimo paragrafo pensando a mia madre, ErsiliaBosco: che sia l’occasione buona per farla smettere di fumare.

Questo libro è dedicato alla memoria di mio padre, MarioMazzeo: il primo a mostrarmi la varietà dei sensi e a insegnar-mi l’importanza di fare di necessità virtú.

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Per un altro fonda nuove dimensioni dell’esperienza: il vissutotattile del funambolo, cosí come quello del fumatore, costitui-scono due casi che dimostrano la nascita dal linguaggio di espe-rienze non linguistiche. Se la corda e la sigaretta costituisconoartefatti sofisticati, frutto di una società fondata sulle parole, ilvirtuosismo di chi danza sulla fune (ma anche del pianista edello sciatore, del motociclista e del pittore) e la coazione a ri-petere del tabagista dimostrano che il linguaggio non ci basta,che parlare non è sufficiente a lenire le ferite di un corpo nu-do. Il linguaggio sostituisce il bisogno epidermico di contattodella nostra specie senza però appagarlo («smettila di parlare,avvicinati un po’», recita una vecchia canzone) e, per questo,apre la via a nuove dimensioni tattili. Dire che il tatto costitui-sce la porta d’ingresso del linguaggio nella natura umana nonsignifica affermare che questo, una volta entrato, chiuda l’u-scio dietro di sé lasciando alle proprie spalle l’autonomia del-l’esperienza percettiva e tagliando i ponti con la biologia delnostro corpo.

Il titolo di questo libro si presta dunque a una interpreta-zione duplice: per un verso, sottolinea l’importanza dell’espe-rienza tattile per comprendere in che modo il corpo umano co-stituisca l’origine della facoltà del linguaggio; per un altro, siriferisce alla densità sensibile e al sapore percettivo assunto dalparlare. Se le parole vivono perché vive la collettività degli or-ganismi che le pronunciano, anche le parole rivelano la lorofragranza materiale, anch’esse hanno un corpo da esibire.

Durante la stesura del libro, ho avuto la fortuna di fare in-contri che hanno cambiato la forma di questo testo e la sostan-za della mia vita. In primo luogo Daniele Gambarara mi ha da-to un sostegno teorico, morale e materiale, senza il quale misarei, senza dubbio, smarrito. Con Massimo Prampolini ho col-tivato l’idea originaria dalla quale nasce oggi Tatto e linguag-gio: un’antologia sulla percezione cosiddetta «minore» e cheminore non è (tatto, gusto, olfatto), progetto che spero un gior-no possa vedere la luce. Indispensabile è stata l’effervescenza(fatta di dibattiti accesi, cene sostanziose e affettuosi colpi bas-

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I. Animale razionale o bipede implume?

Per costruire bisogna prima distruggereP. Kropoktin

1. L’animale razionale: il modello delle scienze cognitive

Una lunga tradizione di pensiero indica nel linguaggio ver-bale l’unico punto critico di distinzione tra animali umani enon umani. A distinguerci dalle altre forme di vita sarebbe ilfatto che siamo animali razionali, padroni di quel che la tradi-zione greca chiama il logos. Un termine dall’ampio spettro se-mantico che comprende i concetti di «calcolo», «ragione» e«discorso». Proprio quest’idea, l’uomo come animale raziona-le-linguistico, sarà il nostro principale obiettivo polemico. Inparticolar modo rivolgeremo la nostra attenzione critica a unadelle varianti piú recenti di un simile modello teorico, la scien-za cognitiva, mostrando l’esigenza di trovare un luogo di rac-cordo e snodo tra la natura umana e quella animale di tipo cor-poreo: la percezione tattile, come vedremo, ne costituisce unodei momenti privilegiati di emergenza.

La scienza cognitiva ripropone questa ipotesi teorica attra-verso il recupero, in chiave aggiornata, della fusione tra lin-guaggio, calcolo e ragione. La risposta che questo paradigmadi ricerca propone ad alcune delle domande che abbiamo po-sto nell’introduzione potrebbe esser riassunta cosí: l’essereumano si distingue dagli altri animali perché ha una mente eavere una mente significa essere in grado di effettuare compu-tazioni. Cosa sono le computazioni? Sono calcoli su rappre-

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d’accordo, tutto il resto appare stupefacente. Nel nostro casola preparazione alla mossa consiste nel credere che per poteridentificare lo specifico che individua la nostra specie sia ne-cessario astrarlo, anzi estrarlo, dal genere cui apparteniamo.Secondo la scienza cognitiva per comprendere l’animale uma-no è necessario prima farne fuori una parte (quella animale) evedere poi cosa resta (l’umano per l’appunto). Per questa ra-gione, il paradigma computazionale rimane invischiato in al-meno due serie di difficoltà metodologiche e, come vedremonei paragrafi successivi, contenutistiche.

Chiameremo la prima serie di difficoltà «il problema figu-ra-sfondo». Per illustrare in cosa consiste facciamo un altroesempio. Poniamo di trovarci nella selva amazzonica e di do-ver rintracciare le are rosse, una specie di pappagalli dei qualisappiamo poco, solo che hanno colori particolarmente sgar-gianti. Improvvisamente ne vediamo un esemplare. Poniamoche un osservatore esterno, un indigeno, ci dica: «Cerca di ca-pire cosa li distingue dalle altre specie che popolano la fore-sta». Cosa faremmo? Probabilmente cominceremmo a osserva-re con cura le are, a registrarne i suoni e a toccarne il piumag-gio continuando la nostra indagine attraverso il confronto conaltre specie. Gradualmente capiremmo che le are si distinguo-no non solo per la vivacità dei colori ma anche per il beccoparticolarmente compatto, per la grandezza del loro corpo (su-perano il metro), la coda molto lunga, ecc. Immaginiamo orache il nostro ipotetico interlocutore obietti: «Ma tu non deviguardare cosa l’ara non è, cosa ha in comune con gli altri uc-celli, ma solo cosa la distingue. Per capirlo devi osservare sololei, perché guardare il resto sarebbe solo una perdita di tem-po». Quest’ordine avrebbe senso? Potremmo in tal modo ca-pire come identificare un’ara? No. Per cogliere differenze ènecessario infatti focalizzarle su uno sfondo di somiglianze, percomprendere la natura di una specie è necessario che questa sistagli sullo sfondo costituito dal genere.

La scienza cognitiva, soprattutto nella sua versione piú ri-gida e ortodossa, incappa proprio in questa difficoltà: sezio-na l’animale umano in due, una parte animale e una raziona-

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sentazioni, operazioni applicate su stringhe finite di simboli.Chi è allora l’animale umano? È l’essere che calcola come uncomputer, che ragiona perché elabora input tramite una seriedi operazioni matematiche.

Negli ultimi decenni l’elemento cardine del paradigma co-gnitivo, l’analogia mente-computer, è stato proposto secondoversioni molto diverse. Queste possono essere distribuite fradue polarità principali: una piú forte che propone il computercome modello effettivo della nostra intelligenza e una piú de-bole che utilizza questa metafora come via euristica per coglie-re solo alcuni aspetti di essa (Johnson-Laird, 1993, p. 6). Simi-li differenziazioni non sono però molto rilevanti ai fini del no-stro discorso poiché in tutti i casi si persegue il ragionamentodi fondo: «visto che è necessario fare astrazione, mettere daparte la nostra animalità e concentrarci su ciò che ci contrad-distingue (la razionalità), cosa c’è di meglio che utilizzare co-me termine di riferimento una macchina?».

La mossa teorica può sembrare innocente. In fondo, po-tremmo dire, ogni scienza modellizza un fenomeno per com-prenderlo. Per comprendere la natura umana quindi può esseropportuno, anzi necessario, utilizzare un modello, il computerin questo caso.

Questa mossa teorica però non solo non è innocente ma èprofondamente sbagliata. Per capirlo meglio ricorriamo a unaccostamento che ha suggerito piú di cinquant’anni fa LudwigWittgenstein (1953). Secondo l’autore austriaco, per certi versila filosofia assomiglia all’illusionismo poiché in entrambi i casiabbiamo a che fare con i problemi della prestidigitazione. Tan-to nello spettacolo di magia che in filosofia ogni mossa è di persé innocente: se accetti le condizioni iniziali del gioco (i sugge-rimenti del prestidigitatore, i presupposti di un modello teori-co) tutto sembra naturale e scontato. Ma ciò accade solo per-ché, in realtà, il trucco è già stato fatto. Il trucco infatti è primadella mossa, è nella sua preparazione. Il prestigiatore sceglieper il suo esperimento di lettura del pensiero qualcuno tra ilpubblico e afferma di averlo fatto a caso: se lo spettatore ac-cetta una simile condizione iniziale, che i due cioè non siano

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20). Diversi anni fa la Nasa, l’ente spaziale americano, decidedi edificare degli enormi hangar per proteggere i propri razzidalle intemperie del tempo. La grandezza degli apparecchiaerospaziali impone di costruire edifici grandi dieci volte ilnormale secondo un ragionamento semplice e apparentemen-te sensato: se i mezzi da contenere sono enormi, sarà suffi-ciente costruire hangar enormi. Una volta costruito però, l’e-dificio rivela controindicazioni inaspettate: le strutture sonotanto ampie da creare al loro interno dei veri e propri micro-climi con tanto di nuvole, piogge e scariche di energia elettro-statica.

Come vedremo la scienza cognitiva si trova in una situa-zione molto simile a questa. Il ragionamento, ancora una vol-ta, appare sensato: poiché esistono dei processi cognitivi chepossono essere simulati e spiegati attraverso rappresentazionicomputazionali, per descrivere la natura umana basta esten-dere queste forme rappresentative e renderle piú complesse ele nostre domande avranno risposta. Proprio negli ultimi an-ni però sono state formulate perplessità e difficoltà da partedi alcuni dei piú radicali e autorevoli sostenitori del paradig-ma cognitivista. Fodor (2001, p. 127) ha recentemente affer-mato che «finora ciò che la nostra scienza cognitiva ha sco-perto sulla mente è stato soprattutto che non sappiamo comefunziona». Marconi (2001, p. 80), anche se piú ottimista, hasottolineato il carattere paradossale della riscoperta e difesadel concetto di natura umana da parte della scienza cognitivache, a rigor di termini, si occupa di processi come quelli com-putazionali di appannaggio non esclusivo degli esseri umani(ne sono capaci anche le macchine). Come vedremo nel pros-simo paragrafo, in quasi cinquant’anni le scienze cognitive sisono dedicate alla costruzione di un enorme hangar nel qualestudiare mente, pensiero, linguaggio e percezione. Ora perònuove nuvole si vanno formando proprio all’interno di quel-l’edificio che doveva proteggere dalle intemperie (dalla no-stra animalità cosí come dalle variazioni storico-culturali).Come mai?

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le, e si concentra su quest’ultima poiché costituirebbe il suospecifico. Un’impresa simile a un forsennato esperimento chi-rurgico che, a forza di tagliare, finisce con l’uccidere il pa-ziente.

Ma passiamo al secondo ordine di difficoltà. Quel che po-tremmo chiamare il «problema dell’hangar» riguarda la con-vinzione di fondo della scienza cognitiva secondo la quale percomprendere la costituzione di un elemento naturale sia ne-cessario o perlomeno utile modellizzarlo (lo accennavamo pri-ma). Da un certo punto di vista questo è certamente vero. Laportata delle nostre capacità conoscitive ci impone una perce-zione della realtà fallibile e parziale, stretta dalla morsa di li-miti biologici e culturali. Etimologicamente «modello» vuoldire «piccolo modo» (modulus > modus): in tal senso possia-mo intendere l’espressione «costruire un modello del mondo»come «conoscere il mondo all’interno delle debolezze costitu-tive della nostra conformazione». Ma questo non è il senso delmodello cognitivista. Johnson-Laird, pur professandosi appar-tenente alla versione piú soft del cognitivismo contempora-neo, afferma:

Sensazione ed emozioni possono essere spiegate all’interno di uno sche-ma di riferimento che mette insieme la selezione naturale e un punto divista computazionale della mente. E cosí forse un robot potrebbe averesentimenti. Potrebbe esser dotato di alcuni processori che monitorizzanoi suoi stati interiori – che rivelano ad esempio, che la sua scorta di ener-gia è scarsa – e di altri processori che rivelano eventi importanti nel suoambiente, come la presenza di un pericolo, e trasmettono un segnale par-ticolare ad altri della gerarchia (Johnson-Laird, 1993, p. 416).

Vediamo il presupposto dell’argomentazione: un robot nonprova sentimenti ma in linea di principio una macchina puòprovarne. Si tratta solo di una problema di complessità: ag-giungere microchip, progettare sistemi di monitoraggio inter-ni, trovare software adatti. Il «problema dell’hangar» nasceproprio quando si presuppone che la qualità non sia altro cheun problema di quantità. La denominazione che abbiamo scel-to per questa serie di difficoltà trae spunto da un esempioparticolarmente perspicuo proposto da Watzlawick (1986, p.

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si arrivasse a un terzo approccio e fu proprio Watson a iniziarlo: se i co-siddetti processi mentali degli organismi inferiori sono spiegabili in mo-do diverso perché non utilizzare queste spiegazioni anche nel caso del-l’uomo? (Skinner, 1959, p. 603).

Nella prospettiva comportamentista esser darwinisti signifi-ca rendersi protagonisti di un rovesciamento: non piú attribui-re il complesso (stati mentali) al semplice (forme di vita ele-mentari) ma spiegare il primo riducendolo al secondo. Darwi-nismo diventa sinonimo di riduzionismo poiché si postula cheè possibile ricondurre l’apprendimento a processi di condizio-namento per rinforzo. Dato un certo stimolo filtrato dai siste-mi percettivi dell’animale, il rinforzo è ciò che rende piú pro-babile una certa risposta a quello stimolo. Se a un topo quan-do spinge una certa leva diamo del cibo, rinforziamo la sua ri-sposta con il risultato che questa tenderà a divenire stabile. Iltopo imparerà cioè ad azionare quella leva secondo il seguenteschema1:

SD ‡ R ‡ Rinf.

Proprio perché basato sul concetto di condizionamento, ilcomportamentismo rappresenta una forma di evoluzionismopiuttosto particolare: tutta concentrata sulla pressione che l’am-biente esercita sull’organismo, essa tende a trascurare i caratte-ri innati, geneticamente trasmessi, delle forme di vita che ap-prendono. Skinner (1961a, p. 100), ad esempio, riconosce cheè la genetica a rompere il circolo vizioso secondo il quale so-pravvive ciò che si adatta all’ambiente e, allo stesso tempo, èadatto ciò che sopravvive. Ma secondo lo psicologo americanol’animale umano segna in tal senso un elemento di frattura e didiscontinuità. Il nostro patrimonio biologico è considerato in-fatti solo la condizione base che permette il dispiegarsi dell’u-nico fattore realmente decisivo: il controllo del comportamen-to per mezzo di cultura, educazione e società. In altri termini,è importante esser dotati di un lascito genetico «normale»(Skinner, 1961a, p. 103) che consenta di superare le difficoltàche ci propone l’ambiente per mezzo dell’educazione. È per

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2. Una storia parziale delle scienze cognitive

Per comprendere perché la scienza cognitiva incappi inquelle serie di difficoltà che abbiamo chiamato «problema del-l’hangar» e della «figura-sfondo» faremo un passo indietro neltentativo di fornire una rapida ricostruzione storico-teorica diquesto paradigma filosofico. È necessaria però un’avvertenza.Poiché si tratta della narrazione di una vicenda complessa anoi temporalmente vicina, essa sarà «parziale» nel duplice sen-so del termine: scarna e approssimativa (incompleta), ma an-che proposta all’interno di un esplicito tentativo di interpreta-zione critica (di parte).

2.1. La prima fase: dal comportamentismo al cognitivismo

Il cognitivismo nasce come alternativa al comportamenti-smo: un paradigma centrato sullo studio del condizionamentoambientale che sin dall’inizio del novecento si era affermatocome punto di riferimento per lo studio di mente e linguaggio.Ci soffermeremo su di esso per comprendere in quale panora-ma nasce quella che in seguito si chiamerà scienza cognitiva.

Secondo il comportamentismo, per studiare scientifica-mente l’essere umano non è necessario né opportuno ricorrerea presunti meccanismi interni osservabili solo introspettiva-mente. Credere che per comprendere la nostra natura sia ne-cessario postulare dei criteri di indagine diversi rispetto a quel-li validi per lo studio di forme di vita piú semplici rappresente-rebbe infatti il frutto di una superstizione. Burrhus Skinner nelsuo necrologio dell’altro fondatore del comportamentismo, J.B.Watson, afferma:

Nel momento stesso in cui Darwin stabilí la continuità della specie, attri-buí processi mentali a organismi inferiori. In questo egli poté contaresull’appoggio fornito da una schiera di naturalisti aneddotici, che affer-mavano di aver riscontrato in cani, gatti, elefanti, ecc. esempi di ragiona-mento, di rapporto empatico e persino di godimento artistico. La reazio-ne a questo approccio era inevitabile e trovò la sua espressione in LlyodMorgan, secondo il quale era possibile spiegare in modo diverso questepresunte manifestazioni dei processi mentali. Era quindi inevitabile che

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reagisce a stimoli con movimenti appropriati. Il concetto diriflesso condizionato è il precipitato teorico di una parte delpensiero cartesiano dal quale è stata eliminata ogni afferma-zione metafisica e dualistica. Definire il corpo una macchi-na da riflesso non significa piú, come per Cartesio, contrap-porre ad esso una res cogitans impalpabile e misteriosa,quanto individuare il principio fondamentale al quale ri-durre vita, mente e comportamenti umani.

2) L’essere umano è una macchina che richiede una programma-zione sociale. L’apprendimento consiste nella costruzione diriflessi, cioè di risposte stabili a stimoli determinati. Diver-samente dalle altre forme di vita, i nostri comportamentisociali non sono innati, cioè basati su istinti, ma quasi com-pletamente appresi. La cultura, da intendersi in senso latocome trasmissione storica di abitudini e comportamenti,programma ogni individuo seppur con variazioni personalipoiché, per definizione, nessuno può compiere le stesseesperienze degli altri. La varietà umana è quindi la varietàdelle forme e degli esiti del condizionamento ambientale.Secondo il comportamentismo, è necessario che quest’ulti-mo sia regolato da una precisa programmazione sociale af-finché l’essere umano possa realizzare la perfettibilità chelo contraddistinguerebbe.

Per venire ora al cognitivismo, è convinzione diffusa seppurnon unanime2 che luogo e data di nascita di quel movimentodi ricerca oggi noto come «scienza cognitiva» sia «Massachu-setts Institute of Technology 10-12 settembre 1956» in occa-sione del Symposium on Information Theory. Nei tre giorni delsimposio, Noam Chomsky presenta una relazione su linguag-gio e grammatica trasformazionale; Allen Newell e Herbert Si-mon descrivono la prima dimostrazione completa di un teore-ma mai eseguita da un computer; George A. Miller espone lasua tesi che la memoria a breve termine umana sia compostada un numero preciso e discreto di elementi. In altre parole sicrea una convergenza, in parte voluta e in parte accidentale,tra indirizzi di ricerca che hanno come presupposto il supera-

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questa ragione che al centro della concezione comportamenti-sta della natura umana troviamo la nozione di programmazio-ne. Riferimenti espliciti (Skinner, 1955, p. 61) all’umanesimodel sedicesimo e diciassettesimo secolo si affiancano al ricono-scimento di Cartesio come precursore del concetto di riflesso(Skinner, 1931): l’idea di fondo è che la scienza non solo siauno strumento di comprensione della realtà ma che, come giàaveva intuito Bacone, essa costituisca il mezzo per controllarel’ambiente e predire gli accadimenti. Il paradigma comporta-mentista cerca di portare a compimento un’idea nata insiemealla scienza moderna: essere umani significa dominare la natu-ra, la propria e quella circostante.

Secondo Skinner, per l’animale umano il condizionamentoè inevitabile: bisogna solo scegliere se provare a controllarlo,delegarlo ad altri (sistemi politici, economici, sociali) o lasciareche si svolga casualmente. L’essere umano alla nascita è com-pletamente indeterminato ed è per questa ragione che è l’am-biente fisico e culturale a determinarne le capacità, le propen-sioni e le scelte. La proposta comportamentista assume un ca-rattere globale: poiché è la scienza sperimentale a garantire l’u-nica forma razionale di scoperta e controllo del comportamen-to, non bisogna fuggire dal laboratorio inseguendo il mito del-l’interiorità umana, della quotidianità o, viceversa, della ridu-zione dell’uomo a formule matematiche (Skinner, 1961b) quan-to procedere nella direzione inversa. Invece di criticare l’espe-rimento scientifico per la sua rigidità è possibile trasformarel’intera realtà sociale in una sorta di «superesperimento» perscoprire e controllare le diverse variabili del nostro comporta-mento. «La libertà», sostiene coerentemente Skinner (1955, p.66), «non è che un nome per definire un comportamento dicui non è stata ancora scoperta la causa». Riassumendo, pos-siamo dire che l’approccio comportamentista si basa su duepresupposti:

1) L’essere umano è il suo corpo: una macchina da riflesso. Skin-ner individua in Cartesio il primo autore che prova a con-cepire ogni organismo vivente come un meccanismo che

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dal fatto che è il computer il miglior modello con il quale pos-siamo riprodurre la mente umana. Al modello comportamenti-sta della mente come scatola nera, si sostituisce quello cogniti-vista per il quale conoscere la mente significa simularne le mo-dalità di funzionamento:

Stimolo ‡variabili

‡ Rispostaintervenienti

Input ‡software che

‡ Outputelabora info

Il cognitivismo segna certamente un brusco cambiamentodi direzione rispetto alle teorie di Watson e Skinner poiché ta-glia fuori due fattori determinanti per la visione comportamen-tistica della natura umana: l’ambiente esterno delle stimolazio-ni (cultura, crescita, apprendimento) e l’analogia tra animaleumano e forme di vita piú semplici.

Nella ormai celebre recensione di Chomsky (1959) all’ope-ra di Skinner Verbal Behaviour, ad esempio, emerge con net-tezza la contrapposizione tra i due punti di vista. Il linguaggionon è riducibile all’apprendimento di una serie di risposte con-dizionate poiché si avvale di una struttura innata, di una gram-matica universale ereditata biologicamente. Ogni essere uma-no nasce con un software molto generale ma al contempo rigi-damente cablato (simile a un sistema operativo o, ancora me-glio, a quello che nel gergo informatico è chiamato linguaggiomacchina) che poi si realizza in ciascuna delle singole linguestorico-naturali. Per Chomsky, imparare a parlare non è qual-cosa che il bambino fa, ma qualcosa che gli accade: un proces-so di maturazione che ha bisogno di attivazione esperenziale.L’ambiente ha quindi solo una funzione di innesco poiché è lachiave che, inserita nel quadro, accende un motore innato. Lapossibilità di parlare una lingua mette radicalmente in discus-sione il paradigma comportamentista perché per la sua varietàe complessità è una capacità che non può essere ridotta al con-

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mento del comportamentismo per mezzo dell’analogia tra men-te e computer. Abbiamo esordito con una rapida esposizionedel pensiero behaviorista perché il cognitivismo nasce in rigidacontrapposizione al comportamentismo: non a caso si parlaspesso di «rivoluzione cognitiva» poiché si tratta di una pro-spettiva funzionalista (Putnam, 1960) che si considera radical-mente diversa dalla precedente perché basata su una visionecomputazionale e rappresentazionale della mente umana. Lamente è un software, un programma che può girare su compu-ter diversi, cioè su strutture hardware differenti. Per questa ra-gione, a causa cioè dell’indipendenza della rappresentazionementale dalla sostanza materiale che la realizza, per il cogniti-vista è necessario studiare la mente nel suo funzionamento (unelaboratore di informazioni) senza andare a guardare la strut-tura soggiacente, il modo nel quale queste elaborazioni sonofisicamente realizzate dal cervello.

Ma al contrario di quanto possa apparire, il cognitivismomanifesta elementi di continuità con il behaviorismo. Quelloche, come ricorda Luccio (1980, p. 232), in una prima fase pro-va a chiamarsi «comportamentismo soggettivo» vuole infattimantenere il rigore scientifico del paradigma che lo ha prece-duto. Se Skinner e Watson concentrano la loro attenzione sulcarattere necessariamente osservabile del dato scientifico, il co-gnitivismo ne sottolinea un altro aspetto: la riproducibilità. Perquesto paradigma il concetto di rappresentazione assume in-fatti un’importanza duplice: per un verso la rappresentazionediventa il cuore di una teoria esplicitamente mentalista poichétraccia il profilo di un essere umano che conosce il mondo permezzo di pratiche di calcolo su stringhe simboliche. Per un al-tro la rappresentabilità diviene il nuovo canone, piú debole ri-spetto al precedente di ispirazione positivista, per definire lascientificità di una pratica di ricerca: lo studio scientifico del-l’essere umano, cosí caro al comportamentismo, rimane cardi-ne di una indagine che segue solo una direzione diversa. Ogniconoscenza è ora «scientifica» non quando tratta dati osserva-bili che riguardano il comportamento ma quando il suo risul-tato è riproducibile. L’analogia mente-computer nasce proprio

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tato dalle esperienze ambientali sul quale si concentra ilcomportamentismo non è cosí decisivo perché è precedutoin termini sia genetici che logici da forme di autocontrollo.L’universalità prestabilita di linguaggio e mente umana van-ta infatti una forte autonomia rispetto al condizionamentoesterno. Non abbiamo bisogno della programmazione so-ciale comportamentista perché, in realtà, l’essere umano ègià programmato: è la nostra mente a funzionare come unprogramma.

Il confronto tra le nozioni cardine, comportamentiste e co-gnitiviste, della natura umana mostra che quella funzionalistarappresenta una rivoluzione piuttosto strana che consiste sem-plicemente nel passaggio da una sponda all’altra di uno stessofiume: la separazione tra res cogitans e res extensa, tra corpo emente. A traghettarci da una riva all’altra è l’unica nozione chesopravvive a questo attraversamento: quella di macchina. Dal-l’essere umano come macchina corporea plastica e perfettibilesi passa all’uomo come macchina mentale che si contraddistin-gue per l’infinitezza delle sue procedure di calcolo.

Nel primo caso la mente sparisce ridotta a condizionamentiidraulici; nel secondo è il corpo a sparire perché consideratoirrilevante.

2.2. La seconda fase: dal cognitivismo alle scienze cognitive

Verso la metà degli anni settanta comincia a emergere unasempre piú diffusa insofferenza verso alcune caratteristichedel modello cognitivista. L’entusiasmo per il paradigma com-putazionale della mente ha come effetto la diffusione di mi-cromodelli di spiegazione del comportamento molto specificie localizzati basati su esperimenti da laboratorio lontani dallarealtà quotidiana e privi di validità ecologica, cioè ambientale.Ulric Neisser è tra i critici piú lucidi dell’approccio cognitivi-sta standard:

La proliferazione di questi [quelli dell’approccio computazionale] me-todi ingegnosi e scientificamente di tutto rispetto apparve in un primo

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dizionamento per esperienze precedenti. Un aspetto essenzialedelle lingue, infatti, la loro creatività, si fonda proprio sulla pos-sibilità di produrre sequenze di suoni e significati mai sentitiprima. Con questa nozione non si intende, come sottolineaChomsky (1988), la creatività artistica, produzioni eccezionalicreate da personalità straordinarie, ma la capacità quotidiana ecomune di utilizzare in modo infinito, sempre nuovo, un nu-mero finito di elementi (suoni, parole).

Questa rigida contrapposizione non deve però trarre in in-ganno.

Le diversità dell’approccio cognitivo rispetto a quello beha-viorista costituiscono cambiamenti di direzione, anche bruschi,ma la strada percorsa per certi aspetti non presenta soluzionidi continuità. Per comprenderlo, proviamo a indicare i cardinidella nozione di natura umana per l’approccio cognitivista:

1) L’essere umano è la sua mente: una sofisticata macchina dacalcolo (il computer). Il punto di vista rispetto al comporta-mentismo è spostato mediante un ribaltamento solo appa-rente: Skinner si concentra sulla meccanica cartesiana delcorpo, abolendo la mente; il cognitivismo elimina il primo,concentrandosi sulla seconda. Il punto di riferimento cen-trale di questa «rivoluzione» è però sempre lo stesso, Carte-sio e il suo dualismo (cfr. Stancati, 2000b). La meccanicadei corpi proposta dal filosofo francese è ormai superata,afferma Chomsky (1967; 1988), ma rimane del tutto attualela sua convinzione che sia la creatività il carattere distintivoe irriducibile di linguaggio e mente umana: il corpo rimanefattore ininfluente.

2) La mente umana è (paragonabile a) un programma, unsoftware indipendente dal supporto che lo realizza (l’hardwa-re). L’essere umano non è plasmato dagli stimoli ambientalipoiché questi hanno la sola funzione di attivare strutture(facoltà del linguaggio, grammatica universale, ecc.) geneti-camente determinate. I geni forniscono degli interruttoriche l’esperienza si limita ad accendere (posizione on) o spe-gnere (posizione off). Il controllo sulla natura umana eserci-

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2) Per lo studio della cognizione rimane valida la metafora men-te-computer. La mente è ancora considerata in primo luogoun elaboratore di informazioni.

3) Gli scienziati cognitivi ridimensionano il piú possibile il ruo-lo di emozioni, contesto, cultura e storia. Sono ancora vistecome variabili che vanno ridotte a unità.

4) La ricerca deve esser compiuta in modo interdisciplinare sen-za la paura che le linee tra le diverse discipline si offuschino.

5) Questo rinnovato paradigma di ricerca riprende alcune del-le questioni della filosofia classica. Non si abbandona allostudio di micromodelli da laboratorio ma cerca di dare piúampio respiro alla propria ricerca.

Aldilà del dettaglio storico, l’aspetto piú interessante di que-sta fase è proprio la sua portata teorica. Le voci piú critiche

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tempo (e per molti studiosi è ancora cosí) come un segno che la nuovapsicologia cognitivista sarebbe riuscita a evitare le trappole in cui era ca-duta la vecchia psicologia. Un siffatto ottimismo può essere consideratoprematuro. Lo studio dell’elaborazione dell’informazione è certamentedotato di impulso e di prestigio, ma non si è ancora impegnato a formu-lare concezioni della natura umana tali da applicarsi oltre i confini dellaboratorio [...]. Non viene ancora fornita alcuna spiegazione di comegli uomini agiscono o interagiscono col mondo quotidiano (Neisser,1976, p. 30).

Secondo la ricostruzione proposta da Gardner (1985, pp.48 sgg.), la piú completa a nostra disposizione, l’iniziativa diuna fondazione privata di New York, la Alfred P. Sloan Foun-dation, funzionò da catalizzatore per tentare il superamento diuna situazione stretta da difficoltà e irrigidimenti. Il sovvenzio-namento di programmi di ricerca interdisciplinari che cercas-sero non solo di ottenere risultati sperimentali ma anche di ela-borare strategie di ricerca e vocabolari teorici comuni costituíl’elemento decisivo per la fondazione nel 1977 della rivista Co-gnitive Science, da molti considerata l’atto di nascita della scien-za cognitiva. Maggiore respiro teorico della ricerca e decisaapertura interdisciplinare diventano i caratteri distintivi delnuovo approccio e i correttivi apportati alle rigidità del primocognitivismo. Il cosiddetto esagono cognitivo ben rappresentaquesto tentativo di rinnovazione (figura 1).

Linguistica, filosofia, antropologia, intelligenza artificiale,neuroscienze e psicologia costituiscono i sei lati di una figurageometrica che, secondo lo State of Art report del 1978, deverilanciare il cognitivismo alla riscoperta di ambiente e differen-ze culturali. Il documento ebbe un’accoglienza contrastata tan-to da non esser mai pubblicato. Nonostante ciò Gardner (1985,pp. 52-60) propone cinque tratti o «sintomi», come li chiamal’autore americano, per definire la scienza cognitiva:

1) Per lo studio della cognizione umana è legittimo, se non ne-cessario, postulare un piano di ricerca costituito dalla rap-presentazione (schemi, immagini, idee, ecc.), membro in-termedio tra input ed output.

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Figura 1. Le linee unite indicano le connessioni interdisciplinari forti, le li-nee tratteggiate quelle deboli. Fonte: Gardner, 1985

essa si afferma come il paradigma di riflessione filosofica escientifica internazionale piú prorompente.

Bisogna sottolineare che quello fornito da Gardner non èsolo un tentativo di ricostruzione storica ma anche una propo-sta teorica. Il testo è pieno di esortazioni a insistere sulla co-struzione di una prospettiva piú aperta e multidisciplinare, cosícome manifesto è il tentativo di riassorbire all’interno dellascienza cognitiva movimenti di ricerca che altri autori hanno dasubito identificato come alternativi. L’approccio ecologico co-stituisce il caso piú eclatante di un simile tentativo. La propostadi Gardner è quella di mantenere questa eterodossia cognitivi-sta all’interno del nuovo paradigma, di utilizzarla come elemen-to di apertura e propulsore per il ritorno al mondo esterno. Neifatti però questa indicazione non è stata seguita, almeno nellamaggior parte dei casi. Altre ricostruzioni storico-teoriche dellavicenda cognitivista anni fa lo presagivano e ora si limitano aprenderne atto: sia Luccio (1980, 1981) che Mecacci (1992), adesempio, individuano in Neisser e Gibson una strada alternati-va alla scienza cognitiva la quale, secondo questa linea d’analisi,si presenta come la versione profondamente rinnovata di unaortodossia basata sull’analogia mente-computer.

Questi ultimi quindici anni, per quanto sia difficile avereuna visione complessiva di un periodo a noi cosí vicino, sem-brano dare ragione ai due studiosi italiani piuttosto che agliauspici di Gardner.

Ci troviamo di fronte infatti a una situazione imprevista eper questo motivo interessante: l’appello di Neisser a tornare aparlare della natura umana è stato accolto ma il problema è rie-merso all’interno di una versione ortodossa del cognitivismo cheha recepito solo in parte le istanze che costituivano il cardinedel documento SOAP e delle eresie ecologiche. In questi ultimiquindici anni abbiamo assistito a un implicito e deciso irrigidi-mento del paradigma cognitivo rispetto alle proposte emersealle metà degli anni settanta. Se scorriamo le introduzioni alpensiero cognitivo piú recenti e diffuse, è possibile notare fa-cilmente infatti due divergenze fondamentali che riguardanol’esagono cognitivo e l’eterodossia ecologica.

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dell’approccio cognitivista standard sottolineano che in giocoè «il concetto di natura umana che è, o dovrebbe essere, impli-cito nell’idea di attività cognitiva» (Neisser, 1976, p. 21). L’en-tusiasmo sperimentale sottolineato da Neisser aumenta il ri-schio di affermare una paradossale continuità con, propri acer-rimi avversari, i comportamentisti. Il cognitivismo con la suaattenzione al microprocesso e alla simulazione finisce per se-guire piú di ogni altro indirizzo contemporaneo il monito ri-volto da Skinner (1961b) alla psicologia sperimentale di metàsecolo: di non fuggire dalla ricerca di laboratorio alla ricerca,vana e illusoria, di lavorare sull’uomo «reale» o «della strada».L’approccio di Neisser (e di J.J. Gibson che lo influenza profon-damente ma dal quale mantiene alcune differenze d’imposta-zione) si definisce «ecologico» proprio per sottolineare la ne-cessità di un’apertura del paradigma cognitivista all’importan-za non solo dei fattori sociali e culturali ma anche di quelli per-cettivi e corporei. Il rischio, come sottolinea ancora Neisser, èquello di perdere di vista l’obiettivo, di perdere per strada ilsenso stesso dell’impresa:

Gli psicologi cognitivisti devono esaminare le implicazioni del loro lavo-ro relativamente a problemi piú fondamentali: la natura umana è troppoimportante per lasciarla ai comportamentisti e agli psicoanalisti (Neisser,1976, p. 32).

Uscire dal laboratorio significa rivedere la radicale separa-zione tra corpo e mente, rivalutare il ruolo della percezione edell’ambiente per cominciare a comprendere in che senso l’es-sere umano non sia una macchina.

2.3. Gli ultimi quindici anni: nuova apertura o nuovoirrigidimento?

Il panorama che abbiamo rapidamente ricostruito sulla sciadi quanto suggerito da Gardner (1985) è complesso e in uncerto senso imbarazzante: per un verso la scienza cognitiva sipresenta come un paradigma incerto, ancora alla ricerca delproprio statuto teorico; per un altro in questi ultimi decenni

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Ma queste dichiarazioni favorevoli ad accogliere le criticheche spingono verso un approccio piú multidisciplinare ed eco-logico sono solo apparenti. Guardando la figura, ad esempio,è facile accorgersi che manca qualcosa. Un angolo dell’esago-no è scoperto e un rapido confronto con quello originale cita-to da Gardner ci mostra l’anello mancante: l’antropologia. Aben guardare questa disciplina manca anche nell’elenco fattoda Marconi poche righe piú su. Si tratta di una semplice omis-sione? Non proprio. Quello che per Gardner costituiva il «li-mite superiore» delle scienze cognitive, punto d’apertura ver-so ambiente e società, è divenuto un riferimento a volte pole-mico, spesso sfocato, quasi sempre ambivalente. Thagard(1996) costituisce un buon esempio di una simile oscillazione:nell’introduzione annovera l’antropologia tra le scienze cogni-tive, senza parlarne mai in seguito. Riemerge solo alla fine deltesto quando gli studi antropologici vengono presentati traquelli che pongono delle sfide radicali al paradigma cognitivo(pp. 156 sgg.): nel giro di un centinaio di pagine l’alleato è di-venuto nemico!

Piú duro è invece l’atteggiamento di altri, come ad esempioPinker (1994). I suoi riferimenti all’antropologia sono frequentima utilizzati sempre in negativo. Secondo la sua ricostruzionedei risultati di questo campo di indagine sembra si diano solodue possibilità (ma in realtà è una sola): o l’antropologia sba-glia poiché riscontra differenze culturali là dove in realtà nonce ne sono; oppure coglie nel segno quando mostra che diffe-renze affermate in precedenza erano state clamorosamente esa-gerate. L’antropologia sarebbe una scienza che può aver suc-cesso, quindi, solo là dove afferma la propria autodistruzione.

Un atteggiamento piú coerente è adottato invece da quelche possiamo considerare un documento interessante poichérappresenta, almeno parzialmente, lo status di questo paradig-ma nell’Europa continentale (in particolar modo in Francia): ilDizionario di scienze cognitive. Questo testo infatti (Houdé etal., 1998) elimina senza oscillazioni l’antropologia dal paradig-ma cognitivo dimostrando che l’esagono cognitivo si è ridottoormai a un pentagono e che le differenze culturali rimangono,

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Tuttora la scienza cognitiva si presenta come un paradigmainterdisciplinare che fa del rapporto tra diversi ambiti di ri-cerca uno dei suoi massimi punti di forza. Il carattere interdi-sciplinare ha assunto una posizione cosí centrale da spingereMarconi a porre il problema di fare una scelta tra l’espressio-ne al singolare «scienza cognitiva» e quella al plurale «scienzecognitive»:

Si sente parlare a volte di «scienze cognitive», al plurale; le scienze cogni-tive sarebbero la psicologia, l’informatica, le neuroscienze, la linguistica,la filosofia in quanto cooperano agli stessi fini [...]. Insomma è meglioparlare di scienza cognitiva – al singolare – come dello studio dei proces-si cognitivi; uno studio che, come del resto fa ogni scienza, si avvale deicontributi di volta in volta ritenuti utili (Marconi, 2001, pp. 12-13).

Tabossi (1994, pp. 17-18) apre la sua bella introduzione conun esempio, riguardante le parole che nelle diverse culture in-dicano i vari colori, che si prefigge esplicitamente di mostrarel’importanza di un approccio integrato multidisciplinare. Il pa-ragrafo è preceduto dalla riproduzione dell’esagono cognitivo:

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ni (2001, pp. 128-129), che il behaviorismo ha dissolto il pro-blema della natura umana schiacciando il portato biologico checaratterizza la nostra specie sotto il peso del condizionamentoambientale, è anche vero che Watson e Skinner avevano forni-to una panoramica generale e pervasiva dell’essere umano (fintroppo, magari) tanto da svilupparne esplicitamente le conse-guenze politiche, culturali, pedagogiche e sociali.

Da questo punto di vista il cognitivismo assume una valen-za piú reattiva che rivoluzionaria: la fuga da una teoria che aspi-ra a risolvere insieme problemi filosofici e sociali sfocia nellamodellizzazione analitica e parziale di singole attività umane.Come abbiamo visto, il momento piú fertile del pensiero co-gnitivista è individuabile nella sua seconda fase: ed è allora (enon ora, come Pinker e Marconi danno a intendere) che emer-ge il tema della natura umana in tutta la sua problematicità. Ametà degli anni settanta il problema dello statuto della ricercacognitiva si intreccia indissolubilmente con la questione delsuo respiro teorico. A forza di restringere il campo di indagi-ne, la ricerca finisce con avere meno ossigeno e mostra di ave-re il fiato corto. In questi ultimi quindici anni, il problema del-la natura umana è stato ripreso ma viene affrontato con stru-menti diversi rispetto a quelli auspicati da chi aveva posto ori-ginariamente il problema (Neisser, Gibson e lo stesso Gard-ner). È proprio la ripresa in termini ortodossi di una questioneposta da chi aveva proposto una profonda ristrutturazione ba-sata sull’apertura alla dimensione storico-sociale e percettivo-corporea dell’agire umano che pone il paradigma cognitivo difronte alle difficoltà rappresentate da ciò che nel paragrafo 1abbiamo chiamato il «problema dell’hangar».

Come abbiamo visto, in risposta allo strapotere accordatodal comportamentismo al condizionamento ambientale nasceun modello nuovo che cerca di cogliere le caratteristiche dellaconoscenza facendo astrazione da questi fattori. Si costruisceun hangar che mette al riparo la cognizione umana dalle oscil-lazioni imposte da cultura e società: il parlante ideale di Chom-sky, le ricerche di laboratorio sulle capacità di memorizzazionedell’informazione, le simulazioni della nascente intelligenza ar-

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nella scia delle forme piú primitive e ortodosse di cognitivi-smo, oscillazioni da normalizzare.

Scorrendo i testi citati finora, scopriamo che il fronte ecolo-gico della ricerca cognitiva riceve un trattamento molto similea quello riservato all’esagono: Thagard (1994, p. 151) cita Gib-son in una sola occasione mettendolo tra i critici, proprio ac-canto agli antropologi; Pinker (1994) non menziona mai néNeisser né Gibson; Marconi (2001) e Tabossi (1994) si riferi-scono solo al primo prendendo in esame un testo ancora in li-nea con l’ortodossia cognitivista (si tratta di Cognitive Psycho-logy del 1967); Johnson-Laird (1993) sembra conciliare l’im-postazione di Gibson con quella computazionalista con il ri-sultato però di trasformare la prima nella seconda. Come ve-dremo meglio nel paragrafo 4.2, l’approccio dominante allostudio della percezione è infatti ancora quello computazionale:percepire l’ambiente significa mettere in moto procedure algo-ritmiche che consentano di calcolare la distanza di un oggetto,la sua forma, ecc. L’apertura all’ambiente percettivo propostada Neisser non è ancora riuscita ad affermarsi3.

3. La via cognitiva alla natura umana: un vicolo cieco

Sulla base di questa breve digressione storico-teorica pos-siamo ora tornare al punto di partenza e comprendere piú neldettaglio perché la scienza cognitiva si trovi di fronte a una si-tuazione paradossale: per un verso, infatti, questo paradigmadeve affrontare il problema costituito dalla natura umana, perun altro si trova nella condizione di non poter rispondere a que-sto interrogativo.

Partiamo dal primo punto: la scienza cognitiva non può ac-cantonare la questione della natura umana. Come abbiamo vi-sto nel paragrafo 2.1, un tentativo di evitare il problema è statocompiuto, nella prima fase cognitivista. Limitare la ricerca amodelli dell’attività umana parziali e di laboratorio ha costitui-to la risposta ambivalente del cognitivismo allo strapotere delparadigma comportamentista. Se è vero, come afferma Marco-

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La relazione tra il mondo delle cause e della natura biolo-gica con quello delle ragioni e dello spazio linguistico-cultura-le costituisce il punctum dolens del cognitivismo contempora-neo: il modello di McDowell consente di focalizzare meglio laquestione e di elaborare opportune strategie di risposta. L’au-tore americano propone di trovare una terza via tra due estre-mi. Il primo, che identifica con quello che chiama «mito deldato», tende a risolvere il problema del rapporto tra mente emondo riconducendo le ragioni della nostra condotta e le for-me del nostro linguaggio a cause materiali e/o biologiche. Ilsecondo, definito «platonismo sfrenato», propone un percor-so opposto che afferma la radicale eterogeneità tra mente, cul-tura e linguaggio da un lato e materia, biologia e natura dal-l’altro.

Il punto sul quale si concentra McDowell è come uscire dal-la dicotomia tra sensibilità, ricettività e necessità tipica del re-gno delle cause (mondo naturale) e la spontaneità, la libertàpropria del mondo delle ragioni (cultura e linguaggio). La con-trapposizione tra i due approcci proposta da McDowell è utileperché, forzando un po’ la mano, può esser riadattata ai finidel nostro discorso:

Mito del dato Platonismo sfrenatoComportamentismo Cognitivismo ortodosso

ricettività (modello S/R) spontaneità (TCM)passività (condizionamento) creatività (linguaggio)necessità delle cause (determinismo) libertà dalle cause (funzionalismo)

L’esasperata attenzione sulla osservabilità del dato scienti-fico, sulla possibilità di condizionamento dell’animale umanotramite forme di rinforzo fanno del comportamentismo unbuon rappresentante della prima forma d’estremismo. L’ele-mento che può sembrare dissonante è quello che riguarda ilruolo svolto dalla conformazione fisica, biologica e naturaledella nostra specie. Come abbiamo visto infatti, da un lato ilbehaviorismo si professa come il vero prosecutore dell’ideadarwiniana di evoluzione; dall’altro questa affermazione si ri-

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tificiale ne costituiscono il paradigmatico esempio. In un se-condo momento emerge però il problema di rendere plausibi-le questo modello: di estenderlo, di effettuare una definitivaemancipazione dal comportamentismo fuggendo dal laborato-rio verso non solo «l’uomo interno», come lo definiva Skinner(1961b), ma anche verso l’uomo reale, i comportamenti e leesperienze quotidiane. Da qui la necessità di una svolta: o cam-biare modello e uscire dall’hangar verso un approccio piú ri-volto alle differenze culturali (l’antropologia nell’esagono co-gnitivo) e all’importanza di percezione e ambiente (l’approc-cio ecologico di Neisser e Gibson) oppure provare ad amplia-re l’hangar tanto da comprendere quello che ne era rimastofuori. Nella maggior parte dei casi, come abbiamo visto, lascelta è caduta su questa seconda opzione: quella dell’amplia-mento.

Tratteremo allora tre varianti di questa estensione, tre pos-sibili soluzioni cognitive al problema della natura umana: quel-la di McDowell che, pur non essendo uno scienziato cognitivo,ha contribuito a riproporre il tema; quella di Pinker che provaa integrare evoluzionismo e scienza cognitiva; e in ultimo la re-cente proposta di Marconi di passare dallo studio della mentecome software a quello del cervello come hardware. Considere-remo queste proposte una per volta cercando di dimostrareche si tratta di tre modi diversi di imboccare la stessa strada o,per essere piú precisi, lo stesso vicolo cieco. Perché ogni voltanell’hangar le nuvole torneranno ad addensarsi.

3.1. McDowell: due nature

Come accennavamo McDowell non è quello che potremmodefinire uno scienziato o un filosofo cognitivo. Al contrario èuno studioso che si muove all’interno di un panorama diverso,vicino alla filosofia analitica. Le sue citazioni non riguardanoChomsky, Fodor o Pinker quanto Sellars, Brandom e Kant. Magià il titolo del suo testo piú importante, Mente e mondo, sug-gerisce perché la sua posizione filosofica abbia destato l’inte-resse nell’ambito della scienza cognitiva.

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Secondo McDowell infatti anche l’esperienza percettiva è con-cettuale. Per questo motivo la nostra sensibilità non è meramentepassiva poiché gode dell’attività propria della ragione o meglio,come esplicita nell’ultimo capitolo del suo libro, del linguaggio.

Sarebbe la pervasività dei concetti a colmare il divario traregno delle cause e mondo delle ragioni. Ed è per questo moti-vo che, secondo McDowell, lo spazio delle ragioni non è deltutto indipendente da ciò che è puramente umano: si tratta diuna autonomia che non deriva dal mondo delle cause né le ri-flette ma allo stesso tempo non ne è del tutto distaccato (ivi, p.98). La nozione di seconda natura costituisce il passaggio suc-cessivo della sua argomentazione: per il filosofo americano es-sa esprime la possibilità di apprendere abitudini di pensiero eazione, di una formazione culturale (ciò che nella filosofia te-desca è noto come Bildung), dello sviluppo del linguaggio ver-bale (ivi, pp. 90-91). La seconda natura consiste nella realizza-zione di potenzialità innate della specie umana: come tale nonintroduce alcuna componente extranaturale o non animale nel-la nostra costituzione (ivi, p. 94).

Le argomentazioni di McDowell sono però lacunose o, benche vada, peccano di circolarità. Il filosofo americano affermain sostanza che abbiamo il linguaggio perché godiamo di unaseconda natura e che godiamo di una seconda natura poichépossiamo apprendere un linguaggio. Ma come mai la nostraspecie può apprenderlo e le altre no? E se le capacità concet-tuali sono cosí determinanti tanto da permeare ognuna delle«nostre azioni corporee intenzionali» (ivi, p. 96), cosa ci salva-guarda dal relativismo linguistico? Lingue diverse hanno con-cetti diversi. Di conseguenza potrebbero portarci a percepire ilmondo ognuna a loro modo. Qual è poi la connessione tra pri-ma e seconda natura?

A tal proposito McDowell afferma esplicitamente:

La necessità di una storia evolutiva non deve apparire troppo importan-te. [...] La riflessione sulla Bildung di un singolo essere umano dovrebbe bastarea distinguere il platonismo naturalizzato che ho proposto dal platonismosfrenato (ivi, p. 134).

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solve nella dissoluzione della natura umana nella pura condi-zionabilità stimolo-risposta. La necessità naturale della qualeparlano i comportamentisti non è allora quella degli istinti,che presupporrebbe una componente piú attiva di tipo pul-sionale, ma è la necessità indotta dall’ambiente circostante inun essere, quello umano, che si distingue per la sua estremapassività.

Il cognitivismo piú rigido sembra ben incarnare a propriavolta la seconda delle due opzioni: la teoria computazionaledella mente insiste sulla spontaneità di calcolo insita in ognioperazione conoscitiva dalla percezione alla dimostrazione diteoremi; la creatività costitutiva dell’attività linguistica (usaremezzi finiti in modo infinito, secondo lo slogan chomskyano)sottolinea la produttività di un sistema non passivo; e infinel’indipendenza di una macchina mentale dal supporto che lorealizza, idea cardine del funzionalismo, sottolinea proprio lalibertà del mondo linguistico delle ragioni (software) da quellofisico delle cause (hardware).

Vista in questi termini la risposta che McDowell tenta difornirci appare ancora piú appetibile perché può indicarci, sep-pur in modo implicito, la strada per sfuggire all’impasse in cuisi dibatte la scienza cognitiva. Qual è allora questa terza via?

Il filosofo americano propone un tema importante che saràuno dei concetti cardine di questo libro: quello della distinzio-ne tra prima e seconda natura. Allo stesso tempo, però, vanifi-ca questa idea poiché, proponendo quel che chiama «platoni-smo naturalizzato», la imbriglia all’interno di un impianto cir-colare.

Per rimarginare la cesura esistente tra mente e mondoMcDowell segue due strategie di fondo. La prima, a suo pare-re, combatte la tentazione di isolare ciò che avremmo in comu-ne con gli animali, la percezione:

Possiamo invece asserire di avere ciò che hanno i semplici animali, unasensibilità percettiva a certe caratteristiche del nostro ambiente, ma diaverlo in una forma particolare. La nostra sensibilità percettiva all’am-biente è assorbita nell’ambito della facoltà della spontaneità, e questo èciò che ci distingue da loro (McDowell, 1996, p. 69).

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prendimento e di realizzazione degli esseri umani devono esserricondotte all’azione dei loro geni.

Rimproverando alla teoria comportamentista di non consi-derare l’importanza della struttura biologica della nostra spe-cie, Pinker (1994) propone una forma di cognitivismo che do-vrebbe essere piú aperta e costituire la realizzazione del sognoformulato nel documento SOAP, una scienza cognitiva che an-noveri in sé antropologia e ambiente, evoluzione e fattori biolo-gici. È quella che Jerry Fodor (2001) in un suo recente librochiama la «Nuova Sintesi»: il tentativo di unire la prospettivaevoluzionista alla teoria linguistica di Chomsky e alla teoria rap-presentazionale della mente. Se torniamo allo schema del para-grafo precedente possiamo constatare che la Nuova Sintesi con-corda infatti con le prime due convinzioni base del platonismosfrenato e del cognitivismo ortodosso (TCM come spontaneità elinguaggio come forma creativa) mentre rifiuta la terza: la li-bertà del regno delle ragioni è ora meno forte poiché è ridi-mensionata la refrattarietà all’evoluzionismo espressa da Mc-Dowell e dal funzionalismo piú in generale.

Il tentativo di soluzione intrapreso da Pinker segue, in tuttoe per tutto, la strategia di «ingrandimento dell’hangar» che ab-biamo descritto nel paragrafo 1: lo studioso americano ha pri-ma scelto alcune nozioni chiave per il cognitivismo contempo-raneo (riscontrabili in Fodor e Chomsky) e poi le ha estese permezzo di una loro lettura in senso evoluzionistico. Vediamo inbreve procedimenti ed esiti di questo ampliamento.

Dal pensiero di Fodor, Pinker estrae ed esalta due ipotesiteoriche fondamentali: il linguaggio del pensiero (LDP) e la mo-dularità della mente. La prima idea afferma che le diverse lin-gue parlate del mondo costituiscono varianti superficiali, diffe-renti variazioni fisico-fonetiche di un unico supercodice men-tale, il cosiddetto «linguaggio del pensiero» o «mentalese» ov-vero un sostrato interno computazionale (una specie di lin-guaggio macchina) che non assomiglia a nessuna lingua speci-fica. Ciò spiegherebbe secondo Fodor (e Pinker) perché è pos-sibile comprendersi nonostante le differenze linguistiche e cul-turali tra i vari popoli o individui e perché sia logicamente rea-

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In questo modo però gli interrogativi che abbiamo postorimangono senza risposta. Con buona pace di McDowell, laBildung di per sé non basta. Del platonismo sfrenato secon-do la dicitura del filosofo americano, o del cognitivismo orto-dosso se riprendiamo il filo del nostro discorso, Mente e mon-do sembra mantenere in fin dei conti tutte le caratteristichefondamentali tra le quali il carattere linguistico della perce-zione. La nozione di seconda natura non è in grado di supe-rare di per sé il funzionalismo poiché non spiega in che modole funzioni del linguaggio siano legate alla struttura corporeache caratterizza la nostra specie. McDowell individua in Do-nald Davidson il tipico esponente di uno dei due estremismiche vuol evitare, quello di un platonismo sfrenato fondato suuna nozione coerentista di verità: per verificare se un enun-ciato è vero o falso non possiamo confrontarlo infatti conqualcosa che è esterno al linguaggio ma valutarne la coerenzaponendolo a raffronto con altre proposizioni. L’idea di Da-vidson è che non possiamo uscire dalle nostre credenze cosícome non possiamo uscire «dalla nostra pelle» (ivi, p. 17).Ma la posizione di McDowell non sembra portare a conclu-sioni tanto diverse: il linguaggio verbale pervade percezionee pensiero tanto che per entrambi gli autori è impossibile at-tribuire ad animali non umani capacità di pensiero. Non acaso tutti e due arrivano alla medesima conclusione: l’essereumano, come afferma l’ultimo capitolo di Mente e mondo co-sí come un noto articolo di Davidson (1985), è un «animalerazionale».

3.2. Pinker: la seconda natura è ridotta alla prima

Anche Pinker propone il suo pensiero come terza via che siinsinui in una forbice troppo stretta. Nella sua rappresentazio-ne del problema della natura umana egli segna una drasticacontrapposizione: quella tra il cosiddetto «Modello Standarddelle Scienze Sociali» (MSSS) del quale farebbero parte il com-portamentismo e buona parte dell’antropologia e il «determi-nismo biologico» secondo il quale le capacità di scelta, di ap-

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Questa illusione (come molte altre: cfr. cap. III, paragrafo 2)esercita il suo effetto a prescindere dalle circostanze nelle qualilo stimolo è presentato (caratteristica modulare 1): anche se sap-piamo che i due segmenti sono oggettivamente uguali uno conti-nua a sembrarci piú grande dell’altro (2) poiché ha una presa co-gnitiva istantanea (4) ed è limitata a quella configurazione di li-nee e non ad altre. L’illusione ha inoltre un campo d’azione mol-to specifico (3) e costituisce una prestazione cognitiva obbligataperché anche se non vogliamo rimanere soggetti all’illusione nonpossiamo farne a meno (5). Infine è possibile trovare un’area del-la corteccia visiva responsabile di questo fenomeno (6).

Pinker estende l’idea fodoriana di modulo: rileggendola intermini piú spiccatamente biologici, la paragona a un organo oun istinto. Seguendo con coerenza l’impostazione teoricachomskyana, Pinker si propone di affrontare «lo studio dellamente umana in modo analogo allo studio della struttura fisicadel corpo» (Chomsky, 1980, p. 37) concependo la lingua ver-bale come un organo modulare. Una simile integrazione teori-ca inserisce però una concezione non solo biologica ma ancheevoluzionistica della natura umana, elemento questo che è ri-masto escluso dall’impostazione proposta da Chomsky (alme-no fino a poco tempo fa: cfr. cap. IV, par. 4).

L’esito di questo correttivo è ambivalente poiché per un ver-so propone una formulazione teorica che rimane opposta ri-spetto a quella comportamentista, per un altro reintroduce unelemento di somiglianza tra le due impostazioni: sebbene inmodi diversi, infatti, entrambe le posizioni finiscono col ridur-re la seconda natura alla prima. I comportamentisti, lo abbia-mo visto, insistono su un riduzionismo che privilegi le capacitàdi condizionamento dell’esperienza. Pinker aderisce all’estre-mo opposto poiché privilegia la trasmissione genetica dei trattiereditari mettendo in secondo piano le forze ambientali. Ci tro-viamo di fronte a una specularità interessante poiché tradisce,anche nella cosiddetta Nuova Sintesi, il carattere reattivo piúche rivoluzionario del paradigma cognitivo.

Per Skinner il patrimonio genetico è semplicemente unaporta d’accesso al condizionamento: l’organismo deve essere

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lizzabile la traducibilità da un idioma all’altro: sarebbe il men-talese a evitare l’ambiguità, la sinonimia e la mancanza di pre-cisione logica che affliggerebbero le lingue storico-naturali. Daquesta ipotesi Pinker (1994, p. 424) deduce che non parlare lastessa lingua è una differenza superficiale, come la differenzadel colore della pelle: come l’interno del nostro corpo è ugualein ciascuno di noi, cosí la struttura mentale del pensiero sareb-be identica al di là delle diversità che sussistono tra il francesee l’arabo.

La seconda tesi riprende e amplia un’idea esposta per la pri-ma volta da Fodor nel 1983 nel testo La mente modulare. L’i-potesi di fondo è che la mente sia suddivisa in entità separate, imoduli, caratterizzati da almeno sei proprietà cognitive:

1. I moduli sono informazionalmente incapsulati, cioè insensi-bili al contesto e ai processi generali di inferenza propri deicosiddetti «sistemi centrali» ai quali sono dedicati i proces-si di ragionamento olistici e sensibili alle varietà ambientali.

2. Le rappresentazioni computate dai moduli permettono unaccesso limitato al sistema di elaborazione centrale.

3. I moduli hanno un dominio specifico, cioè un campo d’a-zione ben definito.

4. Per questa ragione i moduli possono processare l’informa-zione ad alta velocità.

5. La loro azione è inoltre obbligata: l’input innesca una ri-sposta rigida.

6. Ad ogni modulo, infine, corrisponde una precisa strutturaneuronale responsabile del suo funzionamento, cosí comedi deficit in caso di danneggiamento.

Un esempio di prestazione cognitiva di tipo modulare è for-nita dalle illusioni ottiche. L’illusione di Müller-Lyer, ad esem-pio (ivi, p. 109), mostra queste caratteristiche:

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Ma Pinker non sembra curarsi di queste difficoltà perchéper lui l’essere umano si distingue dal resto del regno animaleper differenze biologiche di tipo meramente quantitativo: lanostra è una specie piú capace di adattamento perché ha piúistinti. In questo modo, però, ci ritroviamo all’interno di unasituazione ancor piú paradossale. Da un lato lo studioso ameri-cano paragona espressamente la diversità delle lingue a diver-sità tra specie:

L’inglese è simile, anche se non identico, al tedesco per la stessa ragioneper cui le volpi sono simili, anche se non identiche, ai lupi: l’inglese e iltedesco sono modificazioni di una comune lingua antenata parlata nelpassato, e le volpi e i lupi sono modificazioni di una comune specie ante-nata che visse nel passato (Pinker, 1994, pp. 232-233).

Dall’altro, come abbiamo visto, Pinker conclude il propriotesto ribadendo che le differenze tra idiomi rappresentanosolo diversità di rivestimento superficiale di un’unica struttu-ra computazionale: il mentalese. Delle due l’una: o le linguehanno modalità di differenziazione ed evoluzione simile aquella seguita dai corpi animali oppure queste seguono prin-cipi diversi. Nel primo caso non si capisce come questa stra-tegia possa salvarci dal relativismo culturale poiché la diver-sità che separa tedeschi e inglesi dovrebbe poter comportaredifferenze tanto marcate quanto quelle che separano lupi evolpi, due diverse forme di vita. Se scegliamo la seconda op-zione, è necessario abbandonare la riduzione del linguaggio aistinto e l’idea base della psicologia evoluzionista che la cul-tura segua criteri darwiniani di selezione e sviluppo. Non so-lo. La Nuova Sintesi deve fare i conti con un altro problemalegato all’ipotesi del linguaggio del pensiero. Come abbiamoaccennato, secondo Pinker sarebbe il mentalese, oltre alla mo-dularità massiva (ovvero alla visione dell’essere umano comeanimale ultraistintuale), a costituire l’antidoto al relativismoculturale poiché garantirebbe il sostrato innato e universaledella razionalità umana.

Tutti gli studi antropologici citati dallo studioso america-no sono volti a dimostrare che in fondo tra le varie culture

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morfologicamente sano affinché possa subire un’opportunaprogrammazione stimolativa.

Per Pinker è esattamente l’opposto: è l’esperienza a costitui-re un semplice elemento scatenante che consente l’espressionedel patrimonio genetico di un organismo. È per questa ragioneche il linguaggio viene paragonato alla proboscide dell’elefante:si tratta di un organo evolutivamente nuovo rispetto alle altrespecie che per maturare ha bisogno di certe esperienze che atti-vino i geni responsabili del suo sviluppo. Per Pinker ciò che di-stingue l’animale umano dalle altre forme di vita è il fatto chel’essere umano ha piú moduli, cioè piú istinti. La flessibilitàumana deriva da una esuberanza istintuale della quale il lin-guaggio costituirebbe la manifestazione suprema.

Questa posizione però crea dei problemi proprio perché, inprimo luogo, il linguaggio non è, né può essere descritto come,un istinto.

Il linguaggio è, infatti, per definizione non modulare. Comesottolinea lo stesso Fodor (2001)4, i processi linguistici non so-no limitati a un dominio, non sono incapsulati informazional-mente, né sono insensibili al contesto: è proprio questa assenzadi limitazioni che fa del linguaggio verbale non solo il codicecontestuale per eccellenza ma anche la piú potente forma se-miotica mai apparsa sul pianeta terra. Se dico ad esempio «checaldo che fa in questa stanza!», la frase avrà significati diversi aseconda delle diverse circostanze nella quale essa verrà pro-nunciata: se il riscaldamento è rotto e nella stanza la tempera-tura è pari a tre gradi centigradi, probabilmente la mia asser-zione sarà ironica e con essa vorrò esprimere esattamente ilcontrario del suo significato apparente (che fa freddo e noncaldo in questa stanza). Se invece è estate e non c’è neanche unventilatore, il senso della frase probabilmente sarà quello lette-rale. Ma è possibile pensare anche a situazioni diverse nellequali dire che fa caldo nella stanza non significa voler descrive-re uno stato di cose quanto invece dare un ordine in modo ve-lato e indiretto: dico questa frase perché desidero che qualcu-no vada ad aprire la finestra, a spegnere il riscaldamento o adaccendere il ventilatore.

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quando una donna ha raggiunto il momento del parto, si pre-scrive di stare a riposo, di mettersi sdraiati e di seguire una die-ta particolare. Il punto interessante è che queste prescrizioninon devono essere seguite solo dalla donna ma anche dal mari-to. Si crede infatti che il comportamento dell’uomo sarà deter-minante per la nascita del figlio: poiché il bambino è stato con-cepito da entrambi ed entrambi lo faranno crescere, anche ilparto è considerato un momento collettivo che riguarda, allostesso modo, tutti e due gli elementi della coppia (cfr. Lévy-Bruhl, 1910; Odier, 1966). Affidare l’individuazione a un mo-dulo dedicato conferisce all’identità umana una rigidità chenon le è propria poiché le sottrae quella variabilità che ne co-stituisce uno degli elementi distintivi. Per un verso il modulodel sé obbliga la presenza di un ego distinto e definito a mem-bri di comunità che non sembrano averne. Per un altro la mo-noliticità del modulo non rende conto della varietà che carat-terizza il genere umano:

Perché gli esseri umani devono essere considerati piú singolari degli ele-fanti, dei pinguini, dei castori, dei cammelli, dei serpenti a sonagli, degliuccelli parlanti, delle murene che danno la scossa elettrica, degli insettiche si mimetizzano sulle foglie, delle sequoie giganti, delle mantidi reli-giose, dei pipistrelli o dei pesci di profondità che hanno una lanternafluorescente sulla testa? (Pinker, 1994, p. 362).

Al contrario di quanto afferma Pinker, infatti, gli esseri uma-ni sono piú singolari delle altre specie per un motivo duplice.In primo luogo le potenzialità della nostra specie non sono pro-prio quelle dei lombrichi o delle foche: questo è dimostrato dalfatto, inquietante ma semplice, che siamo l’unica forma di vitache corre il serio rischio di distruggere non solo il suo specificoambiente ma la terra nella sua interezza (cfr. ad es. Eldredge,1998. Analizzeremo meglio la distinzione ambiente-mondo nelprossimo capitolo). In secondo luogo siamo piú singolari nonsolo poiché ci distinguiamo dalle altre forme di vita ma perchérispetto alle altre abbiamo maggiori distinzioni al nostro inter-no. È difficilmente discutibile che due volpi qualsiasi differi-scano tra loro meno di due animali umani. Le differenze, po-

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non sussistono grandi differenze, soprattutto nell’applicazio-ne delle categorie logiche e classificatorie. Soffermiamoci sudue di queste caratteristiche:

1. Le classificazioni popolari sono rigidamente gerarchiche.Nessun popolo afferma, ad esempio, che un animale puòessere contemporaneamente pesce ed uccello (ivi, p. 417).

2. Il concetto di sé costituisce un modulo innato ed è quindiuniversale (ivi, p. 414).

Mentalese (primo caso) e moduli (il secondo) sarebbero igaranti della nostra razionalità e della possibilità che culturediverse si comprendano tra loro: questo il quadro.

Esistono però popolazioni per le quali un essere animatopuò appartenere contemporaneamente a due classi tra loro di-versissime poiché hanno un concetto di «sé» molto diverso dalnostro. Facciamo un paio di esempi che dimostrino queste dif-ficoltà. Come riferiscono Lévy-Bruhl (1910, pp. 104-105) e Vy-gotsky (1934, p. 173), una tribú del Brasile del nord, i Bororò,si vanta del fatto che i membri del proprio popolo siano ap-partenenti a una particolare specie di pappagalli: le are rosse(la stessa che abbiamo utilizzato nel paragrafo 1 come esempiodel problema figura-sfondo). Questa popolazione, credendo diappartenere contemporaneamente a due classi tanto diverse,dimostra che la rigida gerarchia postulata al punto 1 e la co-stanza del concetto di sé del punto 2 devono essere profonda-mente rivisti. In molte popolazioni primitive, infatti, il criteriodell’identità personale è profondamente diverso, meno forte epiú diffuso rispetto a quello che esiste nelle società occidentali.Altrove abbiamo cercato di spiegare piú diffusamente (Maz-zeo, 2002a) che il principio di individuazione, il senso cioè diuna identità personale, è per l’animale umano una conquista enon un dato di fatto. Solo in questo modo è possibile com-prendere, ad esempio, fenomeni come la cosiddetta couvade(covata) che altrimenti rimarrebbero inspiegabili o frutto disemplici superstizioni (spiegazione tipica dell’antropologia po-sitivista di inizio secolo): in diverse popolazioni primitive,

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portamentismo e antropologia hanno contribuito a dissociaregli aspetti culturali della vita umana da quelli biologici e a dis-solvere la nostra specificità in una generica capacità d’inter-pretazione:

L’uomo di Hans Georg Gadamer e di Roland Barthes, di Claude Lévi-Strauss e di Umberto Eco, di Jacques Le Goff e di Pierre Bordieu sembraavere un corpo solo per averne un’immagine [...] (Marconi, 2001, p. 126).

Marconi identifica con precisione i problemi di impostazio-ne presenti nel platonismo naturalizzato di McDowell: qual èl’anello mancante tra sviluppo del linguaggio e apprendimentodel sistema dei significati? Come evitare che l’inclusione dellavita mentale umana nello spazio delle ragioni comporti la suaesclusione dallo spazio delle cause, dal regno della prima natu-ra? Lo studioso italiano propone come soluzione a questi dueproblemi di estendere lo studio della mente umana a quellodel cervello:

È forse questa la principale sfida teorica dei prossimi anni: una vera ri-composizione dell’uomo biologico e dell’uomo culturale sarà possibilesolo se i processi cognitivi potranno essere compresi a partire dal funzio-namento del cervello (ivi, p. 134).

Se Pinker individua nel linguaggio l’organo distintivo dellanostra specie, Marconi lo identifica direttamente nel suo so-strato neurologico: è il sistema nervoso centrale a costituire ilpunto di contatto e passaggio dalla prima natura (biologica) al-la seconda (culturale) umana. Da un punto di vista epistemo-logico, Marconi non propone solo un allargamento del campodi indagine ma un tentativo di riduzione: egli non esclude, an-zi auspica che quando le neuroscienze avranno fornito le co-noscenze necessarie saremo in grado di ricondurre la compren-sione di una certa espressione italiana a una certa configura-zione neuronale, «non ci importerà piú molto dei significaticome norme dell’uso» (ivi, p. 138).

Anche Marconi propone di schiacciare la seconda naturasulla prima: riducendo il linguaggio a configurazioni sinapti-

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niamo, tra Adolf Hitler e Martin Luther King non riguardanosolo tratti morfologici e corporei (colore della pelle, altezza,peso, ecc.) paragonabili alle distinzioni che sussistono tra levarietà di manto o taglia all’interno di una specie di canidi maanche e soprattutto la varietà dei comportamenti e delle cre-denze, delle abitudini e delle modalità d’espressione: la famosaseconda natura di cui parla McDowell. Sul piano della singola-rità, cioè di quello che la filosofia classica chiama il «principiodi individuazione», la seconda natura non ha quindi una presameramente aggiuntiva o solamente secondaria, poiché cambiaradicalmente il concetto stesso di individualità: la diversità e laportata degli effetti del comportamento di Hitler e King lo di-mostrano drammaticamente.

La posizione di Pinker ripropone una visione razionalistadella natura umana particolarmente disarmonica poiché nonriesce ad amalgamare due elementi condannati a rimanere giu-stapposti. Si sostiene che il corpo dell’essere umano non costi-tuisce nel suo complesso condizione di possibilità per la nasci-ta del linguaggio (è in questo senso, un corpo anonimo, confu-so nelle varietà del regno animale) poiché il discrimine fonda-mentale è affidato a un criterio quantitativo, la maggiore mo-dularità, che culmina in un organo specifico, il linguaggio.

Per Pinker l’essere umano è un animale razionale nel sensoche è un animale ed è razionale. Vive diviso nella sommatoriadi due elementi tra loro separati: un organo umano (il linguag-gio) in un corpo animale. Ma qual è il rapporto tra questi dueelementi? Cosa costituisce condizione di possibilità per il veri-ficarsi dello sviluppo del linguaggio? Perché non siamo noi adavere la proboscide e non sono gli elefanti a poter parlare?

Questo Pinker proprio non lo dice.

3.3. Marconi: la soluzione è il cervello

In un libro recente, Diego Marconi ha rivendicato conchiarezza l’importanza del ruolo della scienza cognitiva per larivalutazione del concetto di natura umana. Richiamandosi aPinker, lo studioso italiano afferma che esistenzialismo, com-

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re umano è in tal senso prima razionale e poi animale. Finchéquesta successione è un fatto meramente espositivo, non susci-ta alcun problema (da qualche parte dovremo pur comincia-re): le difficoltà sorgono quando non si tratta piú di un sempli-ce ordine di indagine ma riguarda una priorità tra livelli di ri-cerca. Riemerge, in altre parole, il problema della figura chetrascura il suo sfondo: l’essere umano si distingue dalle altreforme di vita per il logos (ragione, calcolo, linguaggio) sullosfondo di una morfologia corporea che rispetto al resto delmondo animale rimane indistinta: accidentale e trascurabile.

È trascurabile per McDowell: poiché il corpo è dominatodal carattere attivo del linguaggio, la nostra corporeità è quin-di diversa rispetto a quella del mondo animale solo perché per-vasa dalla ragione.

È invece accidentale per Pinker e Marconi. Per entrambi, laseconda natura si innesta semplicemente sulla prima.

Ci sono delle differenze, senza dubbio: per il primo abbia-mo un corpo da primati sul quale si aggiunge l’organo del lin-guaggio che, come un fegato o un pancreas, cresce e matura;per il secondo, assistiamo invece a un’operazione di sostituzio-ne piú che d’innesto. Dopo aver rimproverato agli scienziatisociali di aver considerato non il corpo ma solo la sua immagi-ne, Marconi sostiene che per naturalizzare il paradigma cogni-tivo bisogna affrontare con piú convinzione lo studio del cer-vello: il corpo scompare di nuovo, sostituito stavolta dal siste-ma nervoso centrale.

Ma in entrambe le versioni di Pinker e Marconi, la scienzacognitiva risente ancora, come il cognitivismo ortodosso e pri-ma ancora il comportamentismo (paragrafi 2.1, 2.2), del duali-smo di origine cartesiana tra res cogitans (mente e linguaggio) eres extensa (corpo, materia). Le piú recenti e autorevoli propo-ste della scienza cognitiva mostrano come denominatore comu-ne una diffusa rimozione del corpo. Il comportamentismo ac-cetta la visione meccanica del corpo suggerita da Cartesio, ilcognitivismo la rifiuta senza però suggerirne una alternativa fi-nendo anzi per tralasciarla completamente. O il corpo è ciò chedice Cartesio oppure non esiste: questa è la scelta. Chomsky,

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che, la mente al cervello e la cultura alla neurologia. Anche inquesto caso, il tentativo non manca di aspetti paradossali.

Il primo è sottolineato, come abbiamo accennato nel para-grafo 1, dallo stesso Marconi: il ritorno alla natura umana gra-zie alle ricerche cognitive ha del paradossale, poiché stiamoparlando di un paradigma che si occupa delle capacità cono-scitive e di elaborazione di informazione proprie sia di uominiche di macchine. Il problema non consiste nel fatto che si par-ta dall’analisi di problemi di portata limitata per poi procedereverso espansioni che mirino a comprendere la specifica posi-zione assunta dall’essere umano tra le altre specie animali. Co-me abbiamo visto nel paragrafo 2.2, il passaggio dal cognitivi-smo alla scienza cognitiva consiste proprio nel tentativo di for-nire una risposta meno reattiva e realmente alternativa al com-portamentismo. Il problema è costituito invece dalle modalitàcon le quali effettuare questo ampliamento. Mantenendo comepunto di forza l’analogia mente-computer, ci si ritrova nellastrana condizione di voler riaffermare la specificità della natu-ra umana a partire non solo dall’analogia tra ciò che è umano eciò che non lo è, ma tra l’animale umano e qualcosa che non èneppure un essere vivente. È paradossale che la scienza cogniti-va provi a ristabilire una connessione tra uomo biologico e uo-mo culturale partendo dall’analogia tra la nostra mente e unaforma culturale per eccellenza: il computer. Si tratta in fondodella stessa ambiguità dalla quale prende le mosse McDowell.Il suo obiettivo è quello di naturalizzare il platonismo: ma per-ché partire da una posizione platonica per poi doverla natura-lizzare? È come scavare una buca e poi porsi il compito di ri-coprirla5. Lo stesso accade alla posizione di Marconi: parago-niamo l’essere umano al prodotto culturale cognitivamente piúpotente a disposizione (il computer) per poi tornare indietro ecercare il punto di congiunzione tra macchina e natura umana.Per la scienza cognitiva la migliore definizione della nostra spe-cie è quella di «animale razionale» perché in questa imposta-zione studiare scientificamente l’essere umano significa partiredall’analisi della sua razionalità per poi giungere a considerarei suoi tratti animali. Come accennavamo in precedenza, l’esse-

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prattutto c’è una confusione di livelli favorita dall’ampio spet-tro semantico del termine «corpo»: con questa parola possia-mo intendere infatti due concetti che ai fini del nostro discor-so non possono rimanere indistinti. Un conto è il corpo comemera entità fisica, definibile approssimativamente come mate-ria che occupa una certa porzione dello spazio-tempo; altro èil corpo come organizzazione biologica di un essere vivente.Chomsky e il cognitivismo in genere parlano del corpo nellaprima delle due accezioni, in termini ancora cartesiani: è unamacchina piú fisica che biologica. Per questa ragione, l’evolu-zione non sembra interessarli: poiché le leggi meccaniche sonoeterne, il tempo è un fattore poco pertinente al loro studio. Co-me visto, Pinker aggiorna e integra questa visione inserendoelementi chiaramente evoluzionistici e darwiniani. Ma lo spet-tro di Cartesio ancora si aggira tra le pagine dei suoi testi poi-ché da un corpo indistinto a metà tra fisica e biologia si è pas-sati a un corpo darwiniano ma ancora anonimo, ancora generi-camente animale. In fondo la metafora usata da Marconi (2001,p. 137) a tal proposito tradisce questa prospettiva, poiché sug-gerisce l’idea che tra prima e seconda natura sia da individuare«un anello concettuale mancante», una specie di cavo di con-nessione:

Prima natura Cavo di connessione Seconda natura

animale organo del linguaggio (Pinker) razionalecervello (Marconi)

Ma se impostiamo le cose in questo modo perché dovrem-mo parlare di prima e seconda natura e non, come fa piú coe-rentemente Cartesio, di prima e seconda sostanza? Il funziona-lismo schiaccia il corpo sulla sua mente, Marconi lo identificacol suo cervello: è un passo avanti, ma insufficiente poiché sitratta di una concessione alla corporeità troppo simile alla sem-plice espansione della ghiandola pineale (individuata da Carte-sio come punto di connessione tra anima e materia) al cervellonella sua interezza. Il problema non è risolto, ma semplicemen-te spostato.

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come accennavamo nel paragrafo 2.1, esprime con nettezza unasimile posizione. A sostegno delle sue critiche al comporta-mentismo, il linguista statunitense (1967; 1988, pp. 118-119)ricorda che già per Cartesio è l’uso produttivo del linguaggio acostituire l’eccezione, una eccezione estremamente significati-va, alle regole meccaniche dei corpi estesi e che diversamentedal mondo delle macchine, costrette ad agire secondo leggiuniversali e necessarie, il regno del linguaggio (della mente edel pensiero) è semplicemente incitato o disposto ad agire dasollecitazioni esterne. La mente è «una seconda sostanza inte-ramente separata dal corpo e non soggetta a spiegazione mec-canica» (ivi, p. 119).

Chomsky rifiuta la metafisica cartesiana e la sua contrappo-sizione tra res cogitans ed extensa ma non promuove una realeconciliazione tra questi due termini poiché mantiene alcunipresupposti di quella impostazione. In primo luogo, la perce-zione costituisce solo una fonte stimolativa, «occasione per lamente di produrre un’interpretazione dell’esperienza» (Chom-sky, 1980, p. 40). In secondo luogo, la nozione di corpo rimaneindistinta e confusa. Per un verso, la scuola chomskyana puòvantare il merito di aver introdotto nello studio del linguaggiouna dimensione biologica per lo piú assente in altre linee dipensiero come lo strutturalismo europeo: Pinker è solo unadelle piú recenti espressioni di un paradigma di ricerca che conla fondamentale opera di Lenneberg (1967) ha piú di trent’an-ni di lavoro alle spalle (il linguaggio è un organo). Per un altro,si tratta tendenzialmente di una biologia piú protesa verso lafisica che l’evoluzionismo, piú vicina a Newton che a Darwin.Quando Chomsky tratta il problema mente-corpo tende, nona caso, a confondere i piani affermando che, poiché la mecca-nica cartesiana è stata disconfermata dal lavoro di Newton, nonsappiamo piú con precisione cosa sia un corpo e di conseguen-za è impossibile porre il problema del suo rapporto con la men-te. In questo ragionamento non ci sono solo imprecisioni piut-tosto evidenti (tanto per dirne una, sembra poco plausibile af-fermare che la fisica contemporanea fornisca una conoscenzadei corpi materiali meno perspicua di quella cartesiana) ma so-

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Sottolineare l’importanza della specifica corporeità umananon significa, si badi, negare l’importanza del linguaggio ver-bale: il suo rilievo evolutivo, la sua potenza semiotica o il suovalore cognitivo. Si tratta piuttosto di individuare le condizionidi possibilità del linguaggio, di comprendere quale sia, po-tremmo dire, la sua presa a terra. Solo individuando le caratte-ristiche morfologiche che distinguono l’essere umano dal restodel regno animale potremo comprendere non solo il tipo di ra-zionalità che contraddistingue la nostra specie ma anche la for-ma di animalità che ci è propria. Nei paragrafi precedenti ab-biamo visto piú volte che nell’animale razionale il linguaggiosembra aggiungersi a un corpo anonimo, senza carattere, néspecificità. Un ingrediente nuovo e misterioso grazie al qualela nostra specie ha fatto la sua comparsa sulla terra. Ma qual èl’origine e il significato di questo ingrediente?

Per comprenderlo dovremo rivolgerci a un’altra definizioneche, sin dall’antichità, ha conteso a quella di animale razionalela specificazione della nostra identità: l’animale umano è bipe-de implume.

Queste due definizioni, è opportuno sottolinearlo, non so-no necessariamente in contrasto tra loro. Ma per comprenderela natura umana bisogna far precedere lo studio della nostramorfologia corporea a quello del linguaggio e della razionalitàpoiché è il nostro corpo, non semplicemente il cervello, a con-giungere prima e seconda natura.

4.1. Il «doppio schiacciamento» cognitivista: l’occhio di Hal

Uno dei lungometraggi piú noti di Stanley Kubrik è certa-mente 2001: Odissea nello spazio. Il film, molto complesso earticolato, narra tra le altre cose la storia di un computer. Hal2000, questo il suo nome, è il sistema computazionale che ge-stisce la navicella spaziale. Gradualmente il film illustra la ri-bellione di Hal che prima rifiuta di obbedire agli ordini che glivengono impartiti e poi cerca di eliminare gli esseri umani pre-senti nel modulo spaziale. Per mostrare l’autocoscienza delcomputer Kubrik concentra l’attenzione dello spettatore sul-

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4. Verso il bipede implume

Come abbiamo visto, la scienza cognitiva propone una vi-sione dell’essere umano precisa: è un animale razionale. Ab-biamo anche visto alcune delle difficoltà che comporta questaposizione poiché prima e seconda natura non riescono a trova-re un rapporto d’equilibrio: o sono del tutto separate tra loroo una è ridotta all’altra. I caratteri reattivi della rivoluzione co-gnitiva, tra i quali spicca l’analogia mente-computer, hanno im-pedito finora di abbandonare (o di abbandonare completa-mente) tre tendenze di fondo:

1. Il paradigma cognitivo è tendenzialmente fissista. L’astrazio-ne dai fattori ambientali e la concentrazione sulla trasmis-sione ereditaria dell’informazione hanno come logica con-seguenza un sostanziale disinteresse o un impedimento spes-so decisivo ai tentativi di apertura al darwinismo.

2. Il paradigma cognitivo è tendenzialmente teista. Senza evo-luzionismo è impensabile trovare una descrizione soddisfa-cente delle somiglianze-differenze tra animali umani e nonumani poiché la frattura tra specie umana e regno animalediviene inevitabile. L’analogia mente-computer implicita-mente afferma: come il computer è opera dell’essere uma-no, cosí l’essere umano risulta il frutto di una creazione.

3. Il paradigma cognitivo, anche quando è evoluzionista, rimanetendenzialmente riduzionista. Tentativi come quello di Pinker(cfr. par. 3.2) mostrano che l’inserimento della dimensioneevolutiva nello studio cognitivo della natura umana assumeun carattere ambiguo. La Nuova Sintesi fornisce un’inter-pretazione meccanica del darwinismo che cerca di ridurre ledinamiche culturali umane a comportamenti regolati da pro-cessi di selezione naturale e adattamento (è un punto che,seppur a margine, continueremo ad affrontare anche neiprossimi capitoli. Cfr., ad es., cap. IV, par. 6.2). Da questopunto di vista l’evoluzionismo cognitivo, pur sottolineandole componenti innate a scapito di quelle ambientali, non èmolto dissimile dal darwinismo comportamentista.

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ordinaria sono ben diversi. Quasi tutti gli eventi, o per lo meno quelliche ci interessano o destano la nostra attenzione, stimolano piú di un si-stema sensoriale (Neisser, 1976, p. 52).

Il carattere sinestetico della percezione non può che esseretrascurato da un approccio alla percezione che elimina dallapropria indagine i fattori ambientali. Se si lavora in laboratorioè conveniente considerare solo un senso alla volta o, per me-glio dire, studiare un solo senso. Neisser a tal proposito non hadubbi:

Raramente gli psicologi hanno discusso la natura cumulativa, guidata in-ternamente, che caratterizza la percezione. Forse questo è dovuto al fattoche quasi tutti gli esperimenti relativi alla percezione si basano sull’atti-vità visiva (ivi, p. 38).

A tutt’oggi la situazione non sembra cambiata molto. In cor-rispondenza alla mancata (o parziale) apertura della scienza co-gnitiva ai fattori ambientali, troviamo un atteggiamento ancoramonosensoriale. Quasi tutti i testi che abbiamo citato finora pro-seguono implicitamente nell’identificazione tra percezione e vi-sione: Chomsky (1980, 1988), Johnson-Laird (1993), Tabossi(1994), Pinker (1994), Taghard (1996), McDowell (1996), Marco-ni (2001) procedono tutti su questa linea7. Il rifiuto di ampliare ilparadigma cognitivo ad ambiente e società ha avuto come effettocollaterale (o, da un altro punto di vista, come presupposto) ilmantenimento di questa rigida identificazione. I computer nontoccano8, né annusano, né gustano. Al massimo sentono la vocedei loro programmatori (come nel caso di Hal e degli ordini vo-cali che gli sono impartiti): ma non si tratta di suoni bensí di pa-role, cioè elementi sensoriali da decodificare in stringhe simboli-che (esamineremo meglio questo secondo punto tra poco).

Cosa ancora piú notevole è che questa identificazione rimanequasi inalterata anche in testi specificamente dedicati alla perce-zione. Prendiamo ad esempio Sensation and Perception di S. Co-ren, L.M. Ward e J.T. Enns. Si tratta di un testo di carattere ge-nerale sulla percezione che vanta cinque edizioni ed è tra le ope-re piú citate su questo argomento degli ultimi quindici anni9.

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l’equivalente robotico degli occhi umani: gli obiettivi rossi del-le telecamere presenti sulla navicella. Per questa ragione ci sem-bra che il film si presti a illustrare due aspetti strutturali e im-pliciti del paradigma cognitivo. Hal è un elaboratore superin-telligente il cui corpo è misterioso, fuso con l’ambiente circo-stante: per un verso è l’intera astronave, per un altro non esistepoiché non ha congegni dedicati, non ha nulla del cyborg diTerminator o dei robot che popolano altri film di fantascienza.Il corpo è lo sfondo degli avvenimenti, mentre la figura, ciò sucui spettatore e regista si concentrano, è quell’occhio rosso. Lapercezione è ridotta all’esperienza visiva e allo stesso tempovedere non vuol dire altro se non computare a velocità supere-levata. Proprio per queste ragioni l’occhio di Hal incarna quel-lo che potremmo definire il «doppio schiacciamento» che ca-ratterizza buona parte della scienza cognitiva:

1. Primo schiacciamento: la percezione è identificata con l’e-sperienza visiva.

2. Secondo schiacciamento: la vista è assorbita dal linguaggio.

Partiamo dal primo punto. Il paradigma cognitivo, al di làdelle sue pretese rivoluzionarie, si inserisce a pieno nella tradi-zione del pensiero occidentale poiché elegge, piú o meno esplici-tamente, la vista a primo tra i sensi6. La rimozione del corpo del-la quale abbiamo parlato nei paragrafi precedenti passa infattiper un processo metonimico, per l’identificazione del tutto conla parte: il corpo è risucchiato dagli occhi, le membra del com-puter sono rappresentate da una telecamera o da un monitor.Non a caso sono proprio le forme piú eterodosse di cognitivismoa sottolineare l’esigenza di riscoprire la varietà dei nostri sistemisensoriali. Gibson (1966), come vedremo nel capitolo III, scrivealla fine degli anni sessanta una monografia sulla complessità del-la sensorialità umana per molti versi ancora oggi insuperata. Neis-ser, nella sua critica al cognitivismo da laboratorio, ricorda:

Negli esperimenti sulla percezione novantanove su cento (o addirittura999 su 1000) implicano la stimolazione di un solo senso. I fatti della vita

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spaventato protagonista e, allo stesso tempo, utilizza una vocecalda e rassicurante che contrasta con il carattere devastantedelle sue azioni. Si tratta di un elemento convergente con l’a-nalisi del nostro testo campione, Sensation and Perception, chepur essendo dedicato in gran parte alla visione, riserva tre ca-pitoli a udito e voce. Quella uditiva costituisce però una mo-dalità percettiva particolare poiché tutta concentrata sulla com-prensione e sulla produzione di suoni che non sono altro cheparole. Piú che di una modalità di esperienza si tratta infatti diun canale comunicativo, di un medium del flusso verbale. L’u-dito è considerato solo la porta di ingresso rapida di quello chedi solito avviene tramite la tastiera: la programmazione delsoftware da parte dell’operatore o la scelta di opzioni precosti-tuite all’interno di un sistema già pronto10. Per la percezionevera e propria, potremmo ipotizzare, rimane l’occhio. Ma èproprio cosí? A ben pensarci, secondo il paradigma cognitivoanche questo senso, seppur in modo diverso, è espressione dellinguaggio. Mentre tramite l’udito la programmazione è espli-cita, verbale e in tempo reale (ciò che nel film momento permomento permette al protagonista, prima della ribellione, diaprire porte, variare la rotta, modificare l’illuminazione, ecc.),la vista risente di una programmazione implicita e silente. È ilsistema operativo del computer a gestire il funzionamento diquello che rimane comunque un elaboratore di informazioni:certi stimoli visivi vengono registrati dalla telecamera che poiattraverso sofisticate regole di calcolo li inserisce come dati al-l’interno di un sistema di variabili predefinito perché program-mato dal suo costruttore.

Nel paradigma cognitivo la differenza alla fine è tutta qui:nel caso dell’udito il carattere linguistico della percezione èesplicito, in quello della vista è implicito. La voce esprime de-cisioni consapevoli (il tono caldo di Hal vuol suggerire proprioquesto carattere d’autocoscienza), mentre il suo algido occhiorosso riflette scelte inconsapevoli, poiché stabilite dal program-matore. Nella scienza cognitiva ritroviamo un modello della vi-sione di questo tipo sia nella teoria piú forte della visione pro-posta, ad esempio, da Gregory (1966) che in quella piú debole

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Questo libro cerca di illustrare lo stato dell’arte delle ricer-che sia fisiologiche che cognitive sulla percezione senza fare ri-ferimento, come si specifica nella prefazione (p. vi), a «nessunaspecifica teoria sulla percezione».

Per questa ragione è opportuno soffermarci per un attimosu un testo che, pur essendo di ispirazione cognitiva, non neriflette nessuna tendenza specifica e di conseguenza evidenziai limiti e i pregiudizi generali sulla percezione di questo para-digma. Ci troviamo di fronte a un poderoso volume articolatoin 18 capitoli. Molti di questi trattano, almeno apparentemen-te, alcune caratteristiche generali della percezione: lo spazio(cap. 9), la forma (cap. 10), la costanza (cap. 11), il tempo (cap.13), il movimento (cap. 14), l’attenzione (cap. 15), lo sviluppo(cap. 16), apprendimento ed esperienza (cap. 17) e le differen-ze individuali (cap. 18). Altre sezioni sono dedicate inveceesplicitamente alle diverse modalità sensoriali. È sufficienteuna lettura sommaria per rendersi conto della preponderanteasimmetria che struttura il testo.

In primo luogo nelle sezioni dedicate ai diversi sensi: tatto,olfatto e gusto sono raccolti in un unico capitolo; vista e udito neoccupano tre ciascuno. Se poi si va a guardare un po’ meglioemerge un altro dato. I capitoli che trattano fenomeni generalidella percezione fanno riferimento solo a fenomeni visivi: il mo-vimento è quello dell’apparato oculare e degli oggetti visti, la co-stanza riguarda la grandezza e forma visiva e cosí via. Per quelche riguarda gli altri sensi, ben che vada, sono relegati in un pa-ragrafo (cap. 16) oppure ci si limita a qualche esempio sporadico(capp. 14 e 18). Risultato: su diciotto capitoli, due sono effettiva-mente di carattere generale, tre sono dedicati all’udito, uno a glialtri sensi e dodici alla vista. Due terzi del testo che si intitola Sen-sazione e percezione sono perciò dedicati a un unico senso. Parla-re di identificazione tra percepire e vedere non può sembrarequindi esagerato.

Trattiamo ora il secondo punto facendo ritorno ad Hal. Co-me accennavamo poco fa, oltre che per quella visiva il compu-ter del film di Kubrik si distingue anche per un’altra modalitàsensoriale: quella vocale-uditiva. Sente le parole proferite dallo

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diffuso e privo di membra, impegnato a risolvere problemi ma-tematici e a scovare valori in equazioni incomplete.

4.2. Il corpo: lo sfondo rimosso

Possiamo ora far ritorno a quello che nel primo paragrafoabbiamo chiamato il problema della figura-sfondo. La scienzacognitiva sostiene che definire l’essere umano un animale ra-zionale è sufficiente per coglierne la specificità e, al contempo,per evidenziare i tratti che lo legano alle altre forme di vita. Inrealtà, questa strategia euristica si rivela fallimentare poiché se-para nettamente il sostantivo «animale» (generico e anonimo)dall’aggettivo «razionale» (unico e specifico). L’essere umanoappare come una scimmia con innestato nella testa un potenteprocessore elettronico: una specie di Frankenstein darwinianonel quale un cervello nuovo viene inserito in un vecchio corpo.Qualunque processo percettivo dimostra invece che esperireimplica un rapporto tra figura e sfondo che non consiste in unsemplice processo di analisi e ritaglio. Quando sento un rumo-re, lo distinguo da uno sfondo percettivo determinato. Questosfondo non solo consente (cioè costituisce la condizione di pos-sibilità) il mio percepire (se nella strada accanto c’è un martel-lo pneumatico al lavoro, sarà difficile sentire il canto del miocanarino) ma ne modifica e struttura le caratteristiche. Pensia-mo a un’esperienza quotidiana: vedere un film come il già cita-to 2001: Odissea nello spazio. Un esperimento semplice ma si-gnificativo è quello di abbassare improvvisamente il volumedel televisore o di lasciare solo gli effetti sonori facendo scom-parire la musica di sottofondo. Il film non solo risulterà menocoinvolgente ma anche meno veloce nel suo svolgimento e me-no frenetico nelle parti piú movimentate come il conflitto tragli ominidi e nelle fasi piú concitate dello scontro tra Hal e ilsuo rivale umano. La figura visiva senza un adeguato tappetosonoro perde carattere, modifica le sue proprietà rallentandola propria corsa. La scienza cognitiva trascura questo sfondo.Per un verso la specifica animalità dell’essere umano, avere ilcorpo di un bipede implume, costituisce condizione di possi-

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adottata da Johnson-Laird (1993). Per il primo, vedere signifi-ca calcolare: percepire la distanza, le forme degli oggetti e laprofondità di campo vuol dire dispiegare un complesso siste-ma di ipotesi e di inferenze e costruire una rappresentazionevisiva dell’ambiente circostante. Il secondo assume invece unaposizione piú conciliante poiché prova a integrare la prospetti-va ecologica di Gibson con quella computazionale. Per un ver-so l’informazione visiva è contenuta nell’ambiente che ci cir-conda, per un altro però questa costituisce solo il materialegrezzo di processi computazionali:

La visione è abbastanza simile al problema di trovare il valore di x nell’e-quazione: 5=x+yL’equazione semplicemente non è ben formulata, dal momento che nonc’è modo di determinare quale parte del 5 provenga da x e quale da y.Se, in base a conoscenze precedenti, si può assumere che y ha probabil-mente un valore minore di 1, si potrà allora inferire che x ha probabil-mente un valore maggiore di 4. Nella visione, le assunzioni sul mondorendono risolubile un problema mal formulato (ivi, p. 67).

Non a caso, però, Johnson-Laird (ivi, pp. 64 sgg.) apre latrattazione della visione prendendo in esame il paragone tra oc-chio e telecamera. Per lo psicologo americano una telecamera,presa isolatamente, è un simulatore inefficace della visione uma-na non perché questa costituisce una protesi senza corpo maperché dietro a questa dobbiamo aggiungere un elaboratore diinformazioni. La percezione in generale e quella visiva in parti-colare viene considerata come l’impressione passiva di una su-perficie sensibile ai cambiamenti ambientali che necessita di unsistema di calcolo che renda l’informazione stabile e coerente.Come McDowell, anche Johnson-Laird propone una concezio-ne della percezione come processo passivo che registra infor-mazioni. Vedremo nel terzo capitolo che un modello alternati-vo della percezione, non linguistico né computazionale, si con-centra invece sul carattere attivo del processo percettivo messoin atto da un corpo che coglie informazioni nella sua nicchiaambientale. Ma per il paradigma della percezione che abbiamochiamato «l’occhio di Hal» la questione è un’altra: percepire si-gnifica usare una telecamera montata su un computer potente,

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biamo fatto riferimento finora. Nel suo testo piú noto, L’erroredi Cartesio, critica la separazione tra emozione e cognizionedescrivendo un’ampia casistica volta a dimostrare come un cer-to tono emotivo costituisca condizione indispensabile per laprogettazione di azioni e scopi, il perseguimento di fini e com-portamenti che saremmo inclini a definire razionali. La radicedi questi stati emozionali è individuata proprio nella percezio-ne di stati corporei interni. Nel suo libro successivo, Damasiocontinua a mettere in evidenza quanto sia profondamente im-puro il carattere del conoscere umano:

Non esiste una percezione pura di un oggetto nell’ambito di un canalesensoriale, per esempio della visione. I cambiamenti concomitanti che hoappena descritto non sono un accompagnamento facoltativo. Per perce-pire un oggetto, visivamente o in altro modo, l’organismo ha bisogno disegnali sensoriali specializzati e dei segnali che derivano dagli aggiusta-menti del corpo necessari affinché si realizzi la percezione (Damasio,1999, p. 182).

Come è impura la nostra elaborazione di informazioni, cosíè impura la nostra percezione quasi mai limitata al funziona-mento di un singolo modulo. Sfondo della razionalità umana èil suo corpo: una presenza incarnata che costituisce un flussocostante di percezioni.

La psicologia cognitiva tende ad affrontare invece lo studiodella percezione lungo una dicotomia: quella tra proprietà mo-dali e amodali. Le prime (colore, sapore, odore, calore) costi-tuirebbero le caratteristiche degli oggetti colte da un senso spe-cifico. Le seconde (forma, grandezza, ecc.) emergerebbero dal-l’elaborazione simbolica del contenuto percettivo delle nostreesperienze. Si tratta di una sorta di meccanismo tutto-nientenel quale si danno solo due casi: o abbiamo un’esperienza mo-nosensoriale (perché blindata nel modulo) o un’astrazione lin-guistica che ne estrae informazioni generali.

È necessario invece articolare la dicotomia modale-amodalein una struttura ternaria piú complessa e flessibile che prevedala presenza di un terzo termine costituito dalle proprietà inter-modali11. Le proprietà intermodali non sono proprie di un solo

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bilità per la sua razionalità. Per un altro stazione eretta, nuditàdella pelle e liberazione delle mani caratterizzano una raziona-lità spuria poiché permeata di emozioni e percezioni. Questosfondo ha subíto una rimozione costante poiché dal comporta-mentismo prima e dal cognitivismo poi il corpo è stato consi-derato una macchina (idraulica o computazionale) con uno sta-tuto che ha oscillato tra l’indeterminatezza affermata da Chom-sky e quell’anonimato presupposto dalla maggior parte degliautori contemporanei. Nell’illustrare il problema della figura-sfondo abbiamo cominciato con un caso visivo (i pappagallidel primo paragrafo di questi capitolo) e abbiamo continuatocon uno sonoro, quello cinematografico. Abbiamo procedutoper approssimazioni volendo mostrare in primo luogo come ilrapporto tra questi due termini valga per diverse modalità per-cettive. Ma lo sfondo al quale vogliamo riferirci è piú generaleperché é ciò che costituisce il punto di riferimento non solodel linguaggio ma anche di tutte le altre esperienze sensoriali:l’interezza del nostro corpo.

Anche le ipotesi piú soft della scienza cognitiva ridimensio-nano il ruolo delle inferenze computazionali utilizzando di so-lito la nozione di modulo, già incontrata nel paragrafo 3.2. Latesi sostiene che alcune sezioni del processo percettivo poichéautomatiche e informazionalmente incapsulate, non risentonodelle ingerenze del sistema centrale e, di conseguenza, del lin-guaggio verbale. Johnson-Laird ad esempio afferma:

Anch’essi [gli indici percettivi importanti da un punto di vista biologico]probabilmente si basano su vincoli innati che operano automaticamentee inconsciamente e sono relativamente indipendenti dalla conoscenzadegli oggetti. Essi sono parte di ciò che potrebbe essere definito perce-zione pura [...] (ivi, p. 111).

Inserire la figura sullo sfondo significa rinunciare a questapurezza, al presunto carattere cristallino della razionalità uma-na cosí come al funzionamento monosensoriale della nostra vi-ta percettiva.

In questi ultimi anni A. Damasio (1994, 1999) ha evidenzia-to efficacemente alcuni dei limiti della scienza cognitiva cui ab-

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Nel pensiero occidentale il tatto vive di un’ambivalenza difondo. Da un lato essa è in un organo specifico e localizzato: lemani; dall’altro è percezione e presenza del corpo intero.

Se prendiamo in esame la cosiddetta «questione Molyneux»,questa ambivalenza emerge con chiarezza. In una lettera data-ta 3 marzo 1693, William Molyneux (1656-1698) poneva a JohnLocke (1632-1704) il seguente problema:

Supponete un cieco nato che sia oggi adulto, al quale si sia insegnato adistinguere mediante il tatto un cubo da una sfera, dello stesso metallo e,a un dipresso, della stessa grandezza, in modo che quando egli tocca l’u-no o l’altro, sappia dire qual sia il cubo e quale la sfera, questo cieco ven-ga ad acquistare la vista. Si domanda se, vedendoli prima di toccarli, eglisaprebbe ora distinguerli, e dire quale sia il cubo e quale la sfera (Locke,1694, p. 147).

Il problema del cubo e della sfera (che ancora oggi anima ildibattito psicologico contemporaneo) identifica implicitamen-te il tatto con le mani e le loro capacità percettive. Ma se an-diamo a considerare alcune delle soluzioni proposte al proble-ma vediamo che le cose si complicano. Leibniz (1765, p. 130),ad esempio, tenta di rispondere al quesito ipotizzando il casoinverso, una persona cioè priva del tatto ma fornita di vista enel farlo immagina un soggetto paralizzato. Berkeley (1709, pp.146-150) pensa invece a un puro spirito, cioè a una personapriva di corpo. Questi esempi suggeriscono che il tatto non èsolo un senso manuale ma qualcosa di piú complesso. Leibnize Berkeley ci spingono infatti a porci la domanda: cosa sareb-bero uomini privi del senso del tatto?

A pensarci bene chiamiamo cieche persone prive della vi-sta, sorde quelle senza l’udito, anosmiche quelle prive dell’ol-fatto, affetto da ageusia chi è senza il gusto, ma non abbiamoneanche un nome per definire uomini senza il tatto. Al giornod’oggi è possibile parlare di aprassia tattile (Binkofski et al.,2001), un disturbo che riguarda la capacità di usare utensili, odi agnosia tattile (Claparéde, 1904; De Renzi, 1990), un deficitpercettivo che consiste però solo nella incapacità a riconoscerela forma stereoplastica dei corpi e non certo in una completa

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senso né di tutti ma solo di alcuni. Alcune caratteristiche spa-ziali come distanza e forma potrebbero costituirne un esem-pio. In tal modo è possibile evitare di postulare una connessio-ne binaria tra i sensi e prender atto di relazioni piú complesseche prevedono la presenza di connessioni intersensoriali piúforti (ad es. mano-occhio; naso-bocca) e meno forti (naso-oc-chio; orecchio-bocca).

Il carattere intrinsecamente sinestetico della nostra vita per-cettiva costituisce un’ulteriore disconferma dell’ipotesi modu-lare della mente. Questa infatti non considera due fattori dicorrosione: quello reciproco tra i sensi e quello svolto dai sensisul linguaggio. In altre parole, elaborare un modello della na-tura umana che ci consideri in primo luogo bipedi implumivuol dire considerare le specificità del corpo umano secondodue direttrici:

1. La corporeità umana è condizione di possibilità della no-stra razionalità.

2. Il nostro corpo fornisce una proprietà sinestetica fonda-mentale alla percezione degli oggetti poiché costituisce losfondo delle nostre esperienze.

Solo in questo modo supereremo in modo radicale quel dua-lismo tra res cogitans e res extensa che né comportamentismoné cognitivismo sono riusciti a scongiurare. È proprio la speci-ficità del corpo umano a costituire la dimensione che tiene in-sieme prima e seconda natura, la chiave di volta che sorreggevita biologica e culturale.

4.3. Il tatto: senso del corpo

In questo testo non parleremo del corpo in modo vago ogenerico. Tenteremo di vederlo attraverso una lente focale chene metta a fuoco caratteri e portata, e questa lente focale saràcostituita dall’esperienza tattile. Il corpo dell’animale umano siesprime in primo luogo nel suo senso tattile, questa è una delletesi principali del libro.

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poreo» o «immagine di sé») e come tale non può esser con-siderato separatamente dalle sensazioni cinestesiche (cfr.ad es. Schilder, 1935; Fraisse, Piaget, 1963; Mountcastle,1984; e soprattutto Cardona, 1985). La somestesia costitui-sce un complesso sistema percettivo che, anche a un primosguardo, mostra una compenetrazione tra i suoi sottosiste-mi dall’elevato valore evolutivo poiché rappresenta unacondizione necessaria per la sopravvivenza biologica e, diconseguenza, per il linguaggio. Come vedremo, la perce-zione somestesica si rivela fondamentale, infatti, per lo svi-luppo organico, sociale ed emotivo.

– La «percezione aptica», espressione utilizzata soprattutto apartire da fine ottocento/inizio novecento, viene definitanell’ambito di due contrapposizioni concettuali. La primacaratterizza soprattutto la prima metà del secolo e oppone,sia in campo artistico che psicologico, la percezione apticaa quella visiva con l’obiettivo di stabilire una precisa gerar-chia sensoriale. In questo caso il termine è utilizzato in sen-so etimologico (dal verbo greco ëptv, tocco presente già nelDe partibus animalium di Aristotele) e assume il significatogenerico di percezione legata al tatto. La seconda contrap-posizione, quella piú interessante, propone, al di là di ognipresunta gerarchia sensoriale, una distinzione all’interno delsenso tattile. Tra gli altri, G. Révész (1938) prima e J.J. Gib-son (1961) poi, distinguono una modalità tattile attiva dettaaptica, tipica della prensione e della esplorazione attiva, dauna modalità tattile passiva basata sulla mera sensazione dicontatto subita dalla pelle come nel caso di un pizzico, diuna puntura o di una leggera pressione. È proprio attraver-so la modalità aptica che il tatto riesce a percepire forme inun modo accessibile solo alla mano nella loro concreta e si-multanea tridimensionalità.

Proprio questa polarità rende difficile sostenere che il tattosia un senso come gli altri: è il senso della nostra presenza edella percezione del nostro corpo. L’esperienza tattile coinvol-

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insensibilità corporea. Forse potremmo pensare a persone pri-ve delle mani: ma in questo caso tenderemmo a definirle comeesseri monchi. Animali umani privi del tatto non esistono népotrebbero esistere perché significherebbe dire che sono deiviventi disincarnati.

Il senso tattile infatti non è solo localizzato nelle mani maesteso nel corpo. Faremo nostra questa ambivalenza senza cer-care di ridurla: considereremo il tatto proprio come il sensocaratterizzato da una duplicità.

Il tatto è un sistema sensoriale complesso che vive della ten-sione tra due polarità. Una diffusa ed estesa, di solito chiama-ta somestetica, e una focalizzata e locale, la percezione aptica.Per farci intendere meglio, diamone una presentazione rapidae generale:

– La somestesia, etimologicamente percezione del corpo, puòessere definita come un macrosistema percettivo che com-prende al proprio interno sei sottosistemi: tattile, nocicetti-vo, viscerale, cinestetico-propriocettivo, vestibolare e ter-mico. Questi sottosistemi sono deputati alla percezione ri-spettivamente di contatto, dolore, stati viscerali e termici,posizione degli arti e del corpo, dell’equilibrio. Tali sensa-zioni spesso sono mescolate tra loro tanto da divenire indi-scernibili: gli stati dolorosi, ad esempio, possono essere pro-vocati da un’intensa fonte termica (il fuoco), da violentesensazioni tattili (con cui dividono alcune afferenze nervo-se, cfr. Schwob, 1994, pp. 31-35) come un colpo o un piz-zico, ma anche da patologie degli organi interni o dal mo-vimento di un arto fratturato o slogato. Alcuni autori (ades. Gibson, 1966; Sacks, 1984; Negri Dellantonio, 1994)suggeriscono di escludere dalla somestesia la percezionedell’equilibrio che considerano un sistema propriocettivoindipendente localizzato nell’orecchio medio. A nostro pa-rere questa scelta è svantaggiosa perché trascura un ele-mento fondamentale: la fenomenologia dell’equilibrio, puravendo un sistema specifico di rilevamento, riguarda ne-cessariamente il corpo nella sua interezza (lo «schema cor-

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sensoriali (cfr. cap. III, paragrafo 4.1); è la nudità del nostrocorpo e la sua morfologia che costituisce l’alveo delle nostreforme culturali (per la manualità: cfr. cap. III), il presuppostobiologico della nostra seconda natura e della facoltà del lin-guaggio (cfr. cap. IV).

Per questa ragione il tatto costituisce il «secondo senso»: dauna parte perché storicamente è considerato il principale riva-le della modalità sensoriale per eccellenza, la vista (si pensi allaquestione Molyneux). Da un’altra è il secondo senso perchéchiave della duplicità propria della specie umana: è il tatto acostituire il cardine della connessione tra prima e seconda na-tura, corpo e società, biologia e psicologia. È il tatto il sensodel bipede implume che parla.

Letture consigliate

Per il lettore che intendesse approfondire ulteriormente i temi affrontatiin questo libro proporremo alla fine di ogni capitolo qualche suggerimento,suddiviso per punti il cui il tema sarà evidenziato in corsivo:

– Felice Cimatti (in stampa) propone una ricostruzione molto interessantedel rapporto tra comportamentismo e cognitivismo, piú precisamente traSkinner e Chomsky, mettendo in luce i tratti di continuità tra i due pa-radigmi.

– In italiano il testo piú completo sulla storia del paradigma cognitivista,seppur ormai datato, rimane Gardner (1985). Il libro propone la storia,disciplina per disciplina, delle scienze che compongono «l’esagono co-gnitivo» sottolineando il carattere interdisciplinare e rivoluzionario diquesto modello. Contiene una introduzione sintetica all’approccio ecolo-gico di Gibson, alla teoria della visione di D. Marr e alla teoria dei pro-totipi di E. Rosch.

– Per il dibattito attuale sul futuro delle scienze cognitive si veda il numero2 del 2002 del Giornale italiano di psicologia dedicato a questo tema (coninterventi, tra gli altri, di Gallese, Parternoster, Marraffa, Ferretti, Goz-zano) e i numeri 1 e 2 del 2002 di Sistemi intelligenti (con contributi, tragli altri, di Benvenuto, Cimatti, Legrenzi, Marconi, Marraffa e Parisi).Nel volume Scienze cognitive (2002) Massimo Marraffa propone una vi-sione che definisce «riformista» che superi l’antibiologismo e l’indivi-dualismo che segna la scienza cognitiva classica attraverso l’elaborazionedi un modello multidimensionale della cognizione. Per un testo introdut-tivo alle scienze cognitive si veda Legrenzi (2002): una pubblicazione agi-

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ge quindi non solo il modo con cui siamo in rapporto con ilmondo ma il fatto stesso dello stare nel mondo. Il tatto è con-dizione indispensabile dello stare al mondo. Per un verso il tat-to individua dei «come» dell’esperienza: modi di esplorare ilmondo e di conoscere ciò che lo circonda (senso aptico) maanche percezione di temperatura, vibrazione e dolore. Per unaltro verso il tatto individua il «che» dell’esperienza: comun-que sia essa è corporea (senso somestetico). Cosa vedrebbero,ad esempio, esseri con le pupille sotto le piante dei piedi? Gliocchi vedono lontano anche perché godono di una certa posi-zione nel corpo, perché sono in alto: la vista non è un’espe-rienza pura non solo quindi perché si avvale, come sostieneDamasio (1994, p. 317; 1999, p. 307), di feedback e sensazionicorporee, ma soprattutto perché il suo intero campo fenome-nico è strutturato dalla posizione degli occhi rispetto al corpo(per la frontalità della visione umana e il suo rapporto con leattività manipolative si veda il cap. II).

L’identificazione tra tatto e corpo, si potrebbe obiettare, ri-propone però una logica sensoriale inevitabilmente gerarchica:scalza la vista per affermare il tatto come senso dei sensi. Perun certo verso è cosí poiché rivendichiamo un primato del tattoanche se non di tipo ontologico in senso tradizionale poichénon si baseràsu un materialismo talmente grezzo da ridurretutte le forme percettive a scontri tra corpi materiali. Non ri-durremo, cioè, i campi fenomenologici su un unico piano diordine fisico (contatto tra atomi) o fisiologico (eccitazione diterminazione nervose per contatto). Si tratta invece di un pri-mato diverso ma duplice.

Innanzitutto ontico (cfr. Heidegger, 1927): il tatto è condi-zione di conoscenza del mondo, rappresenta una necessità perl’esistenza: esistono uomini senza vista ma non esistono uomi-ni senza corpo. In tal senso individuare il ruolo fondante deltatto come condizione di possibilità dell’esperienza non signi-fica disconoscere l’importanza delle differenze tra le diversemodalità sensoriali.

In secondo luogo, evolutivo (in senso sia ontogenetico chefilogenetico): è dalla pelle che si specializzano le altre modalità

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II. Animali sprovveduti

Che esseri poco percettivi siamo!S.J. Gould

1. Aprire la scatola della mente

Come abbiamo visto nel capitolo primo, è il tatto a costi-tuire la chiave di volta della natura umana, il pilastro in gradodi sorreggere e congiungere gli aspetti biologici e culturali,ciò che McDowell chiama rispettivamente prima e secondanatura.

Questo senso ha la peculiarità di essere infatti uno e bino: ècostituito dalla sensibilità diffusa ed estesa della pelle (perce-zione somestetica) ma è anche focalizzato in una modalità piúcircoscritta, la percezione aptica propria dell’azione manuale.

Gli studi e le riflessioni piú importanti sulla percezione tat-tile presenti nel novecento seguono due linee fondamentali di-stinte, seppur tra loro interconnesse. La prima, della quale cioccuperemo in questo capitolo, ha come principale riferimentiteorici e scientifici l’antropologia filosofica, la biologia morfo-logica e l’etologia (animale e umana). La seconda, invece, allaquale dedicheremo il capitolo terzo, rappresenta gli sviluppiteorici e sperimentali della psicologia della Gestalt e di quelloche abbiamo chiamato il cognitivismo eterodosso (o ecologico)di Neisser e Gibson.

Ognuna di queste linee di ragionamento e ricerca ha con-centrato la propria attenzione su uno dei due aspetti che carat-terizzano il tatto dando origine cosí a una interessante comple-

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le e chiara caratterizzata da una impostazione piú gestaltica della media eda un ultimo capitolo su scienze cognitive e società.

– In Mente e Simulazioni Domenico Parisi (1999, 2001) presenta una pro-spettiva interessante, chiamata Vita artificiale. Si tratta di un approccioche si oppone al paradigma cognitivo, poiché non propone il computercome modello della natura umana ma come mezzo per la simulazione deiprocessi biologici e culturali. Una posizione piú conciliante è propostadalla cosiddetta Nuova Robotica che cerca di progettare sistemi cognitiviintegrando conoscenza, azione e percezione abbandonando l’idea di unsistema centrale che controlli azioni e movimenti tramite rappresentazio-ni e ragionamenti. Un’illustrazione di questo paradigma, chiara e ricca diesempi, è fornita da Clark (1997).

– Negri Dellantonio (1994) fornisce una descrizione sia della percezioneaptica che di quella somestetica illustrando alcuni dei principali processifisiologici che sono alla base delle percezione tattile. A tal proposito, piúdettagliato, quindi molto tecnico, resta Mountcastle (1984), mentreBerthoz (1997, 2003) propone una concezione del tatto che presta parti-colare attenzione alla sinestesia poiché integra dati psicologici, neurolo-gici e fisiologici all’interno di una prospettiva piuttosto suggestiva chesottrae alla rappresentazione mentale molto del suo presunto potere co-gnitivo. Il problema è che gran parte dei dati fisiologici disponibili si ba-sa sul presupposto, tutt’altro che scontato, che i risultati ottenuti dallostudio dell’anatomia delle scimmie possano essere trasferiti, senza troppedifficoltà, all’essere umano. Questo atteggiamento di fondo, che riguardasoprattutto le ricerche che interessano piú da vicino il senso tattile, è li-mitante perché non consente di verificare con maggiore precisione qualisiano le differenze corporee tra primati umani e non umani.

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mento chiave di questo approccio; da un altro, però, sembrache la biologia rilevante per lo studio dell’intelligenza umanasia solo quella che riguarda il cervello. La scienza cognitiva èspesso preda di quella che Wittgenstein era solito chiamareun’illusione filosofica:

Stranamente, una delle idee filosoficamente piú pericolose è l’idea chepensiamo con la testa o nella testa. L’idea del pensare come di un pro-cesso che ha luogo nella testa; in uno spazio perfettamente conchiuso,conferisce al pensare un che di occulto (Wittgenstein, 1967, paragrafi605-606).

Pinker (cfr. cap. I, paragrafo 3.2) costituisce un buon esem-pio di una simile tendenza: egli descrive il linguaggio come «lacapacità di inviare da una testa all’altra un numero infinito dipensieri strutturati» (1994, p. 354) e si abbandona in afferma-zioni del tipo che è necessario ammettere che «nella testa del-l’uomo c’è qualcosa di piú di una tendenza generalizzata adapprendere» (ivi, p. 409). Marconi (cfr. cap. I, paragrafo 3.3)sostiene che è il cervello, il luogo cardine per la svolta che con-duce dalla prima natura alla seconda, dalla biologia alla cultu-ra. Il pensiero cosí sembra essere incapsulato dentro una sca-tola, quella cranica: un coniglio che per magia esce da quel ci-lindro che ognuno di noi porta sopra il collo. Ma il primo pun-to sul quale riflettere è che non solo non esiste in natura alcuncervello senza corpo ma non si dà neanche un cervello che nonabbia collegamenti nervosi e terminazioni sensoriali che lo met-tano in grado di percepire stati ambientali (sia esterni che in-terni) e di muovere parti corporee. In altri termini, la scienzacognitiva non solo riduce il corpo al sistema nervoso ma schiac-cia quest’ultimo sulla sua porzione centrale: tutto quel compli-cato sistema di afferenze ed efferenze che ne costituisce un ele-mento essenziale viene messo da parte. Se si trascurano le treprincipali vie di connessione tra centro e periferia (midollo spi-nale, innervazioni senso-motorie e sangue) è inevitabile conce-pire il cervello come un’enorme ghiandola pineale di cartesia-na memoria: una scatola elettrica nella quale convergono filiseparati e stolti disseminati nel corpo. Il problema, invece, è

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mentarietà. Gli studi biologici e dell’antropologia filosoficahanno dato piú rilievo all’importanza della morfologia corpo-rea dell’essere umano nel confronto tra le diverse forme di vi-ta. Quelli di carattere psicologico e cognitivo eterodosso, inve-ce, tendono a considerare il tatto come senso prima di tuttomanuale. Questi ultimi hanno concentrato i loro sforzi piú al-l’interno della specie umana, sul confronto tra vedenti e ciechie sul rapporto ontogenetico tra percezione tattile e linguaggio.È nostra intenzione tentare di integrare due aspetti che nonpossono esser considerati antagonisti (come a volte accade).

In questi due capitoli, il secondo e il terzo, mostreremo duefacce di una posizione teorica che mette in rilievo la specificitàdel corpo umano per trovare una lettura della natura umanapiú soddisfacente di quella cognitivista standard. Lo faremo il-lustrando due delle principali linee di riferimento per lo studiodell’esperienza tattile. Come già è avvenuto nel capitolo prece-dente, il nostro incedere sarà scandito pertanto da un passodoppio, per autori e per temi, nel tentativo di ricostruire undibattito e di fornire a esso il nostro contributo. Come abbia-mo visto la storia della scienza cognitiva si caratterizza per l’e-spulsione (spesso implicita) dell’antropologia dal novero dellediscipline che fanno parte di questo paradigma di ricerca: èuna scienza che viene presentata spesso come promotrice diun forte relativismo linguistico e culturale, come colei che hacontribuito a dissolvere il concetto stesso di natura umana (cfr.cap. I., paragrafi 2.3; 3.2; 3.3). In questo capitolo, presentere-mo un altro tipo di antropologia che non è in contrasto con laprima ma, anzi, ne costituisce il completamento. Partendo dauna domanda che riguarda proprio la natura dell’essere uma-no (qual è il nostro posto nel mondo?), l’antropologia filosofi-ca applica la propria riflessione teoretica ai dati che provengo-no dalla biologia. Non si concentra specificamente sulle diffe-renze culturali senza però trascurarle poiché cerca di indivi-duare il loro luogo di origine.

Allo stesso tempo abbiamo anche visto che la scienza co-gnitiva mostra una certa ambivalenza nei confronti della biolo-gia: da un lato, infatti, le neuroscienze sono considerate un ele-

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2. L’opposizione al comportamentismo:ambiente e spirito

Il paradigma cognitivo non costituisce naturalmente l’unicomodello alternativo al behaviorismo di Skinner e Watson. Inquesto paragrafo e nel successivo ci soffermeremo su due posi-zioni che emergono ben prima del 1956, l’anno di nascita delcognitivismo (cap. I, paragrafo 2.1), mentre di una terza, sortaproprio negli anni cinquanta, ci occuperemo nel paragrafo 3.4.

Si tratta di due autori che si concentrano entrambi sullanozione di ambiente: il primo, il biologo J. von Uexküll (1864-1944), focalizza la propria attenzione sul rapporto tra ambien-te e comportamento animale e umano; il secondo, M. Scheler(1874-1928), riserva questo concetto solo agli animali non uma-ni riservando alla nostra specie una categoria diversa, quella dispirito. Uexküll rappresenta uno dei massimi esponenti diquell’approccio che è possibile definire «biologia morfologi-ca» (l’espressione è tratta da Portmann, 1965) e che studia ilmondo vivente tenendo conto dell’impatto reciproco tra am-biente e forma/dimensioni degli organismi che lo abitano.Scheler, invece, è di solito considerato il fondatore dell’antro-pologia filosofica2.

L’approccio di Uexküll sottolinea l’importanza di studiareogni forma di vita nel suo ambiente naturale. Lo studioso te-desco contesta al comportamentismo una visione degli organi-smi che, col pretesto di voler esser scientifica e oggettiva, ridu-ce questi a meri oggetti, cioè a corpi da sezionare. La specifi-cità del mondo organico, infatti, non può esser colta in labora-torio poiché ogni essere vivente è come circondato da «unabolla di sapone» (1956, p. 83): l’ambiente non è un contestocaotico dal quale astrarre l’animale per poi studiarlo quantopiuttosto parte costitutiva della sua forma di vita. Infatti, affer-ma Uexküll, l’ambiente è ritagliato da ogni specie a modo pro-prio, in quel che chiama «sfera» o «mondo individuale»:

Per esprimerci con un’immagine, possiamo dire che ogni soggetto ani-male prende contatto con il suo oggetto tramite una tenaglia a due bran-

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che afferenze ed efferenze hanno modalità combinatorie com-plesse che cominciano nei cosiddetti nuclei sottocorticali comecollicolo superiore e inferiore, amigdala, talamo ed encefalo.Come suggerisce Damasio (1999, pp. 171-172), il sistema ner-voso1 è paragonabile a un sofisticato sistema omeostatico di re-golazione tra organismo e ambiente: è per questa ragione chenon può essere limitato al cervello o addirittura alla sua parteevolutivamente piú recente, la corteccia. C’è solo un modo perevitare una nozione homunculare di mente e coscienza, l’ideacioè che dentro la nostra testa ci sia un uomo in miniatura chemuova le nostre membra e vagli le informazioni che provengo-no dagli organi di senso: ritornare a una concezione piú com-pleta dell’animale umano, non facendo della sua mente unaCPU (un processore centrale informatico) e del suo sistema ner-voso periferico una semplice «cinghia di trasmissione» (Wall,1999, p. 122) che trasmetta alle estremità quel che si decidenella scatola di comando.

Il comportamentismo, come abbiamo visto (cfr. cap. I, pa-ragrafo 1.1), bolla come «scatola nera» i processi mentali chepotevano interporsi tra stimolo e risposta. In quanto inosserva-bili, lo studio scientifico di questi meccanismi è dichiarato im-possibile e, di conseguenza, superfluo.

Il cognitivismo ortodosso dichiara invece necessario lo stu-dio del funzionamento della scatola attraverso l’analogia men-te-computer. Il connessionismo (uno degli esiti piú recenti del-l’intelligenza artificiale) e lo stesso Marconi insistono su una ri-cerca che ne consideri non solo la funzione ma anche la strut-tura. Ma se si guarda bene, si scopre che ci troviamo di frontea variazioni sul tema di un’unica immagine: la mente è una sca-tola, una stanza limitata da pareti e chiusa da una porta.

Per evitare, come suggeriva Wittgenstein, di concepire ilpensiero come qualcosa di misterioso è necessario non localiz-zarlo nella testa né tantomeno chiuderlo in una scatola. Unastrada realmente alternativa è aprire questa scatola e conside-rare i processi cognitivi come proprietà di corpi che agiscononel mondo che li circonda.

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biente del paramecio è costituito da due varietà d’oggetti: gliostacoli di fronte ai quali si ferma cambiando poi direzione e ilcibo, costituito dal batterio della putrefazione. Per il parame-cio l’oggetto «cibo» è quindi una categoria molto ristretta poi-ché costituita da un solo tipo di alimento, mentre l’oggetto«ostacolo» è illimitato perché comprende tutto il resto: da unaltro paramecio a una mano umana, da una roccia alla monta-gna cui essa appartiene.

Per Uexküll, il mondo individuale dei diversi organismi sicontrae e si dilata secondo due coordinate di fondo: monoto-nia e varietà. Se si procede verso la polarità della monotoniaaumenta la sicurezza nel comportamento, mentre se ci si spo-sta nella direzione opposta, quella della varietà, aumenta la li-bertà e la ricchezza nella condotta:

mondo povero mondo riccomonotono VS variabilesicurezza comportamentale libertà comportamentaleseparazione tra modalità sensoriali unità sinestetica

In questa scala graduata l’animale umano si trova all’estre-mo di destra, mentre il paramecio vicino al polo opposto. Nelmezzo troviamo le altre forme di vita: dalle meduse alle zec-che, dalle mosche ai cani. La maggiore libertà e varietà com-portamentale è garantita all’animale umano e alle forme di vitapiú complesse dall’integrazione tra le varie informazioni senso-riali. Per organismi semplici come i parameci questo problemanon si pone poiché le modalità percettive sono ridotte a unasola, in genere quella tattile. Per animali come le chiocce o lecavallette il problema invece sussiste perché pur essendo for-me di vita plurisensoriali (dotate non solo di tatto ma anche divista, udito e altre modalità percettive), esse spesso non posso-no associare tra loro campi fenomenici diversi. La chioccia, adesempio, per rintracciare i suoi pulcini deve sentire il loro ri-chiamo: se invece può vederli senza però sentirne il verso (per-ché rinchiusi ad esempio in una campana di vetro), continua aignorarli. In modo simile gli acridi, una specie di grilli, riesco-

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che, una percettiva ed una attiva: la prima branca conferisce all’oggettoun carattere percepito, la seconda vi imprime il carattere determinatodall’atto [...] (Uexküll, 1956, pp. 131 sgg.; ivi, p. 92).

Quel che un organismo può percepire cosí come ciò chepuò fare è determinato in primo luogo dalla sua conformazio-ne e dalle sue dimensioni. Lo spazio e il tempo non costitui-scono dei piani stabili e unidimensionali, validi allo stesso mo-do per ogni forma di vita. Si tratta piuttosto di finestre che siaprono nell’incontro specifico tra il singolo organismo e il suomondo individuale. L’istante, ovvero la minima quantità perce-pibile di tempo, di un pesce combattente è infatti diverso daquello di una lumaca o di un essere umano. Tanto piú accele-rato è il metabolismo e il movimento di una forma di vita tantoesso sarà breve: un quarto di secondo per la lumaca, un diciot-tesimo per la nostra specie, un trentesimo per l’inquieto pescecombattente (ivi, pp. 126-130). Lo stesso si dica per lo spazio.In tal senso caso estremo è costituito dal paramecio. Si trattadi una forma vivente molto semplice, di dimensioni ridottissi-me (210 µm, molto piú piccolo dell’acaro della scabbia), rico-perta da ciglia vibratili che gli consentono di muoversi nell’ac-qua a una velocità di 2-3 millimetri al secondo (prendiamo da-ti e figura da McMahon, Bonner, 1983, p. 199):

Figura 1

A prescindere dal continente nel quale esso si trovi, dal ti-po di clima, vegetazione o condizioni meteorologiche, l’am-

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loro crescita rappresenta una spinta verso un fuori indetermi-nato, verso un ambiente senza centro di riferimento. Già inquesto regno però, emerge un principio morfologico che va aldi là del principio darwiniano della selezione naturale che èquello dell’«espressione» (ivi, p. 162): la ricchezza di forme ecolori delle piante non segue leggi di sopravvivenza ma sembraregolarsi in maniera estetica come se quella conformazioneavesse un valore intrinseco, non riducibile a principi quali ri-produzione o crescita. Gli altri tre regni sono articolazioni del-la sfera animale. La seconda forma organica essenziale è rap-presentata infatti dall’istinto che si caratterizza per almeno cin-que proprietà:

1. A differenza delle prove per tentativi ed errori, l’istinto sisvolge secondo uno schema rigido.

2. Deve avere un senso, cioè un valore adattivo, per il suo por-tatore o per il suo gruppo: l’animale percepisce solo ciò cheha un significato per i suoi istinti.

3. L’istinto può aver valore non solo per il presente ma ancheper il futuro: si pensi ad esempio alle formiche che accumu-lano cibo per l’inverno.

4. L’istinto fornisce risposte per momenti decisivi e importan-ti per la specie: riproduzione, aggressione, difesa.

5. È innato, ereditario e «completo» (ivi, p. 166) sin dalla na-scita. Non si tratta di una rappresentazione innata ma di unsentire emotivo che va oltre le repulsioni e le attrazioni tipi-che del regno vegetale.

Il terzo regno, corrispondente ad animali dotati di capacitàassociative e in grado di acquisire abitudini, centralizza l’atti-vità dell’organismo per mezzo di una parziale liberazione dal-l’istinto. Le prove per tentativi ed errori cosí come il riflessocondizionato rappresentano la possibilità di acquisire compor-tamenti tramite l’esercizio e l’apprendimento. Ma è solo con ilquarto regno, il quarto grado della vita psichica, che emergonocapacità di anticipazione degli eventi e pianificazione del com-portamento, la possibilità di affrontare non solo situazioni nuo-

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no ad accoppiarsi solo se il maschio può sentire i suoni stridu-li emessi dalle femmine. Al contrario, se il maschio può vederela femmina anche molto da vicino ma non può sentirla, l’ac-coppiamento non ha luogo (ivi, pp. 154-155).

La scala illustrata in precedenza mostra che la posizione diUexküll è estremamente continuista. La specie umana si di-stingue da chiocce, parameci e acridi solo perché ha un mondopiú vario e reso piú coeso dalla fusione tra i campi fenomeniciconsiderati fondamentali dallo studioso tedesco: quello ottico,tattile e cinestetico. L’apparato concettuale valido per descri-vere le diverse specie animali è lo stesso che può essere utiliz-zato per rendere conto delle diversità culturali umane. Uexküllmette sullo stesso piano la differenza di comportamento difronte a una quercia tra una formica e una volpe e quella chesussiste tra una bambina, che fantastica sulle sue forme, e unboscaiolo che ne taglia i rami in cerca di legna da ardere.

Per Uexküll tra i concetti di ambiente (Umwelt) e mondo(Welt) esiste quindi solo una differenza di ampiezza. L’ambien-te è costituito dall’insieme dei mondi individuali, delle sferespecie-specifiche che popolano il nostro pianeta. Tra queste cen’è una piú grande delle altre che è quella umana. Di conse-guenza Umwelt è semplicemente la somma dei mondi (Welten)individuali.

L’approccio di Scheler è a tal proposito completamente di-verso, per certi aspetti opposto. All’inizio della sua opera piúimportante, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), il filosofotedesco pone il problema della costituzione di una nuova an-tropologia che, invece di occuparsi delle diversità culturali, siinterroghi su «come scaturiscano dall’uomo le sue funzioni piúproprie» (ivi, p. 219) per mezzo del confronto con le altre for-me organiche sia animali che vegetali.

Quella che delinea Scheler è una scala biologica suddivisain quattro regni. Il primo, quello vegetale, viene definito «ilgrado piú basso del mondo psichico» ed è costituito da un «im-pulso affettivo» del tutto privo di coscienza (ivi, p. 159), sensa-zione e rappresentazione. Le piante sono forme «exatiche» cioèprive di un centro cui coordinare riflessi e sistemi motori: la

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ze e solo gli uomini colgono oggetti (Gegenstände). Solo la no-stra specie può distanziarsi da loro, contrapporvisi (stehen ge-gen) e coglierli nella loro complessa unità.

Per sottolineare questa differenza Scheler prende comeesempio, una forma di vita, quella del ragno, analizzata ancheda Uexküll per sostenere il suo punto di vista. Il biologo tede-sco afferma (Uexküll, 1956, p. 100) infatti che «a somiglianzadei fili tesi dal ragno, i rapporti stabiliti dal soggetto con le di-verse qualità delle cose costituiscono la tela su cui poggia lasua esistenza». È significativo che, piú di sessanta anni dopo(lo scritto di Uexküll è del 1933) e in modo indipendente,Pinker (1994, p. 10) per illustrare la propria visione del lin-guaggio utilizzi la stessa metafora:

[A proposito della facoltà umana del linguaggio] io preferisco usare iltermine «istinto» anche se un po’ antiquato. Suggerisce l’idea che l’uomosa parlare piú o meno nello stesso senso in cui il ragno sa tessere la suatela. La ragnatela non è stata inventata da uno sconosciuto aracnide ge-niale e non dipende dall’educazione ricevuta o da un’attitudine all’archi-tettura e alla costruzione. In realtà il ragno tesse ragnatele perché ha uncervello da ragno, che gli fornisce la spinta a tessere e la competenza perfarlo (Pinker, 1994, p. 10).

L’estremo continuismo che caratterizza entrambi gli autorili porta a non cogliere la differenza strutturale che sussiste tral’ambiente animale e il mondo umano. Scheler (1928, p. 186),prendendo in esame proprio l’esempio del ragno, lo mostracon chiarezza. Il paragone proposto sia da Uexküll che daPinker tra ambiente dell’aracnide e mondo umano non è soste-nibile proprio in virtú di uno dei principi, l’integrazione inter-sensoriale, che il biologo tedesco aveva attribuito ai mondi ani-mali. Il ragno quando cattura la preda dimostra di non poterintegrare lo spazio tattile e cinestetico della tela che si muovecon l’immagine ottica dell’insetto preso in trappola. Se una mo-sca morta viene posta vicino al ragno, questo non solo non lamangia ma scappa via ritraendosi. In modo simile a quanto di-mostrato da Uexküll per chiocce e grilli, anche per il ragnoogni senso segue una strada indipendente, cosicché ogni mo-dalità sensoriale dà notizia di un oggetto diverso. Il linguaggio

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ve per la specie (come avviene grazie alla memoria associativa)ma nuove per l’individuo. Questo pensiero rappresentativo ecreativo, riconosce Scheler, è presente, seppur in modo con-troverso, anche nelle scimmie antropoidi. Nonostante ciò, il fi-losofo tedesco afferma una differenza di genere e non di gradotra animali umani e non umani. Per la nostra specie infatti in-terviene un ulteriore grado di vita psichica che Scheler chiama«spirito» (Geist). Sarebbe lo spirito, una mescolanza che riuni-sce in sé il concetto greco di ragione (il logos) ma anche attiemozionali e volitivi propri solo della nostra specie, a rovescia-re il nostro rapporto con l’ambiente esterno.

Per un verso infatti l’essere umano sintetizza l’intero uni-verso naturale poiché racchiude in sé tutti i precedenti gradidella vita psichica: ha un sistema nervoso vegetativo, ha istinticosí come una intelligenza associativa e pratica.

Per un altro costituisce invece un’inversione di tendenzanei confronti degli altri regni naturali poiché è un organismoorganizzato secondo un principio diverso. Mentre le forme divita animali e vegetali non possono sottrarsi a impulsi e istinti,non possono «dire di no» alla vita poiché non sono in grado dibloccare impulsi scatenanti e istinti innati, l’essere umano sipuò emancipare da ciò che è organico e rendersi libero, apertoal mondo e alla sua oggettività.

Mentre per Uexküll l’ambiente costituisce solo il contenitoredi mondi individuali, Scheler (ivi, p.182) segna una distinzionequalitativa tra i due concetti mediante un preciso schema:

Animale Ambiente Uomo Mondo(Umwelt) (Welt)

Se l’animale può cogliere solo ciò che è limitato e struttura-to nell’ambiente che gli appartiene, l’essere umano può allon-tanare l’ambiente (Umwelt) e trasformarlo in un mondo (Welt):può allontanarsi dalla sua realtà e, proprio per questo motivo,può coglierla oggettivamente (ivi, p. 183). Per questa ragioneanche la nozione di oggetto diventa piú specifica rispetto aquella proposta da Uexküll: gli animali percepiscono resisten-

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cogitans e res extensa (ivi, p. 209). Psichico e fisiologico, men-tale e animale costituiscono infatti due facce della stessa meda-glia. Il loro punto d’incontro non è costituito però dalla ghian-dola pineale poiché il loro scorrere è parallelo: è il corpo nellasua totalità la dimensione dell’incontro e della fusione tra pro-cessi che sono identici dal punto di vista ontologico e diversisolo da quello fenomenico.

Scheler (ivi, p. 199) pone dunque domande decisive: «comemai questo animale malato, giunto in ritardo, sofferente, co-stretto a coprirsi e a proteggersi non è perito?». Come ha fattol’essere umano a uscire da quello che sembra essere un «vicolocieco biologico»?

La risposta che fornisce, come abbiamo visto tutta centratasulla nozione di spirito, è però fuorviante: la discontinuità traambiente e mondo diviene troppo marcata con il risultato difar rientrare dalla finestra quella distinzione tra res di ispirazio-ne cartesiana che aveva provato a far uscire dalla porta.

3. Un problema filosofico: ambiente vs mondo

Nella prima metà del novecento emergono sia in ambitobiologico che filosofico diverse vie alternative alla soluzionecomportamentista alla questione della natura umana. Una diqueste, incarnata da Uexküll, propone lo studio delle forme divita non in laboratorio ma nel vivo delle loro condizioni am-bientali. Il rapporto con l’ambiente è infatti considerato parteintegrante di un organismo: astrarlo dal suo habitat significastudiarlo da morto. Si tratta di una posizione che, come visto,presenta alcune affinità con posizioni molto recenti, come quel-le espresse da Pinker, riguardo il rapporto tra prima e secondanatura umana: il problema viene risolto per mezzo di un conti-nuismo radicale. L’uomo sarebbe un animale particolarmentepotente, dotato di istinti piú numerosi (Pinker) e di un am-biente piú esteso e vario (Uexküll). L’essere umano si inquadraperfettamente in quella che lo studioso tedesco definisce la pri-ma legge per lo studio dei mondi soggettivi:

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non è l’equivalente umano della tela del ragno (cosí come ilsuo ambiente non è l’equivalente del nostro mondo) proprioperché alla realtà specie-specifica dell’aracnide manca questodoppio carattere di apertura: la varietà sensoriale e l’integra-zione sinestetica.

La questione Molyneux (cfr. cap. I, paragrafo 4.3) viene pre-sa ad esempio da Scheler di questa capacità sinestetica propriain massimo grado dell’essere umano. Il cieco che riacquista lavista ha difficoltà solo iniziali a riconoscere gli oggetti esploratiin precedenza con il tatto poiché per ogni essere umano giàesiste uno spazio intersensoriale che integri i dati provenientidai vari sensi. Il caso del cieco che vede, immaginato da Moly-neux e ben presto divenuto un caso reale grazie alle operazionidi cataratta inaugurate dal chirurgo Cheselden nel 1728, mo-stra la flessibilità intrinseca all’essere umano: «il mammiferopiú plastico», dagli «istinti piú retrogradi» (ivi, p. 169).

Mentre il ragno non può integrare i diversi campi fenome-nici neanche quando i suoi apparati sensoriali funzionano almeglio, l’animale umano può riuscire nell’integrazione anchein condizioni estreme come quelle del recupero della funzionevisiva dopo anni di completa inattività o dopo averla persa sindalla nascita.

Attraverso la separazione tra le nozioni di «ambiente» e«mondo» Scheler propone una distinzione concettuale fonda-mentale ma allo stesso tempo ci mette in una situazione imba-razzante. Per un verso, come vedremo subito, il filosofo tede-sco intravede una strada alternativa a quella riduzione della se-conda natura alla prima della quale si rendono protagonisti intempi diversi e secondo modalità differenti, Uexküll e Pinker.Per un altro introduce un principio, quello di spirito, che sioppone a una lettura materialista del rapporto tra somiglianzee diversità tra animali umani e non umani.

Scheler, infatti, affronta esplicitamente il tema della naturaumana cercando di evitare due estremi opposti: da un lato l’op-zione comportamentista che suggerisce di ridurre i processipsicologici e gli stati mentali a meccanismi fisiologici; dall’altrol’eredità lasciata da Cartesio con la relativa separazione tra res

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guaggio verbale. Esso pervade ogni aspetto della sua vita e,di conseguenza, rappresenta i limiti del suo mondo-ambien-te. Questa dicitura è doppia poiché per un verso il nostro èun mondo: si distingue dal resto del regno animale perchéampio (Lo Piparo, 1999) e ampliabile (Cimatti, 2000b). Perun altro rimane un ambiente poiché è strutturalmente tale: èun cerchio chiuso dal quale non si può uscire. Lo Piparo (ivi,p. 195), ad esempio, illustra con chiarezza questa posizionequando afferma:

La Umwelt umana ha pertanto i limiti della corrispondente mente lingui-stica e anch’essa, come tutte le Umwelten animali, è inseparabile da con-genite cecità cognitive:

mente linguistica

Umwelt

La nostra bolla ambientale ha margini linguistici e il para-dosso specifico della nostra condizione è «sapere che esistonoconfini che delimitano anche la Umwelt umana senza poterlimai attraversare» (ivi, p. 198). Per Cimatti (2000b, pp. 133-134) però la circolarità dell’ambiente può essere spezzata dallanostra capacità di «avanzare ipotesi». Ma come fa il linguag-gio, che costituisce i bordi del nostro mondo, a staccarsi daquei stessi bordi e a farci vedere uno spiraglio di apertura? Se-condo Cimatti (ivi, p. 134):

L’animale umano ha un proprio mondo proprio perché può logicamentedistinguere il suo ambiente – quello definito dal suo linguaggio – dallaindeterminata regione del «buio», proprio perché può logicamente di-stinguere – dall’interno – il proprio ambiente dal piú vasto e incommen-surabile mondo.

Sarebbe il carattere autoreferenziale del linguaggio (quellaproprietà che si mostra in frasi come «sto dicendo cose insen-sate», «intendo qualcosa che è oltre le mie parole») a darci lapossibilità di riflettere e distaccarci dal nostro ambiente lingui-stico. Ma la metalinguisticità è sufficiente a farci uscire dallagabbia dorata costituita dal linguaggio? Secondo noi no.

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Tutti i soggetti animali, dal piú semplice al piú complesso, sono perfetta-mente inquadrati nel loro mondo individuale, che sarà semplicissimo pergli animali piú semplici e via via piú complicato per le forme piú com-plesse (Uexküll, 1956, p. 94).

Il pensiero di Uexküll costituisce quindi un buon punto dipartenza per una risposta alternativa a quella cognitivista ecomportamentista al problema della natura umana poiché po-ne la centralità dello studio ambientale di ogni forma di vita,inclusa quella umana. La sua impostazione rischia però di co-stituire una falsa partenza se non viene depurata da una so-vrapposizione, quella tra i concetti di ambiente e mondo. Co-me visto, Scheler propone la netta divaricazione tra queste duenozioni. Ma se Uexküll pecca di eccessivo continuismo, il se-condo rischia di fare prendere alla nostra strada argomentativauna piega pericolosamente animista e spiritualista: le pianteavrebbero una vita psichica, l’uomo si distinguerebbe in base auna strana entità, lo spirito. Nei prossimi paragrafi ci sofferme-remo su questa contrapposizione per noi fondamentale: il pro-blema sarà come mantenerne la validità all’interno di una pro-spettiva piú chiaramente naturalista.

Poiché la posizione di Uexküll di recente è stata ripresapiú volte anche dai nostri avversari, gli «animali razionali»(l’accostamento con il continuismo di Pinker già suggerivaquesta possibilità), vale la pena inserire da subito un paio diesempi di rilettura contemporanea del suo pensiero per com-prendere meglio l’importanza di un correttivo, la distinzionetra mondo e ambiente, senza il quale molte delle intuizioniproposte dal biologo tedesco rischiano di andare perse. Sem-plificando molto possiamo dire che Uexküll costituisce, in-fatti, un importante punto di riferimento teorico non solo peril paradigma che stiamo difendendo (quello del bipede im-plume) ma anche per una posizione riassumibile attraverso lacelebre affermazione del Tractatus wittgensteiniano: «I confi-ni del mio linguaggio indicano i confini del mio mondo»(Wittgenstein, 1921, paragrafo 5.6). L’idea di fondo del «ri-duzionismo linguistico» (Cimatti, 2000a) è questa: a differen-za delle altre specie animali, l’essere umano dispone del lin-

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anche quella che propone Pinker non è una soluzione: affer-mare che il linguaggio è un istinto che ci porta fuori dall’am-biente degli istinti è intrinsecamente contraddittorio. Ma suquesto punto non ci vengono in aiuto né Lo Piparo né Cimattipoiché entrambi danno per scontata la pervasività autofondan-te del codice verbale. Questa rischia di divenire una sorta dideus ex machina che, anche se non utilizza l’analogia mente-computer, finisce per risentire di vizi di impostazione simili aquelli del paradigma cognitivo. Ancora una volta in terminipercettivi e corporei l’essere umano sarebbe del tutto simileagli altri animali (il punto di totale continuità con le altre for-me di vita) ma poi interverrebbe un principio altro, il linguag-gio, a sovvertire il quadro e a impadronirsi completamente del-la natura umana (ed ecco il punto, altrettanto imbarazzante, ditotale discontinuità). Come vedremo nel prossimo paragrafo èpiú opportuno affermare non che è l’essere umano ad avere enon avere un ambiente ma che è l’animale ad avere e non ave-re un mondo.

3.1. L’essere che tasta: l’uomo formatore di mondo

Negli stessi anni nei quali Scheler pubblica la sua operaprincipale, Martin Heidegger (1889-1976) svolge un corso aFriburgo nel semestre invernale 1929-1930 nel quale riprendeesplicitamente le riflessioni di Uexküll, apportandovi modifi-che decisive. Heidegger (1930) infatti propone una netta con-trapposizione di tipo triadico riassunta nella tesi di fondo che«la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uo-mo è formatore di mondo». A differenza di Uexküll e coeren-temente con il metodo seguito in Essere e tempo, Heidegger(1930) non parte dalla nozione genericamente animale di am-biente per poi articolarla in mondi specie-specifici. Al contra-rio, il filosofo tedesco comincia la sua analisi da una nozioneesclusivamente umana, quella di Welt, per poi verificare se siapossibile estenderla ad altre forme di esistenza. L’analisi hei-deggeriana è per noi particolarmente interessante perché di-stingue queste tre realtà in base a un criterio tattile. La pietra,

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Se il linguaggio pervade il nostro mondo, il distacco conmezzi linguistici ne costituisce una articolazione tutta interna,sempre compresa in quella bolla fatta di parole che costituireb-be la nostra esistenza. L’autoriflessività rappresenta una scalache ci fa cambiare piano all’interno di una casa dalla quale, se-condo questo modello, non è possibile né entrare né uscire: nonci entriamo perché le condizioni genetiche di questo ingresso edella sua costruzione non sono considerate; non ne possiamoevadere perché per definizione le pareti del linguaggio costitui-scono i bordi del nostro mondo. Per questa ragione neanche ilcarattere indefinitamente espandibile, sul quale insiste Cimatti,di questa nicchia ambientale sembra sufficiente a farci uscire dauna bolla linguistica che pur gonfiandosi rimane chiusa. Ancheil fatto che il linguaggio possa codificare al proprio interno espe-rienze sempre nuove, esplorazioni diverse attraverso estensionianalogiche ed estetiche non basta a evitare una simile conclusio-ne: il carcere del linguaggio costruisce nuovi padiglioni in gradodi contenere piú ostaggi, ma non per questo cessa di essere uncarcere3. Non a caso in brani come quello ora riportato, emergel’ambivalenza di questa lettura di Uexküll: quello umano sembracontemporaneamente essere e non essere un ambiente.

Per Lo Piparo lettore di Uexküll e Wittgenstein4, il mondoumano si caratterizza per il fatto che ci consente di sapere cheesistono cose che non possiamo sapere e di utilizzare pratica-mente dimensioni alle quali non possiamo accedere (comequando per scovare tartufi usiamo il naso che non abbiamo,quello del cane).

Per Cimatti lettore di Uexküll e Prodi, il mondo è una buiaprateria ancora non linguistica che un giorno colonizzeremoper mezzo della nostra attività verbale. Il carattere pervasivodel linguaggio ci mette però in una situazione difficile perchépostula continuità lí dove non dovrebbe essercene mentre la in-terrompe lí dove dovremmo trovarne. La tesi del mondo umanocome ambiente linguistico pone questo in estrema disconti-nuità col resto del regno naturale poiché non individua le mo-dalità della sua formazione, non ci fa capire come il linguaggiosia potuto originarsi. Per questa ragione, come abbiamo visto,

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La condizione animale è del tutto diversa. Heidegger in que-sto senso fa sua l’idea di Uexküll che animale e ambiente costi-tuiscono elementi integrati. Proprio questa integrazione diven-ta l’aspetto distintivo della condizione animale: nei confrontidella pietra che un ambiente non lo ha; nei confronti dell’esse-re umano che ha un mondo perché dall’ambiente può distac-carsi. L’animale è per definizione «stordito», cioè coinvoltodalla totalità dei suoi istinti, preso da pratiche determinate ge-neticamente. L’ape, ricorda Heidegger riprendendo un esem-pio di Uexküll, quando si nutre non solo assorbe il cibo ma,potremmo dire, ne è assorbita. Se, mentre sta succhiando ilnettare da un fiore, si recide la parte posteriore dell’insetto,l’ape continua a succhiare anche se il nutrimento comincia afuoriuscire dalla parte tagliata del suo corpo. Lo stordimento èuna nozione complessa perché comprende in sé determinazio-ni apparentemente contrastanti: assorbimento ed allontana-mento.

Per un verso, infatti, l’animale è assorbito nel suo fare: nonpuò guardarsi mentre compie le sue azioni, non può uscire dalsuo cerchio ambientale. Ma proprio per questa ragione, l’ani-male non entra mai in relazione con ciò che lo circonda poichéper farlo sarebbero necessari distacco e autonomia. Poiché èassorbito dalle pratiche che riguardano i suoi conspecifici, l’a-nimale è in contatto con loro solo in modo superficiale. La di-stinzione tra le diverse forme tattili di presenza al mondo chia-risce bene questa serie di differenze. Come abbiamo detto men-tre la pietra giacendo non si comporta (semplicemente sta lí),l’animale è invece preso da un ambiente: sia nel senso che puòvivere solo in un certo habitat (nell’universo le pietre sonoovunque, non si può dire lo stesso di gatti o dromedari); sianel senso che ne è catturato, ne è prigioniero. La pietra non harelazioni con ciò che la circonda, mentre un organismo moltosemplice come il paramecio è in rapporto con il suo ambientepoiché invece di giacere tocca nutrimento e ostacoli. Toccarevuol dire essere schiavi di un urto del quale non si può fare ameno: «l’animale è, per la durata della sua vita, imprigionatonel suo mondo-ambiente come in un tubo che non si allarga

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come tutto il regno inorganico, non esplora né ricerca stimoli oconoscenza: essa giace, poiché rimane lí dove caso e leggi fisichel’hanno depositata. L’animale di converso ha un comportamen-to poiché si muove e ricerca, si sposta dirigendosi verso fonti dicibo, luoghi riparati o partner sessuali. Per questa ragione l’ani-male non giace, ma tocca poiché ha commercio e scambi con ciòche lo circonda. L’essere umano, oltre a giacere (se morto) e atoccare, è anche in grado di tastare: manipola e costruisce, cam-bia i suoi dintorni e cura i suoi conspecifici.

Heidegger riprende pertanto alcuni termini utilizzati daUexküll cambiandone però il senso in maniera radicale. Il mon-do (Welt) non costituisce piú una generica sfera animale rita-gliata da ogni specie a modo proprio poiché diventa spazio abi-tativo proprio solo dell’essere umano. Anche il concetto di «po-vertà» si trasforma: il filosofo tedesco precisa che affermare«l’animale come essere povero di mondo» non significa che neha poco, una scarsa quantità (che è invece l’accezione diUexküll) ma vuol dire che ne è privo, che ne fa completamen-te a meno. Povertà da sinonimo di indigenza si trasforma in in-dice di nullatenenza. Questo concetto quindi non indica piúuna differenza di grado tra animali umani e non umani ma digenere. Se però l’animale è privo di mondo, come distinguia-mo questa condizione da quella del sasso? Attraverso la versio-ne riformulata del concetto di ambiente. La pietra è, come ac-cennavamo prima, sempre fuori contesto. Poiché non compieazioni né ha comportamento, essa non fa letteralmente nulla.Obbedisce solo alle leggi della fisica: tirata verso l’alto ricadein basso; fiondata in mare, affonda nella sabbia; scagliata con-tro un vetro lo infrange in mille pezzi. Proprio perché sta dovechiunque la metta, essa non solo non ha un mondo ma non haneanche un ambiente. Essere inorganici significa proprio que-sto: non aver scambio con ciò che ti circonda. Si tratta di ungiacere ovunque che non è sintomo di capacità adattive straor-dinarie ma, al contrario, di insensibilità alla varietà dei sisteminei quali ci si trova ad essere: la pietra giace perché è semprefuori posto, poiché non esiste un posto che sia il suo, in cuipossa vivere.

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e Scheler all’interno di un percorso filosofico che attraversatutto il novecento: dai primi saggi degli anni trenta arriva finoagli anni settanta con la ripubblicazione, riveduta e corretta,della sua opera piú importante, L’uomo (la prima edizione èdel 1940).

Sia Scheler che Heidegger intuiscono che corpo e ambienterappresentano i cardini fondamentali per affrontare il proble-ma costituito dalla natura umana. Heidegger, come visto, indi-ca nel tastare una prima capacità percettiva e cognitiva che cidistingue con nettezza dal resto del regno animale. Ma cos’èquesta forma tattile? In cosa consiste? Quali sono i suoi pre-supposti? Il filosofo tedesco in tal senso è ambiguo, per lo me-no poco esplicito. Per un verso egli sembra riferirsi a una ca-ratteristica tipicamente manuale: il tastare dischiude le portedi un mondo indefinitamente aperto nel quale, come già si af-ferma in Essere e tempo (Heidegger, 1927, p. 134), gli oggettisono infinitamente disponibili, letteralmente «a portata di ma-no» (Zuhandheit). Per un altro il tastare richiama qualcosa dipiú. Proprio perché la distinzione tra ambiente e mondo è cosínetta, sembra poco plausibile che sia affidata a un solo organo:non appare possibile che siano le mani a poter fare di una scim-mia un animale umano. Come indica Scheler, per evitare la di-cotomia tra res cogitans e res extensa non è sufficiente indivi-duare in un organo, il cervello o la mano, il carattere distintivodell’animale umano, ma bisogna trattare il corpo nella sua in-terezza. La nostra specie si distingue per una diversità com-plessiva che riguarda la sua posizione rispetto a ciò che lo cir-conda: le mani costituiscono in tal senso un momento impor-tante che non può essere però esaustivo.

Gehlen sottolinea l’importanza della morfologia complessi-va del corpo umano per comprendere la natura della nostracondizione senza per questo sposare posizione animiste o spi-ritualiste. Come abbiamo visto in precedenza, Uexküll e Sche-ler avevano già proposto di interpretare il regno naturale se-condo un principio morfologico che assumeva però valore vi-talistico: per il biologo tedesco, i rapporti tra le specie viventinon sono regolati dalla selezione naturale ma da un «soggetto-

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né si restringe» (ivi, p. 258). Il paramecio, anche in questo casoHeidegger riprende esplicitamente un esempio di Uexküll, ètalmente assorbito dalle sue pratiche istintuali da forgiare ilproprio corpo in relazione alla necessità da soddisfare al mo-mento: se gli organi che servono allo spostamento rimangonofissi, in questa classe di organismi il resto del corpo, il proto-plasma varia al variare delle esigenze. A ogni boccone divieneuna bolla che prima si fa bocca, poi intestino e infine ano. Que-sto tipo di esseri viventi, detti infusori, rappresenta in modoesemplare la condizione animale: è talmente stordita dall’am-biente cui appartiene da specializzare la propria struttura cor-porea secondo le circostanze.

L’essere umano non si limita a giacere né a toccare poiché èin grado di tastare: non modifica il proprio corpo in base al-l’ambiente ma, al contrario, è lui a formare il proprio mondo.Per mezzo delle mani modifica ciò che lo circonda strutturan-dolo secondo le esigenze.

3.2. L’animale povero di istinti

Scheler e Heidegger suggeriscono una netta separazione travita animale e umana. Il primo contesta il carattere iperistin-tuale dell’uomo affermato da Uexküll per mezzo di una nozio-ne controversa, quella di spirito. Il secondo elimina questa am-biguità introducendo una definizione piú precisa del contrastotra mondo e ambiente. Nessuno dei due indica però le condi-zioni, genetiche e morfologiche, che sono alla base della diva-ricazione tra animali umani e non umani. Lo spirito di Schelerscende dall’alto all’interno di una concezione che, al di là delleintenzioni dell’autore, presenta l’essere umano non tanto comeuna scimmia progredita quanto, potremmo dire, come un an-gelo decaduto. Heidegger non si pone il problema poiché, do-po esser partito dall’analisi della condizione umana, si limita achiarire il significato di una separatezza incarnata da tre diver-se condizioni tattili prendendone semplicemente atto.

Arnold Gehlen (1904-1976), in tal senso, consente di fareun passo ulteriore. Egli riprende piú volte il pensiero di Uexküll

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che Scheler si è limitato a indicare genericamente il corpo eHeidegger ha suggerito una forma troppo specifica come il ta-stare, Gehlen individua condizioni piú adeguate per compren-dere il carattere unico della specie umana. È la forma del no-stro corpo a fare la differenza, a dischiudere la porta a un am-biente che si fa mondo: stazione eretta, manualità e integrazio-ne sensoriale ne costituiscono i tre elementi fondamentali.

La posizione eretta ci stacca da terra, ci espone agli stimoliambientali favorendo una sensibilità corporea pericolosa estraordinaria. Quello umano è un animale che si contraddistin-gue per la varietà e non per l’acutezza dei suoi sensi: la sua pel-le, priva di difese, trasforma il proprio carattere poiché noncostituisce piú, come nella maggior parte delle specie animali,un insieme di strutture specializzate e locali ma diventa essastessa organo primario di percezione generico e diffuso. Quel-la che in precedenza (cap. I, paragrafo 4.3) abbiamo chiamatopercezione somestesica riveste per Gehlen un’importanza ca-pitale. La sensibilità cutanea costituisce un’importante condi-zione di possibilità per la specie umana che si coniuga con unamotilità particolarmente plastica, con una struttura corporeaaperta alle piú diverse coordinazioni senso-motorie. Mobilità esensibilità convergono in un continuo feedback sensoriale:quando l’animale umano si muove, non solo percepisce gli og-getti esterni ma anche se stesso. Tatto e udito costituiscono ilfondamento di un carattere riflessivo strutturale insito nellanostra morfologia corporea. L’animale umano si autoavverte:toccarsi e sentirsi significa potersi estraniare, cogliersi non solocome soggetto ma anche come oggetto della percezione.

Per queste ragioni la morfologia del corpo umano costitui-sce la prima condizione di possibilità per dischiudere la nozio-ne di ambiente in quella di mondo. Mentre le altre specie ani-mali sono barricate nel loro habitat-bolla, l’essere umano viveuna condizione liminare e anfibia in grado di entrare e uscireda una zona non piú claustrofobica.

La duplicità del tatto costituisce il cardine di una condizio-ne che è apertura e compito: poiché l’animale umano è indefi-nito deve lavorare per trovare le sue qualità. Il precario equili-

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natura» che ha organizzato ogni relazione secondo un pro-gramma preordinato (Uexküll, 1956, p. 225; cfr. paragrafo 4);Scheler, quando assegna alle piante e alle forme di vita piú sem-plici una vita psichica, percorre una strada simile.

La tesi di fondo sostenuta da Gehlen, fatta risalire esplicita-mente a Herder5, Schopenhauer6 e Nietzsche, rilegge l’impor-tanza della nostra morfologia alla luce di un principio diverso:l’animale umano si distingue dalle altre forme di vita non per-ché in possesso di maggiori istinti ma perché, al contrario, neha di meno. L’animale umano vive in un mondo e non in unambiente, secondo Gehlen (1978, p. 36), perché egli costitui-sce un essere «incompiuto», «indefinito» caratterizzato rispet-to alle altre specie da una minore specializzazione evolutiva.Per un verso infatti siamo indefiniti perché esseri alla nascitadifettevoli, privi di armi e difese precostituite. Per un altro que-sta espressione si riferisce alla difficoltà a trovare una defini-zione (nel senso di «descrizione finale» ma anche di «condizio-ne definitiva») in grado di cogliere cosa l’uomo sia. Scheler,sebbene Gehlen non gli risparmi critiche, aveva intuito a talproposito due punti fondamentali senza però riuscire a focaliz-zarli sufficientemente. In primo luogo, il filosofo tedesco avevacolto in La posizione dell’uomo nel cosmo la paradossale pecu-liarità della nostra specie che rappresenta un vicolo cieco bio-logico, un essere tanto malato da non poter sopravvivere. Sche-ler aveva anche proposto l’idea che le forme di vita piú com-plesse non fossero piú potenti e forti di quelle semplici ma che,al contrario, costituissero organismi fragili. Questa posizionenasceva da una visione morfologica della natura secondo laquale l’essere umano, poiché rappresenta il culmine della com-plessità naturale, è a rischio, come un fiore delicato che puòscomporsi al primo alito di vento. La bellezza ha un prezzo: ilcarattere vellutato dei petali non consente di avere anche quel-la robustezza che li difenderebbe dagli agenti ambientali. Mala condizione umana è ancora piú precaria perché mentre ilfiore è inchiodato allo stelo che lo sorregge ma difeso dalla suespine, l’animale umano nasce mobile ma sprovvisto di mezzi:senza artigli, pelo, o scaglie che possano fare da scudo. Dopo

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La percezione sinestetica è per noi fondamentale perchéogni modalità sensoriale non costituisce la rigida porzione diuna nicchia ambientale strutturata: il tatto, in modo partico-lare, si avvale della collaborazione con la vista per sbrigare uncarico d’esperienza che rischia di schiacciarci sotto il suo pe-so. Il carattere panoramico dell’esperienza visiva ci permettedi cogliere ampi orizzonti e di sorvolare sugli oggetti. La vistaè considerata da Gehlen un senso superficiale poiché scorrerapidamente da una porzione all’altra dello spazio senza do-vercisi troppo trattenere. Ma a differenza da quanto fatto daHerder (1778) nella Plastik, uno dei precursori della sua an-tropologia filosofica, Gehlen coglie anche la positività del ca-rattere sbrigativo della vista. Proprio perché superficiale que-sta modalità sensoriale ci consente di evitare il costante ap-profondimento conoscitivo della situazione nella quale ci ve-niamo a trovare: fornisce la velocità che manca al tatto poi-ché consente di muoversi con rapidità. Infatti anche se la ma-nualità è esonerante poiché fornisce strumenti di riparo, essapossiede un aspetto che rimane oneroso: lo stretto campo d’a-zione della percezione aptica richiede una esplorazione cosílenta e laboriosa del mondo esterno da costituire struttural-mente una ricerca approfondita ma per questo faticosa (cfr.cap. III).

A differenza di quanto sostiene gran parte della tradizionefilosofica occidentale, secondo Gehlen non è il tatto a scim-miottare la vista: è piuttosto la vista a farsi carico di indici tatti-li poiché sono gli occhi a sbrigare faccende manuali. Il tatto èil secondo senso: non perché rappresenta l’inadeguato vicariodella vista, ma perché è il senso in cui si radica la seconda na-tura (cfr. cap. IV). È proprio nella sprovvedutezza umana, nel-la duplicità apertura-esonero che Gehlen individua la connes-sione tra biologico e culturale, materiale e mentale. Il cardinelungo il quale scorre la connessione tra prima e seconda naturaè il corpo umano nella sua bivalenza tattile: somestetica e ma-nuale. È questa cerniera che costituisce la presa a terra del lin-guaggio e che, senza svilirne l’importanza, gli garantisce unacollocazione biologica ed evolutiva plausibile:

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brio della stazione eretta, il carattere protoriflessivo della pro-priocezione, l’esposizione della pelle a freddo, caldo e dolorecostituiscono aperture che, se non fossero gestite, porterebbe-ro alla morte dell’individuo e all’estinzione della specie. Nona caso quando parla dell’animale umano, Gehlen sembra ave-re in mente un verso del Faust di Goethe, molto caro a Witt-genstein (1969, paragrafo 402) e a Vygotskij (1934, p. 395):«Im Anfang war die Tat (in principio era l’azione)». L’animaleumano, proprio perché difettevole, è nato per l’azione: per ri-pararsi e sopravvivere deve fare e costruire. Le varie dimen-sioni della sensibilità somestetica costituiscono le porte attra-verso le quali interno ed esterno continuamente si scambianodi posto. Allo stesso tempo, affinché la corrente non ci spazzivia e la stimolazione ambientale (dovremmo dire mondana)non ci annichilisca, è necessario un sistema di filtri che per-metta chiusure temporanee. La seconda polarità tattile, quellaaptico-manuale, svolge esattamente questo ruolo. Stazioneeretta significa infatti non solo esposizione di un ventre nonpiú schiacciato a terra, ma anche liberazione degli arti supe-riori che invece di specializzarsi in strumenti di offesa e armida taglio diventano un complesso sistema di leve in grado difornire le prestazioni piú varie. Se la plasticità del corpo ciespone, quella delle mani dà nuove garanzie: non piú la sicu-rezza tipica delle forme di vita piú semplici ma quella di unessere che, invece di difendersi o attaccare, lavora (cfr. cap.III, paragrafo 4).

L’animale umano uscendo dalle nicchie ambientali propriedelle altre specie costituisce un essere per definizione disadat-tato, privo di habitat. Proprio perché non ha un nido precosti-tuito, deve costruirsi una casa; visto che non possiede pelo népiume deve vestirsi e accendere fuochi; privo di zanne e artiglideve costruirsi armi e arnesi, utensili e strumenti. Per questomotivo la mano non solo plasma l’oggetto ma anticipa l’azionerendendo l’animale umano, come afferma Gehlen, un conti-nuo «prometeo»: un essere in costante scoperta e in perennecostruzione che, per evitare un presente altrimenti insostenibi-le, deve giocare d’anticipo e guardare al futuro.

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aspetti filogenetici, Portmann quelli ontogenetici anche se pertuttii si tratta di due dimensioni fortemente intrecciate. L’a-spetto del pensiero di Portmann trascurato da Gehlen, e chein seguito prenderemo in esame, è il confronto proposto dalbiologo svizzero tra la nostra forma di vita e quell’alternativaevolutiva ai primati costituita da chi percepisce il mondo dal-l’alto: gli uccelli. Ma procediamo con ordine.

In On the Problem of Anthropogenesis, Bolk (1926, p. 467)spiega con chiarezza quale sia l’interrogativo che ha dato inizioalla sua ricerca: «Cos’è essenziale per l’organismo umano, cosaper la sua morfologia?». Bolk parte dalla convinzione che laricchezza di dati paleoantropologici a disposizione degli stu-diosi non può essere sufficiente per comprendere le specificitàdel genere umano. Il suo intento è trasformare un approcciofino ad allora «deduttivo», che ha cercato di spiegare l’originedell’uomo concentrandosi sui resti fossili, in uno «induttivo»che parta dall’unico dato certo a nostra disposizione: l’homosapiens e la sua morfologia.

Nei primi trent’anni del novecento una serie di studi portaBolk a rovesciare non solo la metodologia ma anche uno deipresupposti teorici fondamentali della paleoantropologia: l’i-dea che l’animale umano discenda dalla scimmia. Lo studiodei primati e dei loro caratteri anatomico-morfologici suggeri-sce a Bolk infatti una via radicalmente diversa che si concen-tra sulla distinzione tra primati dallo «sviluppo propulsivo» equelli caratterizzati da uno «sviluppo conservativo» (Bolk,1926, p. 467): del primo gruppo fanno parte tutte le scimmieantropomorfe, il secondo è costituito solo dalla specie umana.L’animale umano non si distingue dalle altre specie perché co-stituisce una specie piú perfezionata delle altre, piú progreditao sofisticata. Al contrario il suo carattere costitutivo va rin-tracciato nella sua arcaicità e nella sua lentezza di sviluppo. Lanostra forma di vita si distinguerebbe dalle altre per un prin-cipio che è contemporaneamente morfologico e genetico: laconservazione di tratti fetali nella costituzione strutturale del-l’adulto. Non solo Bolk contesta l’idea di uno sviluppo linearedell’evoluzione da forme piú semplici e inferiori a organismi

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L’uomo è dunque organicamente «l’essere manchevole» (Herder), eglisarebbe inadatto alla vita in ogni ambiente naturale e cosí deve crearsiuna seconda natura, un mondo di rimpiazzo approntato artificialmente ea lui adatto, che possa cooperare con il suo deficiente equipaggiamentoorganico; e fa questo ovunque possiamo vederlo. Vive, per cosí dire, inuna natura artificialmente disintossicata, resa maneggevole, trasformatain senso utile alla sua vita, ciò che è appunto la sfera della cultura (Geh-len, 1961, p. 88-89).

Mentre Heidegger concepisce l’animale umano come un es-sere che diventa ricco di mondo, Gehlen rovescia questa attri-buzione cambiandone parte del senso: è l’animale a essere ric-co di istinti e l’uomo a esser povero di qualità innate ed è perquesta ragione che deve costruirsi il suo mondo. Potenza e im-potenza (su questo punto torneremo nel cap. IV, paragrafo 1)diventano cosí due facce di un’unica medaglia: la possibilità dicostruirsi una cultura è al contempo una necessità, un dovereinflitto da un corpo sensibile ma debole. In questa attribuzio-ne invertita di povertà, il carattere tattile distintivo della naturaumana proposto da Heidegger si focalizza nella duplicità disomestesia e manualità. Toccare e tastare sono le due polaritàbase di un corpo superesposto che può, in compenso, costrui-re il suo riparo.

3.3. Il problema della antropogenesi

In che modo la selezione naturale ha consentito che potesseaffermarsi un animale povero di istinti? Qual è il processo evo-lutivo grazie al quale è comparsa quella specie che oggi defi-niamo homo sapiens? Per rispondere a questi interrogativi Geh-len rimanda al pensiero di due autori. Al primo, Louis Bolk(1866-1930), in modo ripetuto poiché aderisce a gran partedelle sue ipotesi interpretative. Al secondo, Adolf Portmann(1897-1982), in modo parziale, perché per alcuni aspetti si di-scosta dall’impostazione gehleniana.

Gli scritti di quest’ultimo consentono di sviluppare un dop-pio confronto che merita un approfondimento. I tre gli autoriconcentrano la propria attenzione sul rapporto tra l’animaleumano e gli altri primati: Bolk e Gehlen accentuandone gli

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(si pensi ai punti 2, 3, 7, 18 e 22-25) discendono quelli che Bolkchiama caratteri consecutivi, conseguenze della sua conforma-zione fetale.

Tra questi il piú importante sarebbe la stazione eretta. Lostudioso tedesco propone quindi una interessante inversione.Mentre nella rappresentazione piú tradizionale e diffusa del-l’antropogenesi l’essere umano si sarebbe alzato da terra eso-nerando cosí le mani dalla loro funzione locomotoria, secondoBolk sarebbe accaduto il contrario: la persistenza del caratterefetale dei nostri arti superiori sarebbe stato inadatto a svolgereil ruolo di zampe e per questa ragione siamo stati costretti a di-venire bipedi. L’animale umano non rappresenta né un angelodecaduto né una scimmia progredita quanto un primate carat-terizzato dalla lentezza del proprio sviluppo. Quest’idea, è fa-cilmente intuibile, non solo converge con l’idea gehleniana del-l’animale umano come essere non specializzato e povero diistinti ma ne dà il fondamento filogenetico. Proprio rifacendo-si a questi dati Gehlen (1978, p. 125) afferma con un filo diparadosso che non è l’uomo a discendere dalla scimmia, ma è«la scimmia che discende dall’uomo».

Tra i primati, già protagonisti di un primo processo di feta-lizzazione rispetto ad altri mammiferi superiori, l’animale uma-no si distingue per una seconda tornata conservatrice che senzaarrestare il suo sviluppo lo rallenta obbligando la nostra speciea compensare culturalmente le lacune di una scarsità di equi-paggiamento naturale dovuta a un ritardo cronico (Bolk, 1924,p. 329). Questa impostazione è interessante perché oltre a indi-viduare la specificità morfologica dell’animale umano evita il ri-schio di proporre una visione finalistica della sua comparsa. Chiconcepisce l’Homo sapiens come essere piú adatto degli altri agliambienti naturali, piú specializzato degli animali perché fornitodi un maggior numero di istinti, finisce col concepire la nostraspecie come il culmine di un progresso naturale che persegue ilfine del miglior adattamento possibile. La biologia morfologicacostituisce, invece, il miglior antidoto a ogni deriva darwinianache finisca per eleggere i principi della selezione naturale a leggitanto pervasive da imprimere al mondo naturale una direzione

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piú complessi e superiori, ma diffida anche della concezionesecondo la quale l’evoluzione consisterebbe nella graduale spe-cializzazione di organismi nelle loro nicchie ambientali e dellaidentificazione tra complessità organica e specializzazionemorfologica. Lo studioso tedesco propone l’analisi di unaquantità impressionante di dati in grado di dimostrare chegran parte delle nostre caratteristiche morfologiche sono feta-li. Questi dati sono riassumibili in una lista di 25 proprietà,elementi organici che appartengono ai primi stadi dell’ontoge-nesi dei primati ma che poi questi perdono (cit. in Gould,1977, p. 357):

1. L’ortognatismo: un viso piatto caratterizzato da una fronte spiovente e dalla presenza di un mento sporgente

2. La riduzione o perdita dei peli sul corpo3. La perdita della pigmentazione di pelle, occhi e capelli4. La forma dell’orecchio esterno5. L’angolo interno dell’occhio (l’epicanto)6. La posizione centrale del foramen magnum che nell’ontogenesi dei

primati si sposta invece all’indietro7. L’elevato peso del cervello in relazione al peso corporeo8. Persistenza di suture craniali anche in età avanzata9. Le labbra sporgenti nelle donne10. La struttura dei piedi e delle mani11. La forma pelvica nella donna12. La posizione orientata in senso ventrale del canale sessuale nella donna13. Alcune variazioni delle suture craniali e dei denti14. L’assenza di spigoli nella fronte15. L’assenza di creste craniali16. Lo spessore sottile delle ossa della testa17. La posizione delle orbite al di sotto della cavità craniale18. Le ridotte dimensioni della testa in relazione a quelle del corpo19. I denti piccoli20. La fuoriuscita tardiva dei denti dalle gengive21. L’impossibilità di ruotare il pollice del piede22. Il periodo prolungato di dipendenza infantile dai genitori23. Il periodo prolungato di crescita24. La lunga durata della vita25. Le ampie dimensioni corporee.

Da questa lunga serie di caratteristiche corporee che riguar-da sia parti anatomiche (soprattutto la conformazione di testa,mani e piedi) che aspetti piú generali della morfologia umana

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ma in modo definitivo le ambivalenze contenute nella nozionescheleriana di Geist: il termine tedesco non rimanda piú a unaentità misteriosa, lo spirito, poiché assume il significato, piú con-temporaneo e materialistico, di mente.

I dati forniti dal biologo svizzero a tal proposito sono parti-colarmente significativi. Prima di affrontare i problemi rappre-sentati dall’ontogenesi umana, Portmann aveva suddiviso lo svi-luppo dei mammiferi in due tipologie fondamentali. Quella deimammiferi nidiacei (nesthocker), i cui piccoli tendono a rima-nere presso il nido per lungo tempo, e quella dei non nidicei(nestflüchter) che si caratterizzano per il fatto che i loro piccoliabbandonano presto il nucleo familiare (ivi, p. 511):

Tipo primario (I) Tipo secondario (II)organizzazione inferiore organizzazione superiore(roditori, insettivori) (foche, balene, mammiferi superiori

con zoccoli, primati)nidiacei non nidiaceigravidanze brevi (3/4 settimane) gravidanze lunghefigliate numerose figliate poco numerosepiccoli indifesi piccoli con organi di senso

e di movimento formatiinfanzia lunga infanzia breve

È proprio dal confronto con questa classificazione che Port-mann mostra la specificità del nostre genere. L’animale umanoinfatti mescola caratteri delle due tipologie: le sue gravidanzesono lunghe (tipo II) ma lo è anche la sua infanzia poiché rima-ne legato per molto tempo alle figure parentali (tipo I); le suefigliate sono poco numerose (tipo II) ma i piccoli indifesi (tipoI). Per giunta, anche i suoi tempi di crescita sono particolari.Attraverso il confronto dei ritmi di sviluppo postnatali con glialtri primati Portmann rileva che la velocità dell’ontogenesiumana è superiore a quella delle altre specie prese a confrontopoiché mantiene per il primo anno di vita ritmi di crescita pa-ragonabili a quelli fetali. Nel corso degli anni successivi invece,sia per peso corporeo che cerebrale, lo sviluppo non appare ac-celerato rispetto agli altri primati ma anzi rallentato, propriocome richiesto dalla tesi di Bolk.

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prestabilita. Le sue virtú, cioè la sua seconda natura, non si ade-guano a un fine già predisposto, né nascono da un processo diautogenerazione come sembrano suggerire alcune riletture inchiave linguistica del pensiero di Uexküll (cfr. paragrafo 3). Lin-guaggio e cultura rappresentano piuttosto una risposta, una rea-zione accidentale ma decisiva a una mancanza genetica.

Mentre Bolk illustra la particolarità dello sviluppo umanoleggendo le particolarità del suo sviluppo secondo una pro-spettiva filogenetica, Portmann ci permette di approfondire ilproblema da un punto di vista complementare poiché mette inrilievo le peculiarità ontogenetiche del nostro processo di cre-scita. La posizione dello zoologo svizzero è interessante poi-ché, oltre a costituire un punto di riferimento per l’antropolo-gia filosofica di Gehlen, riprende alcune idee di Scheler e diUexküll7 a proposito della differenza strutturale che sussistetra ambiente animale e mondo umano. Portmann fonda in sen-so ontogenetico la distinzione tra Umwelt e Welt ridefinendoquel fattore che Scheler aveva proposto come elemento distin-tivo della condizione umana: il geistig, lo spirituale. SpiegaPortmann:

La modalità spirituale della vita si sviluppa nell’ontogenesi non solo at-traverso la maturazione di caratteri ereditari che si differenziano tra loroin modo relativamente indipendente. Questi fattori infatti attraverso latrasmissione ereditaria di certe proprietà fanno parte di un carattere estre-mamente aperto e non specializzato e mantengono la sua conformazioneparticolarmente individuale in massimo contatto con le impressioni sen-soriali che il mondo esterno ci trasmette. Lo sviluppo del linguaggio uma-no costituisce l’esempio piú drastico di tutto questo processo ontogene-tico spirituale (Portmann, 1941, p. 516).

Come sostiene Gehlen in quegli stessi anni, il linguaggio noncostituisce una dimensione isolata che all’improvviso taglia indue la storia naturale poiché è reso possibile da una serie di pro-cessi che lo precedono. Gehlen parla del linguaggio verbale co-me di una struttura di importanza fondamentale che esonera lacondizione umana dal flusso fin troppo intenso di stimolazionicui è sottoposta. Portmann individua queste condizioni di pos-sibilità all’interno di una ricostruzione ontogenetica che trasfor-

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Per comprenderne piú a fondo le conseguenze è necessariospingersi piú in là di quanto faccia Gehlen e considerare unaricostruzione del regno naturale che vada ben oltre l’utilizzo ela chiave di lettura che ne fornisce il filosofo tedesco. La lettu-ra del mondo vivente proposta da Portmann, infatti, non è me-no interessante dei suoi studi sull’ontogenesi dei mammiferi. Ilbiologo svizzero riconosce a Uexküll il merito di aver contri-buito a superare una concezione comportamentistica degli or-ganismi viventi (Portmann, 1963, p. 420) e di aver anticipatoin questo l’impostazione filosofica di Heidegger (ivi, p. 422).L’obiettivo di Portmann è proseguire su questo cammino edevitare ogni forma di riduzionismo, sia fisiologico che fisico,del mondo organico. Non a caso il darwinismo, da Uexküll ri-fiutato in blocco, è accettato con riserva anche da Portmann: iprincipi della selezione naturale e dell’adattamento sono utiliper comprendere il mondo naturale solo se si basano su un’a-nalisi morfologica delle strutture organiche. Ogni forma di vitainfatti prima di sottostare ai principi di autoconservazione e diautoaccrescimento (adattamento e sviluppo) obbedisce a unprincipio ancor piú fondamentale: quello della autopresenta-zione (Selbstdarstellung).

Portmann (1951, p. 312) definisce l’organismo una Gestaltspazio-temporale: una configurazione dinamica che cambia nellospazio e nel tempo, una forma in movimento. Ogni forma di vitaha un volto sensoriale che non è aggiuntivo o secondario ma co-stitutivo del suo essere. Il mondo organico si distingue da quellominerale proprio perché percepisce ed è percepito, perché si av-vale di una modalità di presenza autopresentativa sconosciuta al-le rocce o ai meteoriti. Non a caso, prima di affrontare il temadell’umano, l’unica netta distinzione segnata da Portmann all’in-terno del regno organico non è tra organismi superiori e inferio-ri, tra vertebrati e invertebrati, mammiferi e primati, ma tra ani-mali a superficie trasparente ed esseri a pelle opaca.

Organismi unicellulari o forme di vita semplici come il pa-ramecio (visto nei paragrafi 2 e 3.1) si distinguono per una se-parazione tra esterno e interno corporeo che è solamente mec-canica, cioè fisico-chimica. Quando la superficie si fa opaca,

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Portmann individua nel primo anno di sviluppo post-fetaleumano un’eccezione duplice poiché non ha pari né nello svi-luppo degli altri primati né in altre fasi della nostra stessa cre-scita. I dati forniti dal biologo svizzero ci fanno capire che laspecificità del nostro sviluppo non risiede soltanto nella lista diparticolari anatomici proposta da Bolk. Il punto distintivo ri-siede infatti nella particolare mescolanza di caratteri primari esecondari del suo sviluppo ontogenetico.

È questo che fa dell’Homo sapiens quel che definisce Port-mann un «nidicolo secondario» (ivi, p. 512). Nell’utero mater-no l’animale umano attraversa uno stadio caratterizzato dallachiusura degli occhi che nelle altre specie appare piú tardi; inaggiunta a questo, la sua nascita è anticipata rispetto agli altriprimati. Questa doppia anticipazione contrasta con il fatto cheun cervello tanto complesso come quello umano richiederebbeun tempo di gestazione molto piú ampio per permettere unaprontezza sensoriale e cognitiva alla nascita pari a quella deglialtri mammiferi. Portmann calcola infatti che se i tempi di svi-luppo umano fossero in linea con quelli degli altri primati, lagestazione dovrebbe durare non nove ma tra i venti e i venti-due mesi (ivi, p. 514; 1959, p. 155): in altre parole un nidiaceoumano, secondo lo schema riportato prima, dovrebbe nasceregià in grado di parlare e di camminare in posizione eretta (1941,p. 514). L’animale umano invece vive una «primavera extraute-rina» (ivi, p. 517) che costituisce un ingrediente fondamentaleper la formazione del suo Daseinart, della sua modalità d’esi-stenza (ivi, p. 516). Siamo primati che rispetto agli altri mam-miferi si distinguono morfologicamente a causa di un diversoandamento di sviluppo: in termini filogenetici, Bolk dimostrache siamo scimmie lente poiché conserviamo un gran numerodi tratti fetali; secondo una direttrice ontogenetica, Portmannfa vedere che siamo protagonisti invece di una accelerazionedei tempi che ci espone al mondo prima delle altre specie. Que-sto doppio movimento temporale, questa accelerazione nel ri-tardo, costituisce la matrice genetica di una sovraesposizionesensoriale unica nel suo genere, nella quale, come vedremo an-che nel prossimo paragrafo, il tatto svolge un ruolo centrale.

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indefinite possibilità di acquisire nuove conoscenze. È un pro-blema, come esplicita in diverse circostanze (Portmann, 1951,p. 314; 1955, p. 35), di potenza e atto: l’animale umano si di-stingue dalle altre forme di vita per maggiori potenzialità armo-niche, per la necessità imposta dalla sua forma corporea e daisuoi ritmi di crescita di stabilire Stimmungen forti e ampie. L’a-nimale umano si distingue per questo lungo entrambe le dimen-sioni che definiscono il regno materiale, spazio e tempo. La pri-ma l’abbiamo già analizzata: siamo primati dalla filogenesi lentae dalla nascita precoce. La seconda è caratterizzata secondoPortmann dalla stazione eretta e dal molteplice significato cheessa assume. Non solo esser bipedi significa liberare le mani (suquesto, come visto in precedenza, la posizione di Bolk è forsepiú interessante poiché inverte la relazione tra i due termini) mavuol dire anche cercare nuove forme di equilibrio: lo sviluppodell’orecchio interno si rende necessario per un corpo dalla sta-bilità altrimenti precaria. Nel contempo questa precarietà per-mette una esposizione agli stimoli esterni piú completa che nonesclude piú la parte ventrale, rivolta ora in avanti.

Apertura per un verso e necessità di autocontrollo per unaltro8 distinguono l’animale umano per il suo portamento (Hal-tung): un essere vivente che non solo porta con sé utensili estrumenti grazie alla molteplicità dei movimenti manuali mache «si porta in giro», si tiene (halten): può trattenersi e nonrispondere agli stimoli ambientali; può agire su di sé e sul mon-do modificandoli (Portmann, 1959, pp. 158-159).

È l’apertura obbligata del suo portamento che dischiude al-l’animale umano una sfera conoscitiva altra, l’esperienza se-condaria caratterizzata dal linguaggio:

È il mondo secondario dell’intelletto calcolante, del dominio tecnico del-l’esistenza, un mondo di rappresentazioni fortemente distaccate dalla vi-ta sensibile; è un regno in cui i concetti, come ci dicono i matematici,non vanno considerati in rapporto a un loro ipotetico significato, ma so-lo come entità operative (ivi, p. 183).

Portmann (1957, pp. 112-113; 1959, pp. 171 sgg.) contrap-pone quindi il «mondo tolemaico», centrato su di sé e proprio

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l’interno (ora invisibile) può distinguersi dall’esterno fenome-nicamente e quindi in modo piú marcato. Si tratta pertanto diuna modalità di presentazione prevalentemente ottica che sifonda però su una struttura innanzitutto tattile:

La superficie dell’animale, ormai divenuta opaca, si trasforma cosí in unnuovo organo; con essa nasce una nuova realtà bidimensionale, larga-mente indipendente dalle strutture all’interno. Una superficie siffattanon è solo «frontiera», [...] bensí si trasforma in un organo con possibi-lità del tutto nuove. [...] La superficie opaca acquista un proprio valorecome vetrina di fenomeni ottici (Portmann, 1955, p. 24).

Il concetto di Selbstdarstellung e quello di Gestalt indicanocon una certa precisione la linea di discrimine tra minerali eanimali: forma e percezione sono elementi costitutivi di unmondo che è costitutivamente relazionale, nel quale si è e sisembra, nel quale «stare» significa «manifestarsi». Per questaragione la biologia morfologica si basa su due concetti tra lorocomplementari: ogni organismo ha un’esperienza di ciò che locirconda e ogni esperienza è per definizione relazionale. Leforme di vita vivono in una prestabilita armonia (Stimmung)con le altre specie, instaurano con esse una simpatia di fondo,cioè basilari forme di contatto. Come ambiente e organismonon sono tra loro mai scindibili, cosí ogni organismo non vivemai solo poiché si nutre, in senso sia proprio che metaforico,di rapporti interorganici. Nel riprendere alcuni temi portantidell’impostazione di Uexküll (l’armonia prestabilita, la sogget-tività intrinseca a ogni essere vivente), Portmann inserisce ele-menti di novità importanti che contribuiscono ad allontanareulteriormente questa posizione dalle tentazioni spiritualisticheemerse in Scheler. Come nell’analisi della morfologia umana lospirito diventa mente, cosí lo studio delle altre forme viventiattribuisce loro una interiorità che non ha piú connotati misti-ci: l’interiorità è in primo luogo interno corporeo e interioraviscerali, la soggettività consiste nella capacità materiale di per-cepire ciò che è nei dintorni.

In questo panorama, anche secondo Portmann la condizioneumana si distingue per la sua apertura all’esperienza e per le sue

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e linguaggio. Dominio ed equilibrio (aereo per i primi, terre-stre per i secondi) sono due termini chiave per entrambe leforme di vita: la precarietà del volo somiglia all’incedere tra-ballante dei bipedi implumi (Portmann, 1959, p. 156).

Allo stesso tempo, però, tutto ciò avviene secondo diret-trici evolutive antagoniste. Portmann, come abbiamo visto,per parlare dei sistemi di riferimento tolemaico e copernica-no utilizza il termine «mondo»: ma il suo uso va qui inteso insenso generico e non tecnico. Questa imprecisione terminolo-gica rischia di fare confusione: secondo il significato dato aqueste nozioni da Heidegger e Gehlen, è piú corretto parlareinfatti di ambienti tolemaici e copernicani. La distinzione pro-posta da Portmann, in altri termini, non coincide con quellache separa mondo e ambiente. Proprio per questo motivo, ècompatibile con essa poiché può essere interpretata come unasua articolazione interna. Proviamo a rappresentare Umweltcon un cerchio chiuso, Welt con uno tratteggiato e a segnareil sistema di riferimento tolemaico con una serie di frecceorientate verso il centro dell’organismo e quello copernicanocon frecce indirizzate verso l’esterno:

Gli uccelli, in particolar modo quelli migratori, costituisco-no un caso importante poiché mostrano somiglianze di orienta-mento ma non di struttura con l’animale umano. Sia gli uni chegli altri sono forme di vita esteroflesse, volte verso l’esterno.Ma solo la nostra specie è, per usare un’espressione coniata daHelmut Plessner (1892-1985)9, «eccentrica» cioè in grado diporsi al di fuori di se stessa. Quello delle rondini, ad esempio,

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della maggior parte delle specie viventi, a un «mondo coperni-cano» che prende come punto di riferimento fondamentalenon le coordinate corporee ma punti cardinali esterni.

Un simile decentramento non è semplicemente spaziale maanche temporale: solo un essere che vanta la nostra configura-zione corporea può distaccarsi dalla nozione biologica di tem-po, quella di istante come intervallo minimo percepibile, pro-posta da Uexküll (cfr. Portmann, 1951, p. 310; cfr. paragrafo2) e affidarsi invece a unità di misura esterna non necessaria-mente specie-specifica (secondi, settimane, anni). L’animaleumano, proprio perché primate lento dalla nascita precoce, èanche l’essere che misura il tempo e che governa i propri istan-ti mediante le lancette dell’orologio (Portmann, 1957, p. 99).

A tal proposito il confronto con gli uccelli, soprattutto quel-li migratori, dà la possibilità a Portmann (1951; 1957) di espor-re in modo ancor piú approfondito le peculiarità della naturaumana. Entrambe le specie, uomini e uccelli, costituiscono in-fatti forme di vita copernicane ma secondo modalità opposte.Per questa ragione è possibile parlare di due vie evolutive al-ternative tra loro.

Come gli esseri umani, gli uccelli migratori rappresentanodegli organismi nei quali la dimensione temporale è partico-larmente rilevante. Quel che di solito viene chiamato «istintomigratorio» è secondo Portmann (1951, p. 315) una forma disintonizzazione con l’ambiente particolarmente evoluta. Que-ste specie basano la loro vita mettendo a frutto un tempo chenon è né soggettivo (l’istante) né terrestre (la stagione) ma in-terplanetario. La migrazione si basa sulla sincronizzazione tral’organismo e la dinamica delle distanze che intercorrono trasole e terra. La trasformazione degli arti anteriori dei rettili inali ha rappresentato la nascita di una forma di vita in grado dimuoversi in quella pienezza tridimensionale che solo il volopuò garantire. Per certi aspetti quindi sia gli uccelli che gli es-seri umani dominano la terra: i primi per mezzo di un corpopiumato sovrastano ogni distesa in modo visivo attraversosguardi dall’alto; i secondi poiché dotati di corpi nudi sono ingrado di costruire il loro mondo grazie a mani, stazione eretta

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Umwelttolemaico

(molti animali)

Umweltcopernicano

(uccelli)

Welttolemaico(a. umano)

Welt copernicano(a. umano)

riferimento, tolemaico e copernicano. Ma attenzione: sarebbeerrato dire che Tolomeo è il nostro corpo, mentre Copernico èil nostro linguaggio. Questa identificazione, che ci riportereb-be in fin dei conti alla identificazione tra mondo e parola, è in-sostenibile.

I nostri tempi di sviluppo morfologici, la posizione del no-stro corpo, la libertà delle mani costituiscono forme copernica-ne corporee perché costituiscono il presupposto di una vita cheesce da nicchie ambientali per costruire mondi adatti a sé. Allostesso tempo, è proprio Portmann (1959, p. 178) a sottolineareche anche il linguaggio ha aspetti tolemaici: il pensiero primiti-vo e infantile, il ragionamento per analogia e immagini trasudadi esperienze sensoriali tanto da rimanerne soggiogato. Non sitratta di uno stadio transitorio del pensiero umano che poi vie-ne superato, quanto invece di un carattere costitutivo del no-stro corpo e del nostro linguaggio:

Noi siamo e restiamo dei tolemaici; siamo nati tali e tali nasceremo infuturo, e anche nell’esperienza di tutti i giorni, come nella nostra vitasentimentale, l’atteggiamento tolemaico resterà sempre determinante(ivi, p. 184).

Sia gli uccelli che gli esseri umani sorvolano (übersehen) masolo questi ultimi possono farlo nella duplicità dell’espressio-ne: poiché, oltre a godere di vedute panoramiche, gli animaliumani sono in grado di esimersi dall’esperienza, di tirare oltre,di lasciar stare. Proprio perché la struttura dell’uccello si con-centra sull’aspetto visivo della percezione panoramica, ne ri-mane intrappolato: è tanto aerodinamico in aria quanto goffoa terra. Quello degli uccelli migratori è in realtà un sistemacombinato: la visione si avvale di una sofisticata bussola biolo-gica che permette agli uccelli migratori (cosí come alle api) diorientarsi nell’attraversare il pianeta (cfr. Hughes, 1999).

L’essere umano raggiunge un sistema d’orientamento similea quello degli uccelli attraverso un percorso del tutto diverso:la nudità della pelle fa da contraltare al carattere localizzatodelle mani che, invece di specializzarsi in ali, mostrano caratte-ri piú generici anche rispetto alle zampe dei primati (cfr. cap.

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è comunque un istinto: una forma rigida e impermeabile che,come tale, non conosce modulazioni. Mentre l’uccello deveemigrare, l’uomo può parlare. Come già sottolineava Uexküllalla sicurezza animale fa da contraltare la libertà dell’uomo.Ma libertà e possibilità non sono, ribadisce Portmann, sinoni-mi di caos:

Alla sicurezza dell’animale protetto dalle sue preordinate capacità diorientamento l’uomo non si contrappone in quanto essere disorientato.Il vero polo opposto alla determinatezza ereditaria del mondo esperitodall’animale è costituito dall’orientamento come compito della ragione, at-tuabile attraverso l’innata facoltà a dominare per questa via il mondo(Portmann, 1957, p. 113).

L’animale umano è protagonista di un mondo sia tolemaicoche copernicano. Se da un lato questa duplicità è fonte di con-trasto tra sistemi di orientamento tra loro opposti, dall’altro èproprio una simile ambivalenza che segna le sorti di un anima-le che è eccentrico ma non spaesato, che vive di un orienta-mento primario garantito dai suoi sensi ma anche di sistemi diriferimento che consentano di andare al di là del qui e dell’ora,di fare progetti e di immaginare.

Questa precisazione consente di fare un passo teorico im-portante. Sia la tesi di Uexküll e Pinker che la lettura linguisti-ca delle nozioni di mondo e ambiente proposta da Lo Piparo eCimatti insistono infatti su una duplicità. Seppur nella diver-sità delle varie posizioni, tutti e quattro gli autori sostengonoche quello dell’uomo è allo stesso tempo un mondo e un am-biente. Heidegger e Gehlen ci hanno mostrato invece la radi-cale diversità di queste due condizioni d’esistenza. Portmannci dà ora la possibilità di mantenere ciò che c’è di positivo inquesta intuizione, la duplicità della natura umana, evitandoperò di affermare la coesistenza tra due termini che si escludo-no reciprocamente (avere un mondo e avere un ambiente è unasituazione tanto contraddittoria che anche Heidegger la utiliz-za per definire la vita animale solo in prima battuta e per ap-prossimazione). Si tratta infatti di una duplicità diversa che ri-guarda la compresenza nell’animale umano di due sistemi di

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ci permettono di cambiare strada alla ricerca di posti inesplo-rati, forse migliori. L’animale umano è per struttura morfologi-ca un primate lento, ma per sistema d’orientamento è un uc-cello che vola con la lingua.

3.4. L’animale non specializzato

Nel paragrafo 2 abbiamo analizzato due risposte alla psico-logia comportamentista, quelle di Uexküll e di Scheler. Intor-no agli anni quaranta e cinquanta un altro approccio allo stu-dio del comportamento animale, l’etologia, comincia a far sen-tire la propria voce contro il behaviorismo grazie soprattuttoall’opera del suo fondatore, Konrad Lorenz (1903-1989) e delsuo collaboratore piú stretto Nikko Tinbergen (1907-1988).

L’etologia, che si propone di studiare non solo il compor-tamento ma anche le abitudini e il carattere (l’ethos, appunto)di ogni specie vivente, è protagonista di un rovesciamento ar-gomentativo che contribuisce a mettere in crisi il paradigmacomportamentista (Gardner, 1985, pp. 44-45) ma che al con-tempo critica alcuni assunti fondamentali dell’antropologia fi-losofica.

Il behaviorismo, infatti, negli anni cinquanta ripropone unacritica radicale al concetto di «innato» (cfr. cap. I, par. 2.1):per un verso sostiene che la dicotomia innato/appreso è so-stanzialmente inutilizzabile poiché ognuno dei due terminipuò esser definito solo facendo ricorso all’altro. Per un altroverso la soluzione proposta da questo paradigma consiste nel-l’esaltazione dell’apprendimento tramite rinforzo e condizio-namento.

Mentre il comportamentismo ipotizza la forza pervasiva deiprocessi di apprendimento, Lorenz ravvede nella complemen-tarietà tra innato e appreso la necessità di riscoprire l’impor-tanza dei fattori ereditari per comprendere il comportamentoanimale (Lorenz, 1965, pp. 22 sgg.; 1978, pp. 9, 267). L’ap-proccio etologico però critica anche Uexküll poiché postulal’esistenza di «un’armonia prestabilita» tra l’organismo e il suoambiente (1965, p. 32). In entrambi i casi infatti l’apprendi-

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III, paragrafo 4). Per questa ragione seppur esistano, comenota Morris (1967, pp. 16-17), mammiferi volanti senza piu-me (i pipistrelli) tale perdita di piumaggio non solo non com-porta l’apertura dell’ambiente dell’animale in un mondo ma alcontrario ha come effetto il suo confinamento in un Umweltdi dimensioni spazio-temporali ancora piú ristrette. Il punto èimportante perché, se ci pensiamo, il pipistrello potrebbe co-stituire un controesempio alla nostra tesi: è anch’egli in un cer-to senso un bipede implume10 ma non per questo ha una se-conda natura (i pipistrelli non solo non migrano ma neancheparlano).

La nudità aerea di questa specie costituisce infatti una spe-cializzazione evolutiva e non un carattere fetale: non a caso èaccompagnata dalla scomparsa della funzione visiva e dalla suasostituzione con un sistema di orientamento ancora piú specia-lizzato, efficace anche in assenza di luce. Mentre il pipistrellorinuncia a pelo e piume in omaggio a due strutture superspe-cializzate (ali e sistema di ecolocalizzazione), l’animale umanoaccompagna a quello implume una serie ancor piú vasta di ca-ratteri non specializzati (si pensi alla lista fornita da Bolk). Lasensibilità esposta della pelle, ricettiva e ancorata a terra, è con-trobilanciata dalla mobile libertà di mani che costituiscono lapremessa per modificare l’ambiente in mondo.

Per questa ragione è la duplicità del tatto (anticipiamo untema che affronteremo nel capitolo IV) a costituire il fonda-mento corporeo della duplicità linguistica, tolemaica e coper-nicana, dell’animale umano.

È su questa basilare e complessa capacità di orientamentoche si fonda una perspicuità, quella offerta dal linguaggio, su-periore anche a quella visiva: quest’ultima può sorvolare soloin senso proprio, mentre la prima garantisce prospettive pano-ramiche sia percettive (quelle fornite da alianti e satelliti, aero-plani ed elicotteri: tutti oggetti della seconda natura) che rap-presentative. Come la rondine, anche l’essere umano migra an-che se non è piú un istinto a guidarne il percorso. A condurcisono i segni sulla carta o i racconti dei nostri avi che ci esone-rano dal pericolo dello smarrimento e che, allo stesso tempo,

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parte di Lorenz dell’opposizione tra fattori innati e appresi se-gna quindi una ridistribuzione dei pesi rispetto al comporta-mentismo che privilegia i fattori ereditari su quelli acquisiti. Se-condo Lorenz, infatti, mentre è impossibile che si verifichi ap-prendimento senza che ci siano precondizioni genetiche a costi-tuirne la porta d’ingresso, è possibile che si verifichi il contrario.

È la rivalutazione del concetto di istinto a costituire un pun-to di distanza fondamentale non solo con il pensiero compor-tamentista ma anche con l’antropologia filosofica. Si tratta diun concetto del quale aveva diffidato per primo lo stesso Lo-renz poiché connotato tra fine ottocento e inizio novecento disfumature vitalistiche e finalistiche. La sua rilettura da parte diLorenz e Tinbergen (1951) in senso genetico permette di im-piegarlo per comprendere aspetti del mondo animale altrimen-ti inspiegabili. Il fatto, ad esempio, che una tinca alla quale sia-no state rescisse le terminazioni nervose afferenti (cioè stimola-tive) sia in grado di continuare a muoversi nell’acqua mostral’esistenza di schemi motori innati quasi del tutto autonomi daogni forma di feedback percettivo e d’apprendimento (ivi, pp.112-114).

Fenomeni diffusi nel mondo animale come i cosiddetti«meccanismi scatenanti innati» (ivi, pp. 74 sgg.; Lorenz, 1973,pp. 100 sgg.) ne costituiscono la conferma: in questi casi perdimostrare il carattere innato di certi comportamenti è suffi-ciente che l’animale non riceva certe stimolazioni. L’esperienzacomune del cane domestico che improvvisamente si mette ascavare impossibili buche nel pavimento di casa mette in evi-denza come coordinazioni motorie anche complesse sfruttinol’esperienza solo come innesco e, in mancanza di questa, si at-tivino in modo automatico indifferentemente dalla situazionenella quale si vanno a trovare. Il cane, a prescindere da dove sitrova, agisce come se fosse nel suo ambiente naturale poiché loporta sempre con sé: la pressione selettiva dell’evoluzione è ingrado di modificare il rapporto organismo-ambiente ma ciònon significa che la rigidità di quel rapporto descritta daUexküll non sia valida in termini sincronici, cioè durante la vi-ta di un singolo organismo.

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mento è considerato un processo automatico: per i comporta-mentisti perché determina l’intera vita di un essere vivente; perUexküll perché è una pratica statica, incapsulata all’interno diuna relazione rigida e astorica. Le informazioni possono entra-re dentro un organismo, ricorda Lorenz (ivi, p. 130), non soloattraverso l’interazione tra l’individuo e l’ambiente ma ancheper mezzo dell’interazione tra specie e ambiente nel corso del-l’evoluzione.

Il comportamentismo trascura l’importanza del patrimoniogenetico che costituisce per ogni specie animale la realizzazio-ne biologica degli a priori kantiani: la griglia attraverso la qua-le un organismo entra in contatto con l’ambiente è determina-ta dall’insieme dei suoi sistemi motori e percettivi.

Uexküll coglie nel segno quando definisce il rapporto tracomportamento e ambiente in termini di contrappunto, poi-ché individua, secondo Lorenz (1973, p. 53), il principio morfo-logico che permette alle strutture innate e ai comportamentiappresi di costruire «tessere a incastro» (1965, p. 24). Ognispecie vivente è l’immagine dell’ambiente nel quale vive poi-ché ne costituisce il correlato funzionale. Se Portmann correg-ge un darwinismo che rischia di trascurare il valore morfologi-co delle forme viventi, Lorenz introduce una lettura evoluzio-nistica della biologia di Uexküll. Mentre il biologo svizzero in-siste sul significato autorappresentativo del corpo, il fondatoredell’etologia contemporanea propone una interpretazione am-bientale del concetto di immagine:

Anche nel corso dello strutturarsi del corpo, cioè nella morfogenesi, siformano delle immagini del mondo esteriore: le pinne e il modo stesso dimuoversi dei pesci riproducono le caratteristiche idrodinamiche dell’ac-qua […] (Lorenz, 1973, p. 25).

Anche una forma elementare come il paramecio, ormai a noiben noto (cfr. paragrafi 2, 3.1, 3.3), costituisce il calco dell’am-biente in cui vive: in questo caso si tratta di un’immagine sem-plice e piatta di uno spazio unidimensionale nel quale è possibi-le muoversi solo per procedere lungo il proprio percorso o evi-tare un oggetto d’intralcio (ivi, pp. 25-26, 30). La rilettura da

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e non umane. La distinzione piuttosto consisterebbe tra siste-mi biologici aperti e chiusi: i corvi tra gli uccelli, i ratti tra imammiferi e gli uomini tra i primati costituirebbero picchi diapertura ecologica tra loro commensurabili.

Gehlen, pur accettando alcune critiche di Lorenz e ammor-bidendo la posizione assunta nella prima edizione dell’Uomo,ricorda che i comportamenti mostrati da questi animali asso-migliano solo apparentemente alle condotte esplorative uma-ne. Corvi e ratti, ricorda il filosofo tedesco (Gehlen, 1978, p.57), di queste condotte in realtà non sanno che farsene. Anchese si muovono nello spazio e lo esplorano al di là di evidentivantaggi immediati (ricerca di cibo, riparo o partner sessuale),non si può affermare che simili forme di vita prendano cono-scenza di ciò che li circonda in modo superiore rispetto agli al-tri uccelli o altre specie di mammiferi.

L’animale umano si distingue perché, oltre ad avere biso-gni, ha interessi: «mette tra parentesi» i propri istinti, li «subli-ma» (ivi), li indirizza verso un obiettivo diverso da quello ori-ginario. L’interesse è un bisogno contestualizzato, sensibile alledifferenti circostanze. Lo iato che secondo Gehlen sussiste traanimali umani e non umani si annuncia in uno iato interno allanostra specie:

questa parola [iato] deve indicare il fatto che l’uomo è in grado di ritene-re presso di sé i suoi impulsi, desideri, interessi, di sganciarli dall’azione– e questo può succedere tanto da sé (nello stato di riposo) quanto vo-lontariamente – in quanto non accondiscende ad essi attivamente, percui questi acquistano una valenza «interiore». È lo iato che costituiscepropriamente ciò che si chiama anima (Gehlen, 1963, p. 136).

La critica di Lorenz, però, va piú a fondo poiché coinvolgeun elemento cardine della teoria di Gehlen, l’idea che l’uomosia un essere non specializzato. Il cervello costituirebbe inveceil controesempio a questa posizione poiché rappresenta unastruttura dedicata ad alcune funzioni specifiche, proprie sol-tanto dell’animale umano.

Quest’obiezione è particolarmente interessante poiché, sep-pur su basi molto diverse, ripropone una convinzione fonda-

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Secondo Lorenz, è sufficiente introdurre questa correzionedarwiniana per rendere l’approccio di Uexküll sostanzialmen-te corretto. Non a caso l’estrema continuità postulata da que-st’ultimo tra la nozione di ambiente e quella di mondo è man-tenuta invariata. È proprio questo il punto di scontro che av-via l’acceso dibattito tra Lorenz e Gehlen sul posto dell’anima-le umano nel regno naturale.

Lorenz infatti critica Gehlen per aver sopravvalutato le dif-ferenze che ci distinguono dalle altre specie animali: il fonda-tore dell’etologia sottolinea che si tratta di un rapporto di con-tinuità nel quale le diversità sono solo di grado e non di gene-re. Se il primo concorda con il secondo nel definire propriadell’uomo «una persistente curiosità e l’apertura al mondo»(Lorenz, 1973, pp. 364 sgg.) caratterizzata da condotte esplo-rative, la differenza d’impostazione emerge quando si prendo-no in esame comportamenti animali per certi versi simili a quel-li umani. Lorenz infatti ricorda che anche i ratti tra i mammi-feri e i corvi tra gli uccelli si caratterizzano per la loro curio-sità. I ratti, ad esempio, quando si vengono a trovare in un am-biente nuovo esplorano in lungo e in largo tutti i possibili rifu-gi anche se hanno già a loro disposizione un riparo; i corvi spo-stano con il becco gli oggetti che capitano a tiro anche se nonhanno intenzione di mangiarli, fanno a pezzi un oggetto di di-mensioni anomale per poi nasconderli e servirsene in seguito.È proprio l’apertura che caratterizza queste forme di vita a met-terli in condizione di vivere in situazioni ambientali molto di-verse e a far assumere loro comportamenti e abitudini di voltain volta distinti.

Il corvo ad esempio:

Nei deserti nordafricani, dove si nutre di carogne, vive la stessa vita del-l’avvoltoio, sulle isole degli uccelli, nel mare del Nord, vive come un gab-biano predatore, nutrendosi parassitariamente delle uova e dei piccoli dialtri uccelli; mentre, nell’Europa centrale, può dedicarsi alla caccia dimammiferi di piccole dimensioni, come fanno le cornacchie (ivi, p. 252).

Secondo Lorenz, questi comportamenti mostrano che nonc’è soluzione di continuità tra le diverse specie animali umane

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motorie, rispondenti l’una all’altra, e, fatto questo, domandarsi poi comedeve essere costituito un organismo che necessita di queste cose. Ed èappunto un organismo embrionale, non specializzato, povero d’istinti,esposto alla ricchezza aperta del mondo (Gehlen, 1963, p. 121).

Non si tratta quindi di una mera questione terminologica odella sterile contesa sulla denominazione piú corretta. Quel cheè in gioco è l’opposizione tra due paradigmi alternativi: nono-stante entrambi i modelli (in questo caso Lorenz e Gehlen) si ri-facciano a Uexküll e portino a loro sostegno la teoria della feta-lizzazione di Bolk (Lorenz lo cita ad esempio in 1973, p. 254), leposizioni che propongono sono molto diverse tra loro.

Quelli che si affrontano non sono due posizioni, una evolu-zionistica e una no, ma due modi diversi di intendere l’evoluzio-nismo e, in relazione a ciò, di concepire la natura umana. Comevedremo nel prossimo paragrafo, infatti, la posizione disconti-nuista di Gehlen trova sostegno nella lettura dei processi evolu-tivi proposti in questi ultimi decenni da S.J. Gould e N. Eldred-ge i quali insistono sul carattere non graduale dell’evoluzione.

Ma la risposta di Gehlen sembra piú soddisfacente della cri-tica che gli è mossa almeno per un’altra ragione. Lorenz, infatti,incappa in un paradosso molto simile a quello mostrato proprioda uno dei piú autorevoli esponenti della scuola chomskyana,Pinker. Quest’ultimo, come visto (cap. I, paragrafo 3.3), consi-dera il linguaggio una sorta di superistinto che si distingue dallealtre forme cognitive solo in base a criteri meramente quantita-tivi: l’animale umano ha un organo in piú rispetto alle altre spe-cie, la somma dei suoi istinti è superiore a quella delle altre for-me di vita. Avremmo istinti tanto plastici da essere programma-bili e cosí flessibili da aprire una dimensione temporale che nonè solo genetica ma storica. Ma in che senso allora sono istinti?

Lorenz ci riporta a una impostazione piuttosto simile, mi-nata inevitabilmente da una confusione non solo teorica maanche logica. Affermare che siamo specializzati nel non esserloè come dire che gli aeroplani sono in fondo automobili chehanno le ali: il che, a prescindere dal senso in cui ciò sia vero omeno, non ci dice nulla di nuovo perché non ci fa capire in co-sa gli aeroplani siano diversi dalle auto. Detto in altri termini,

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mentale della scienza cognitiva contemporanea. Come si ricor-derà (cap. I, paragrafo 3.3) Marconi, ad esempio, è fautore del-l’idea che sia proprio lo studio del cervello l’ultima e decisivafrontiera per una spiegazione della natura umana in terminicognitivi.

Lorenz, che non a caso esprime ripetutamente il suo ap-prezzamento per le teorie linguistiche di Chomsky11, ripropo-ne una teoria simile poiché sottolinea soprattutto le compo-nenti innate, i repertori geneticamente programmati, che fan-no sí che «l’uomo sia per natura un essere culturale» (Lorenz,1973, p. 316). Di fondo non ci sarebbero quindi elementi didiscontinuità tra uomo, corvo e ratto perché sono tutti «ani-mali specializzati nel non essere specializzati» (ivi, p. 252).

Gehlen ribatte esplicitamente a questa critica in un saggio(1963) in cui rivisita la sua opera principale. La risposta è par-ticolarmente interessante perché ripropone con precisione ilcontrasto tra due visioni della natura umana. Una la localizzanel cervello aggiungendo piú o meno esplicitamente che essa èin primis un organo linguistico: idea che, con le dovute distin-zioni, abbraccia un ampio arco di posizioni che comprende lascienza cognitiva ortodossa, la rilettura linguistica di Uexküll eora l’etologia di Lorenz.

La seconda ricorda che non sono solo cervello e linguaggioa fare dell’animale umano quel che è ma che è necessario pren-dere in considerazione un piú ampio principio morfologico cheriguarda struttura e sensibilità del suo corpo. Come ricordaGehlen infatti, il cervello è un organo sensomotorio prima cheintelligente: in altre parole non bisogna confondere il fatto cheil cervello sia un organo estremamente sviluppato e frutto diun complesso processo evolutivo con l’idea che questo costi-tuisca un organo specializzato. Proprio perché il cervello è l’or-gano buono per tutte le occasioni non è nato solo per una diesse. In tal senso non può esser definito neanche un organo,come non può esserlo il corpo o le mani:

Insieme al cervello bisogna vedere gli organi di percezione, la facoltà dellinguaggio e del pensiero, la straordinaria molteplicità di possibili figure

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caratteristiche somatiche tipiche della condizione infantile (oembrionale) del genere biologico cui si appartiene.

La neotenia di per sé non caratterizza solo lo sviluppo del-l’animale umano. L’axototl (una specie di salamandra), adesempio, può mantenere a secondo delle condizioni ambienta-li la respirazione branchiale tipica del suo stato giovanile di gi-rino (ivi; Gould, 1977a, pp. 319-321). Morris però concentrala propria attenzione su una caratteristica neotenica, già indivi-duata da Bolk, particolarmente importante: la nudità del no-stro corpo.

Come afferma lo studioso inglese, infatti, tra le 193 speciedi primati esistenti sulla terra solo quella umana è priva di pe-lo. Allo stato fetale ne sono sprovviste anche le altre scimmie,ma questa caratteristica permane solo nella nostra specie. Lanudità si compone in realtà di tre elementi: non consiste solonell’assenza quasi totale di pelo sulla pelle ma anche dell’au-mento, rispetto agli altri primati, delle ghiandole sudoripare edello strato di grasso sottocutaneo.

Queste caratteristiche sono complementari alla prima. Se-condo Eibl-Eibesfeld (1987, p. 756), infatti, sarebbero proprioqueste due proprietà somatiche che ci permetterebbero di com-pensare in resistenza quello che la stazione eretta ci sottrae intermini di velocità: è ciò che consente ai Boscimani, ad esempio,di catturare animali scattanti come le antilopi per sfinimento.

Stazione eretta e nudità costituiscono a tal proposito un bi-nomio decisivo perché costituiscono due elementi fondamen-tali di genericità per un corpo non piú confinato a terra ma al-lo stesso tempo ancora in grado di percorrere lunghe distanze.Una mancata specializzazione che si manifesta anche nella pla-sticità corporea alla quale accennavamo in precedenza. Proba-bilmente il processo di ominizzazione, cioè il passaggio dalleprime forme di ominini all’Homo sapiens, è stato caratterizzatodal trasferimento da un ambiente forestale a uno stepposo inconseguenza del progressivo inaridimento dell’Africa equato-riale, nostro luogo di origine12. Questa duplicità, esseri arbori-coli diventati terrestri, vegetariani in competizione con carni-vori, ha dato vita a un bricolage di caratteristiche morfologiche

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tutti coloro i quali sostengono che l’animale umano non vive inun mondo ma solo in un ambiente particolarmente ampio com-piono un errore che con le parole di Wittgenstein possiamochiamare «grammaticale», poiché dopo aver proposto un con-cetto se ne fa un utilizzo che implicitamente ne disconferma icaratteri costitutivi. L’ambiente, infatti, non è altro che una nic-chia ecologica, cioè una porzione ristretta dello spazio abitabile.Quando si afferma che quella dell’animale umano è una nic-chia la cui particolarità è solo di essere ampia, si sostiene chel’habitat umano è una porzione dello spazio abitabile che è ri-stretta e contemporaneamente non ristretta. Siamo di nuovo al-la contraddizione già analizzata secondo la quale l’uomo avreb-be e non avrebbe un ambiente (cfr. paragrafo 2).

4. Nudità e neotenia

Desmond Morris (n. 1928) è uno degli autori che con piú au-torevolezza ha applicato il modello etologico allo studio del com-portamento umano. Lo studioso inglese, cosí come I. Eibl-Eibes-feld (n. 1928) l’altro grande nome dell’etologia contemporanea,è fedele all’assunto di Lorenz secondo il quale l’animale umanosarebbe «specializzato nel non specializzarsi» (Morris, 1967, p.138; cfr. Eibl-Eibesfeld, 1987, p. 757; 1989, p. 398).

Seppur la sua posizione diverga da quella con cui concor-diamo (la linea Heidegger-Gehlen), Morris contribuisce a svi-luppare una nozione, quella di neotenia, di grande importanzaper il paradigma del bipede implume. In realtà questo termine(letteralmente «tendere al nuovo, al giovane») nasce un secolofa per merito di J. Kollmann (Gould, 1977a, p. 356), ma è solonella seconda metà del novecento che questo concetto trovaampia diffusione e viene approfondito in relazione al proble-ma della natura umana.

La neotenia, come afferma Morris (1967, p. 34), è un pro-cesso di «infantilismo differenziale» molto simile alla fetalizza-zione di cui parla Bolk (che accenna non a caso a questo con-cetto, 1926, p. 472): consiste infatti nel ritenere in età adulta

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Come si vede, la contrapposizione tra selezione K e R ri-calca quasi perfettamente la distinzione proposta da Port-mann tra mammiferi altriciali e primari13. Gould riproponequesta classificazione all’interno di un panorama piú ampionel quale la neotenia acquista connotati precisi: il problemanon è solo stabilire se una specie mantiene in età adulta trattigiovanili ma anche quale sia il processo che porta a un similerisultato. Nel caso della progenesi, infatti, questa conserva-zione è conseguenza di una folgorazione ontogentica, di unosviluppo tanto rapido da impedire ad alcuni tratti somatici disvilupparsi. Nel caso della neotenia, invece, si ottiene una fu-ga dalla specializzazione per mezzo del rallentamento onto-genetico.

Come già accennavamo nel paragrafo 3.3, l’animale uma-no sembra unire queste due caratteristiche: al ritardo aggiun-ge un altro fattore di segno inverso poiché i piccoli umani na-scono prima del tempo. Gould a tal proposito consente di fa-re delle integrazioni interessanti. Mentre Portmann si con-centra sull’importanza della precoce stimolazione corporea,l’attenzione del biologo americano è rivolta soprattutto a unaltro aspetto. Gould (1977b, pp. 62-67) sostiene che la pre-coce nascita del piccolo di uomo dipende da un motivo ana-tomico che riguarda la spropositata grandezza della nostra te-sta: se il piccolo aspettasse a uscire, non riuscirebbe a farloperché il canale utero-vaginale femminile non sarebbe in gra-do di dilatarsi a sufficienza. Egli concorda con Morris nel sot-tolineare che la grandezza del nostro cervello, elemento con-siderato decisivo per l’origine del linguaggio verbale, non èun fatto collaterale al carattere neotenico del nostro sviluppo:i tempi di crescita tanto elevati che contraddistinguono il no-stro primo anno di vita riguardano in particolar modo pro-prio il nostro cervello. Alla nascita in effetti quest’organo èsolo il 23% delle dimensioni adulte, mentre negli altri prima-ti corrisponde al 70%. Se nelle scimmie il processo si esauri-sce nei primi sei mesi dopo il parto, nell’animale umano assi-stiamo a un percorso complesso, piú veloce e piú lungo allostesso tempo.

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molto particolare. Nella steppa infatti vivono di solito animalidalla limitata plasticità corporea: anche le antilopi, una delleforme di vita meno specializzate in questo habitat (Eldredge,1991, p. 140), si muovono secondo unità di coordinazione mo-toria piú grandi, di conseguenza piú rigide, non solo dei pri-mati ma anche di altri quadrupedi che vivono in ambienti me-no omogenei come ad esempio i camosci (Lorenz, 1973, p.234). L’animale umano si presenta invece come un essere chevive nella steppa ma che nella locomozione ha un «minimumseparabile, cioè la minima parte autonomamente disponibiledella coordinazione ereditaria» (ivi, p. 233), tipico di ambientipiú variegati, come quelli arboricoli.

Prima di passare all’altra conseguenza della nostra nuditàche riguarda l’intimità sociale, dobbiamo però soffermarci conpiú cura sul concetto di neotenia.

Questa infatti non solo consiste nel mantenimento in etàadulta di caratteri giovanili. Come osserva Gould (1977a, pp.303 sgg.) in uno degli studi piú accurati su questo tema, è pos-sibile distinguere tra almeno due processi evolutivi che hannoquesto esito, chiamato di solito pedomorfosi:

PedomorfosiÌÓ

Progenesi Neotenia Caratteri giovanili Caratteri giovanili

prodotto di prodotto di Í Í

Accelerazione con Ritardo nello sviluppomaturazione sessuale somatico

precoce con maturazione sessualeÍ Í Í

normale ritardata (axolotl) (Homo sapiens)

Í Í

Selezione R Selezione K– animali di piccole dimensioni – animali di grandi dimensioni– vita breve – vita piú lunga– figliate frequenti e numerose – figliate poco frequenti e

poco numerose– clima avverso e scostante – clima meno duro e piú costante

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fesa. Il diverso grado di neotenia emerge infatti nella gestionedel gregge di pecore che devono sorvegliare. I primi utilizza-no comportamenti predatori degli adulti arrestandosi primadell’uccisione: sottomettono le pecore che si discostano dalgruppo afferrandole. I secondi stanno in mezzo al gregge for-nendo protezione solo con la loro mole e comportandosi conle pecore come se fossero cuccioli: le leccano, ci giocano e lemontano.

Ultraneotenia e neofilia hanno conseguenze decisive per lanostra forma di vita poiché incarnano entrambe la necessità diuna estrema intimità corporea e sociale che, in assenza di con-specifici, si può riversare su specie diverse per genere biologi-co ma affini per giocosa plasticità. Si tratta di un bisogno di in-timità che emerge secondo almeno due direttrici di fondo: nellecure parentali e nelle cure sessuali.

«L’infante umano», come ricorda Morris (1971, p. 37), «èun unico grande invito all’intimità»: come abbiamo visto, lasua conformazione corporea sollecita cure indispensabili perun essere che per molto tempo non può sopravvivere solo. Lanascita prematura costituisce allora una necessità che si favirtú: l’intrinseca socialità dell’animale umano non dipendeda una sorta di bontà naturale quanto invece dall’impossibi-lità di fare altrimenti poiché costituisce «un fattore formativoobbligatorio» (Portmann, 1960, p. 198). Per questa ragionela nostra seconda natura, cultura e linguaggio, non si aggiun-ge semplicemente alla prima ma la integra costituendone ilnecessario completamento. Le cure parentali, cosí come i for-ti legami sociali, costituiscono un presupposto del linguaggioverbale indispensabile per esseri che solo stando insieme han-no qualche possibilità di sopravvivere. L’allattamento al senoe il contatto con i genitori costituiscono forme di intimità fi-siologica necessarie per lo sviluppo e il nutrimento del picco-lo che, allo stesso tempo, assumono un valore intrinsecamen-te sociale poiché contribuiscono a cementificare rapporti du-raturi. L’ultraneotenia è il processo che dà forma a una specienella quale piccoli particolarmente indifesi sono presi in curada adulti particolarmente attratti dai loro bambini. È proprio

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Per un verso i ritmi di crescita post-natale sono come dettopiú elevati; per un altro il processo di sviluppo cerebrale pro-segue fino ai 23 anni (Morris, 1967, p. 34). È proprio questaaccelerazione nel ritardo a contraddistinguere quella che altro-ve (Mazzeo, 2002c) abbiamo proposto di chiamare ultraneote-nia: una tendenza alla gioventú che non si esprime solo nellaresistenza all’invecchiamento ma anche, ed è questa la novità,nella fretta di nascere. Una fuga dalla specializzazione doppiapoiché riunisce insieme tutte e due le strategie naturali che dan-no forma a un corpo generico: progenesi e neotenia14.

Il carattere particolarmente neotenico della nostra specierivela, inoltre, un secondo aspetto, complementare al primo,che, mutuando il termine da Morris (1967, p. 139), potrem-mo definire neofilia. Questo termine non si riferisce solo al-l’amore per il nuovo sottolineato da Gehlen, poiché ha anchealtri due significati piú circoscritti che costituiscono la pre-condizione genetica della nostra apertura al mondo. L’ultra-neotenia si esprime, in primo luogo, nella predilezione umanapercettiva ed emotiva per forme neoteniche. Studi condottida Lorenz (cit. in Eibl-Eibesfeld, 1989, p. 41) e poi ripresi daGould (1980, pp. 89-98) dimostrano la nostra predisposizio-ne innata per morfologie corporee particolari: teste grandi incorpi in proporzione molto piú piccoli, occhi grandi su fron-te bombata costituiscono le coordinate di affezione primitivaai piccoli della nostra specie, le stesse che l’industria dellebambole e del fumetto sfrutta tutt’oggi per incrementare leproprie vendite.

In secondo luogo l’animale umano è un neofilo perché,nella domesticazione, tende a selezionare animali neotenici insenso sia morfologico che comportamentale (Gould, 1993,pp. 438-453). Da un punto di vista somatico esiste un rap-porto tra forma animale e domesticazione. Lo studio dellalunghezza del cranio dei cani, ad esempio, ha mostrato la so-miglianza della forma della testa nei neonati a quella adulta.Ma il punto centrale della neotenia delle specie domestiche ècostituito dalle sue conseguenze comportamentali: buonesempio è dato dal confronto tra i cani pastore e i cani da di-

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Per animali che nascono sprovvisti di difese naturali, so-pravvivere e avere una identità individuale diventano un com-pito. Si tratta di una conquista che solo il linguaggio verbalepuò consentirci di ottenere lavorando sullo sfondo di intimitàsociali già intrecciate dall’insufficienza biologica mostrata dainostri corpi.

Letture consigliate

– Sull’importanza della nozione di mondo per la filosofia del linguaggio eper la filosofia politica è decisivo Virno (1994). Per una introduzione alpensiero di Uexküll e Portmann si veda Lestel (2001) che sottolinea l’im-portanza dei due autori per il passaggio dalla concezione cartesiana deglianimali come macchine a quella, etologica, che li considera innanzituttosoggetti. Uexküll è al centro di una suggestione narrativa molto efficacein cui lo scrittore danese Peter Høeg (1993) fornisce un esempio interes-sante della nostra condizione di esseri «quasi adatti».

– L’opera piú completa sulla neotenia è ancora quella di Gould (1977a)che dedica a questo concetto l’ultima parte del libro (capp. 9 e 10) e checontiene un glossario molto accurato anche da un punto di vista storico,utile per orientarsi nella biologia dello sviluppo. Piú aggiornata è l’operadi McKinney e McNamara (1991) che dedica un capitolo (il settimo) aitempi dello sviluppo umano. In italiano è possibile leggere alcuni saggi,meno tecnici ma ugualmente efficaci, contenuti in Gould (1977b. saggin. 7 e 8) che parlano sia di Bolk che di Portmann. Per una lettura dellaneotenia opposta a quella presentata qui, si veda il recente libro di FeliceCimatti (2002) che, come vedremo nel cap. IV, interpreta la lentezza del-lo sviluppo umano non come condizione di possibilità (e di necessità)del linguaggio ma come sua conseguenza. Purtroppo non tradotto in ita-liano, uno dei romanzi di Aldous Huxley (1939) risente delle ricercheche il fratello Julian Huxley (1920), tra i biologi piú importanti del nove-cento, ha condotto sugli axototl (le salamandre che restano immature).After many a summer dies the Swan, infatti, propone una versione delmito della vita eterna in chiave neotenica: il filtro di lunga vita non solorenderebbe immortali ma, dandoci il tempo di invecchiare, ci trasforme-rebbe in scimmie.

– Sull’antropogenesi, Gribbin e Cherfas (2001) hanno scritto di recente untesto, chiaro e abbastanza aggiornato, che sottolinea l’attualità dell’im-postazione di Bolk e della teoria della fetalizzazione. Per una panorami-ca molto dettagliata sullo stato attuale della ricerca paleoantropologica,è utile consultare Biondi e Rickards (2001): il loro testo mette in eviden-za il ruolo del caso per la comparsa della specie umana ma, curiosamen-te, considera la casualità che regge l’evoluzione inconciliabile con la ri-

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questa necessità di stare insieme che contribuisce a far uscirel’animale umano dall’isolamento che caratterizza l’ambienteanimale e a gettarlo nella socialità del mondo: l’amore per ipropri piccoli non è solo simbolo ma anche condizione gene-tica per quell’amore per la novità che caratterizza la nostraintera esistenza.

I rapporti sessuali costituiscono in tal senso la prosecuzio-ne di una intimità sociale non piú legata ai rigidi schemi dell’i-stinto. «La scimmia nuda», sostiene giustamente Morris (1967,p. 67), «è il piú sensuale di tutti i primati viventi»: il contattosessuale umano, la forma piú coinvolgente di percezione tatti-le, non è necessariamente legato alla riproduzione poiché laricettività femminile non è legata a quello che nelle altre spe-cie è il ciclo dell’estro. Non è tanto l’ovulazione a determinarel’eccitazione della donna quanto invece il rapporto con il pro-prio partner: come già riconosce Gehlen (1951; 1978), la ses-sualità, insieme alle altre pulsioni umane, rappresenta una di-mensione sfocata e diffusa che trova focalizzazione proprionel contatto sociale. Se l’indeterminatezza alla nascita è il pre-supposto dell’intimità parentale, l’indeterminatezza sessualegarantisce che questa intimità prosegua nel tempo nel contat-to con il partner. Si tratta a tal proposito di una mancanza dideterminazione sessuale duplice. Per un verso essa riguardaun contatto, come accennato, tra individui di sesso diverso or-mai non piú legato alla riproduzione: non a caso la lunghezzamedia dei rapporti sessuali umani è cento volte superiore ri-spetto a quella degli altri primati (Morris, 1971, p. 106). Perun altro questa indeterminatezza riguarda anche la nostra iden-tità sessuale: proprio perché non piú confinata in istinti, glianimali umani si caratterizzano, come sottolinea Portmann,per la loro intrinseca bisessualità:

Ereditaria è anche la fondamentale bisessualità della nostra costituzione,come lo è la singolare divisione fra maschile e femminile, dove è da nota-re il fatto che in ognuno dei due sessi distinti anche l’altro tende nei piúdiversi modi a farsi valere. Gli psicologi si imbattono sempre piú spessoin espressioni di questa condizione androgina dell’individuo (Portmann,1959, p. 173).

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III. Nelle nostre mani

Io non separo la mano né dal corpo né dalla mente. Tra la mente e la mano, però, le relazioni non sonoquelle, semplici, che intercorrono tra un padroneubbidito e un docile servitore. La mente fa la mano,la mano fa la mente.

H. Focillon

1. La mano e il senso del limite

Nel pensiero occidentale la mano subisce uno strano desti-no. Per un verso nella nostra cultura, profondamente visiva elegata alla scrittura, la mano rappresenta lo strumento per ve-rifiche ultime e accertamenti senza appello. «Toccare con ma-no» significa conoscere direttamente, andare a capire di perso-na, non lasciare spazio all’inganno. Da questo punto di vistal’episodio biblico di Tommaso rappresenta un evento paradig-matico, simbolo e sintomo di un’intera vicenda culturale e filo-sofica. Nell’episodio narrato da Giovanni, le mani assumonoinfatti un valore duplice poiché alla notizia della resurrezionedi Gesú, Tommaso reagisce cosí:

Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e non metto il mio ditonel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non cre-derò (Vangelo di Giovanni, 20, 27-30).

Vedere il segno non è sufficiente: per credere Tommasochiede non solo di poter mettere il dito nel costato (cosí comeè rappresentato nell’iconografia tradizionale), ma anche di met-tere la sua mano dentro la mano di chi si dice sia risorto.

L’idea che solo toccando sia possibile accertare la verità esuperare l’illusione non è isolata poiché nella nostra tradizionefilosofica riemerge in piú circostanze, a volte all’improvviso.

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cerca di tratti corporei che abbiano costituito condizioni di possibilitàper la natura umana. Schwartz (1987) contiene una ricostruzione stori-co-teorica molto interessante delle difficoltà classificatorie che presentail concetto di «primate». All’interno del libro è proposta una ricostru-zione della filogenesi umana, minoritaria ma originale, che sottolinea lavicinanza non tanto tra l’Homo sapiens e gli scimpanzé, quanto tra noi egli orang-outan.

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do questo modello, colui che è cieco nello spazio è in grado divedere nel tempo perché coglie il senso ultimo degli avveni-menti e della nostra esistenza. Il cieco vede il futuro perché èfuori dallo spazio, escluso da una conoscenza di ciò che lo cir-conda che solo la vista sembra garantire: poiché la vista è il pri-mo tra i sensi, chi ne è privo vive sospeso in un mondo nel qua-le la percezione dello spazio è impossibile. Recentemente que-sta posizione è stata assunta, ad esempio, dal neurologo OliverSacks. Lo studioso americano nel descrivere il caso di un ciecoche riacquista la vista dopo un intervento chirurgico (propriola circostanza discussa nella questione posta da Molyneux: cfr.cap. I, paragrafo 4.3) si lascia andare ad affermazioni di questotipo1:

Noi che abbiamo una dotazione sensoriale completa viviamo immersinello spazio e nel tempo; i ciechi, invece, vivono in un mondo esclusiva-mente temporale, che costruiscono a partire da sequenze di impressioni(tattili, uditive, olfattive) (Sacks, 1995, p. 179).

Il cognitivismo contemporaneo non assume una posizionetanto radicale: anzi di solito critica l’idea che sia solo la vista ilsenso dello spazio. Allo stesso tempo, però, le scienze cogniti-ve sembrano avere assorbito una declinazione raffinata, e perquesta ragione forse ancor piú fuorviante, dei topoi culturali efilosofici legati al tatto manuale e alla perdita della vista: il tat-to è considerato un senso inefficiente che mostra la propriafunzionalità solo quando il cieco, o il vedente bendato, riescea «vedere» attraverso le mani (Gentaz, Hatwell, 2002) o lamente (Galati, 1992). Il tatto sembra in fin dei conti privo diuna sua autonomia cognitiva, schiacciato com’è sulla perce-zione visiva.

Come accennavamo nel primo capitolo (par. 4.1), anche daquesto punto di vista quella cognitiva non può essere conside-rata una rivoluzione quanto una «controrivoluzione» poiché,insieme al comportamentismo, ha contribuito a limitare lo stu-dio della percezione umana alla visione. Ancora oggi, infatti,alcune delle acquisizioni della psicologia sperimentale e feno-menologica della prima metà del novecento risultano essere le

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Piú di un millennio dopo, J.G. Herder (1744-1803), ad esem-pio, segue esattamente questa linea di pensiero quando, par-lando dell’esperienza estetica, contrappone il carattere illuso-rio della visione a quello autentico e sincero della tattilità:

Noi crediamo di vedere dove dovremmo soltanto sentire; alla fine vedia-mo tanto e cosí rapidamente da non sentire piú nulla, e non riuscire asentire, poiché tal senso è sempre garante e fondamento del primo. Intutti questi casi la vista è soltanto una formula abbreviata del tatto. […]La vista è sogno, il tatto verità (Herder, 1778, p. 43).

La capacità conoscitiva attribuita alla mano di poter «affer-rare la verità» ha come risvolto la convinzione che in essa siapossibile leggere passato e futuro di ogni destino individuale.La chiromanzia, in tal senso, costituisce il recto magico di unverso epistemologico rappresentato dalla veridicità del «tocca-re con mano»: i segni sui palmi costituiscono la testimonianzadelle nostre azioni ma anche il presagio dell’avvenire.

In questa prima accezione, quella della veridicità e della ri-velazione (religiosa, magica o epistemica: comunque conosciti-va), il tatto manuale costituisce la declinazione percettiva diquello che potremmo definire «il senso del limite»: conduce lasapienza umana all’estremo delle sue possibilità, comporta l’ur-to decisivo con ciò che è reale.

Per un altro verso, però, nella tradizione occidentale la ma-no sembra vivere una condizione di completa inferiorità rispet-to alla vista: il tatto è senso del limite in un modo del tutto di-verso. Proprio perché legata alla presa diretta e al contatto conla materia, la conoscenza manuale è considerata di solito ap-prossimativa, grezza, poco efficace.

La mano, secondo questa idea, non coglie un limite ma viveun limite: deve tastare per successioni un mondo che non co-nosce nella sua interezza e mai completamente. La mano è sen-so del limite perché ristretto è il suo raggio d’azione e deficita-ria la sua forma di conoscenza.

Una simile ambivalenza si riflette nella concezione occiden-tale della cecità, anch’essa duplice. Si pensi, ad esempio, a Ti-resia, l’indovino cieco che rivela a Edipo il suo destino. Secon-

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in particolare. La prima è quella del «corpo intero statico»: se-condo lo psicologo ungherese, quando rimaniamo a lungo im-mobili, si crea una situazione di sospensione percettiva che alungo andare dà luogo a un vero e proprio disorientamento sen-soriale dovuto all’incapacità di cogliere gli assi spaziali in modopreciso e all’avvertimento confuso del proprio corpo. La secon-da è legata al «corpo intero in movimento», la cinestesia (lette-ralmente, percezione del movimento): se ci spostiamo nello spa-zio con gli occhi chiusi, tramite il movimento la percezione delnostro corpo e di ciò che ci circonda diventa piú precisa e con-sapevole anche se rimane ancora difficile da descrivere perchéindefinita e fortemente soggettiva. È solo con la terza forma, lapercezione manuale, che possiamo avvertire con chiarezza lospazio ed esplorarlo efficacemente. Per lo psicologo unghereseil tatto manuale costituisce, in estrema sintesi, l’emancipazioneda una percezione spaziale troppo soggettiva (la somestesia siastatica che dinamica) che tende a confondere la presenza di sécon quella degli oggetti circostanti.

Révész descrive la percezione della forma offerta dall’azio-ne manuale per mezzo di dieci «principi» o «tendenze». Ognu-no di essi incarna un aspetto differente di una percezione tatti-le manuale (anche detta, come abbiamo visto, aptica) che si ri-vela multiforme e poliedrica. Le tendenze che sembrano costi-tuire una specie di «dieci comandamenti del tatto» agiscono inmodo sinergico e complementare poiché solamente in rari casiun principio è antagonista all’altro. Vediamo piú da vicino al-lora in cosa consistono questi principi che, ancora oggi, offro-no una delle descrizioni piú perspicue della percezione aptica:

1. Principio stereoplastico. La percezione aptica tenta sempre,per prima cosa, la presa avvolgente: se l’oggetto è piccolo ea dimensione della mano le dita lo circondano; se invece èpiú grande il movimento stereoplastico si limita ad afferrar-lo. Secondo Révész (1938a, p. 164), si tratta del «principiofondamentale della percezione aptica» poiché costituisceun passo decisivo per la differenziazione tra l’io e il mondoche lo circonda. Grazie infatti alla capacità della mano di

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migliori e aspettano di essere approfondite. Per questa ragio-ne, il presente capitolo avrà un andamento particolare. Neiprossimi due paragrafi ci occuperemo di alcune delle ricerchepiú significative compiute sul tatto dalla psicologia gestaltica edella sua ripresa negli anni sessanta da parte di J.J. Gibson.Nella sezione successiva sottolineeremo le differenze anatomi-che e funzionali tra gli arti superiori delle scimmie e le maniumane: le prime sono preadattate a compiti specifici, le secon-de sono forme plastiche che aprono una dimensione ineditanel regno animale, quella del lavoro. Nel quinto e ultimo para-grafo tratteremo invece alcuni degli attuali indirizzi di ricercasulla percezione manuale cercando di mostrare la loro sostan-ziale inadeguatezza: potrà sembrare paradossale ma molti diquesti studi, pur essendo cronologicamente recenti, sono daun punto di vista teorico piú vecchi di quelli offerti dalla psi-cologia gestaltica ed ecologica.

2. I dieci principi della percezione manuale secondoRévész

Una delle opere piú importanti scritte sul tatto nel secoloappena concluso è sicuramente Die Formenwelt des Tastsinnes(Il mondo delle forme tattili) pubblicato nel 1938 dallo studio-so ungherese Geza Révész (1878-1955). Nel 1960 la riedizionein lingua inglese, sotto il titolo Psychology and art of the blind,ha permesso a questo testo di trovare dopo la seconda guerramondiale maggiore diffusione e una certa notorietà: è uno deitesti piú citati nella letteratura, forse la piú conosciuta tra leopere scritte sul tatto nella prima parte del secolo2. Si tratta in-fatti di un libro di grande respiro che cerca di porre le basi daun lato dello studio della percezione manuale, dall’altro dellapsicologia della cecità (in questa sede ci occuperemo soprat-tutto del primo aspetto).

Révész, bisogna chiarirlo subito, non identifica in manierarigida il tatto con la manualità: il suo testo comincia con l’esa-me di diverse forme della percezione tattile dello spazio, di tre

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pio della successività e quello cinematico si legano insiemenel prendere le misure di un corpo altrimenti irrappresen-tabile. Esistono a tal proposito, secondo lo psicologo un-gherese, due metodi fondamentali di misurazione. Il primoè di tipo statico poiché si limita ad applicare meccanica-mente unità di misura prestabilite come il centimetro, il me-tro, ecc. Il secondo invece è piú dinamico e soggettivo poi-ché si limita a rilevare grandezze relative e verifica se uncorpo è piú grande o piú piccolo di un altro. Il primo meto-do incarna un atteggiamento piú scientifico e preciso, il se-condo è un sistema di valutazione piú veloce e approssima-tivo poiché rileva distanze e proporzioni, non vere e pro-prie misure. Il senso aptico-manuale è quindi un senso geo-metrico non perché un soggetto cieco può conoscere lo spa-zio solo grazie alle astrazioni della scienza euclidea, ma, alcontrario, perché la tendenza alla misurazione intrinseca al-la manualità costituisce il luogo di origine della geometria(cfr. Mazzeo, 2001a). Il fatto che molte unità di misura (ilpollice e il piede, la spanna o i passi) richiamino diverse par-ti del corpo umano non fa altro che testimoniare la paternitàtattile della rappresentazione spaziale (ivi, pp. 155-156). So-lo la funzione metrica del tatto infatti è stabile e affidabile:nella vista le grandezze sono sempre variabili poiché decre-scono all’aumentare della distanza dagli oggetti percepiti.

5. Principio dell’atteggiamento ricettivo o intenzionale. Secon-do Révész, l’efficacia spaziale del tatto risente dell’atteggia-mento percettivo mostrato dal soggetto. Se la percezionetattile infatti è solo ricettiva, cioè si limita a subire passiva-mente gli stimoli che provengono dall’esterno, le sue pre-stazioni nel riconoscimento di forma e sostanza degli ogget-ti diviene molto limitata. Se invece l’atteggiamento si fa in-tenzionale, cioè attivo ed esplorativo (cfr. princ. 2), la situa-zione cambia radicalmente poiché per il tatto diventa possi-bile non solo percepire forme ma vere e proprie Gestalten,cioè forme immediate e complete (cfr. princ. 8). È propriolo iato tra atteggiamento ricettivo-passivo e intenzionale-at-tivo a costituire per Révész una delle maggiori differenze

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avvolgere gli oggetti con le dita, il tatto può esperire la cor-poreità tridimensionale degli oggetti, tutte le loro dimensio-ni (altezza, larghezza e profondità) contemporaneamente:da qui il nome di «stereo» (simultaneo) «plastico» (formatridimensionale).

2. Principio della successività. Come abbiamo accennato, se l’og-getto percepito è piú grande della mano, l’azione stereopla-stica delle dita non può avvolgerlo (come accade per un col-tello o una maniglia) ma solo prenderlo. Per questa ragione,il tatto deve procedere per passi successivi che gradualmentegli consentano di esplorare l’oggetto. Poiché il campo d’azio-ne della mano è limitato, di fronte a un corpo di grandi di-mensioni come una statua, un cancello o un’automobile ilprocesso esplorativo è costretto a suddividersi in una succes-sione di atti di presa che devono essere poi assemblati in unintero (cfr. princ. 8 e 9). Questa tendenza è soprattutto tatti-le ma, sottolinea Révész, rivela la propria presenza anche nel-la vista. Quando guardiamo una costruzione di ampie di-mensioni, una cattedrale ad esempio, anche gli occhi devonoimpegnarsi in un complesso lavoro di fissazioni parziali dariunire poi in una immagine complessiva.

3. Principio cinematico. La mano conosce solo se si muove: sianella presa (princ. 1) che nell’esplorazione (princ. 2), il tat-to rileva un carattere intrinsecamente dinamico. Pazienti af-fetti da un particolare tipo di agnosia tattile che disturba imovimenti manuali dimostrano l’importanza di un princi-pio secondo solamente a quello stereoplastico: se bendati,infatti, questi pazienti non sono in grado di riconoscere leforme piú semplici poiché scambiano una croce per un qua-drato o per un parallelogramma (ivi, p. 170). Pur avendouna sensibilità tattile normale, l’assenza di movimenti ade-guati impedisce ai soggetti di identificare gli oggetti in basealla forma.

4. Principio metrico. La mano, sostiene Révész, costituisce ilmodello degli strumenti di misura: spesso toccare e misura-re sono due azioni legate l’una con l’altra in modo indisso-lubile. Quando un oggetto è di grandi dimensioni, il princi-

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ferenti. La prima, di tipo associativo, è piuttosto superficia-le poiché consiste nel legare un’impressione tattile a una vi-siva: se tocco una pipa, sostiene lo psicologo ungherese(Révész, 1938a, p. 186), automaticamente mi verrà in mentel’immagine visiva di quell’oggetto. La seconda è invece piúprofonda poiché consiste in una vera e propria riconversio-ne del dato tattile in un elemento visivo. L’aspetto piú inte-ressante di questo processo è che, secondo Révész, esso nonpuò fare a meno del linguaggio verbale: «è il concetto l’anel-lo di congiunzione attraverso il quale la forma tattile si legaalla Gestalt ottica» (ivi, p. 188. Il corsivo è nel testo). Ciònon vuol dire, come è stato suggerito (cfr. ad es. Pick, 1974),che il tatto subisce una costante codifica in termini verbalie ottici: questa tendenza, infatti, non è sempre all’opera per-ché può essere soverchiata o sostituita da altre (ad esempiodal principio 1 o dal 10).

8. Principio dell’analisi strutturale e 9. Principio della sintesi co-struttiva. Poiché questi due principi sono intrinsecamentelegati l’uno all’altro, è opportuno darne una descrizione uni-taria. Si tratta infatti di due aspetti distinti di un processounico e simultaneo che riguarda la percezione di quella cheRévész chiama la «struttura» di un oggetto. Mentre la for-ma (Gestalt) è una totalità fenomenica unitaria, un tutto si-multaneo e immediato, la struttura (Struktur) è costituitadall’ordine e dalla disposizione delle parti che costituisconol’oggetto. Poiché la vista ha un campo percettivo ampio per-cepisce piú forme che strutture; il tatto, che ha una portatasensoriale molto minore, è spesso costretto a muoversi persuccessioni (princ. 2) e a cogliere piú strutture che forme.Ciò non comporta, si badi, solo svantaggi (la perdita, adesempio, di una visione d’insieme immediata): mentre unoggetto può avere diverse Gestalten, esso ha una sola strut-tura. Se ad esempio vediamo un cubo, di questo avremo im-pressioni visive unitarie ma parziali: dovremmo girarci in-torno o voltarlo piú volte per vederne tutte le facce. Se pren-diamo il cubo tra le mani, invece, ci troviamo in una situa-zione diversa: anche ammesso che le sue dimensioni ecce-

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tra tatto e vista. Questo accade non perché, come vorrebbeuna certa vulgata, il tatto sia intrinsecamente passivo e la vi-sta naturalmente attiva, ma per una ragione piú sfumata.Per lo psicologo ungherese, infatti, entrambi i sensi posso-no avere sia una modalità ricettiva che una intenzionale: ladifferenza sta nel fatto che mentre per il tatto il passaggiodall’una all’altra è decisivo poiché modifica drasticamentele sue prestazioni, nella vista questo passaggio è meno signi-ficativo poiché essa procede secondo dinamiche piú stan-dardizzate e automatiche che si attivano indipendentemen-te dall’atteggiamento del soggetto.

6. Tendenza al tipo e allo schema. Per mostrare questo princi-pio, Révész propone un esempio semplice ed efficace. Po-niamo di trovarci di fronte a una tavola imbandita sulla qua-le è disposta una serie di forchette, tutte di tipo diverso (unalunga, una stretta, ecc.). Ora proviamo a percepire le for-chette prima solo con la vista, guardandole per qualche se-condo, poi con il tatto toccandole con gli occhi chiusi. Poi-ché la vista procede piú per impressioni globali e il tatto persuccessioni percettive, le due modalità sensoriali sono in-fluenzate da due tendenze differenti. Con la vista ci con-centriamo maggiormente sul fatto che si tratta di forchettedifferenti, nonostante la loro somiglianza: ogni pezzo ha lasua forma individuale caratterizzata da certe proporzionispaziali. Per mezzo del tatto invece i soggetti tendono a con-centrare la loro attenzione sul fatto che, al di là delle parti-colari differenze, si tratta sempre dello stesso oggetto, cioèdel medesimo utensile. Poiché nella vista la forma ha mag-giore pregnanza, cioè si impone all’attenzione con piú forzacoercitiva, gli occhi mirano all’individuale, mentre il tattotende maggiormente a inscrivere gli oggetti in tipi generalidi identificazione e a costruire schemi generali di riconosci-mento.

7. Tendenza trasformatrice. Secondo Révész, in alcune circo-stanze il tatto ha come tendenza implicita quella di trasfor-mare i propri contenuti d’esperienza in dati visivi. Una si-mile trasformazione avverrebbe secondo due modalità dif-

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tomesso al secondo: ciascuna modalità, pur dando accessoa uno spazio unico, ha leggi proprie. Non a caso, Révész de-dica la discussione di questo principio all’analisi di uno stu-dio pubblicato dallo psicologo Blumenberg (1936) quasicontemporaneamente al suo libro. Questa discussione è in-teressante perché Blumenberg ha una posizione per moltiversi simile a quella che assumerà Gibson circa trent’annidopo (cfr. paragrafo 3). La tesi che propone è chiara e deci-sa: «al di là di tutte le differenze fenomeniche e descrittive, laforma delle leggi che governano le relazioni spaziali aptiche evisive è, date condizioni materiali tra loro comparabili, iden-tica […]» (ivi, p. 132. Il corsivo è nel testo). Per compren-dere le sfumature, peraltro decisive, che compongono la di-vergenza tra i due autori è necessario fare un passo indie-tro. Blumenberg utilizza alcune delle ricerche compiute pro-prio da Révész per assumere una posizione molto radicale.Già prima della pubblicazione della sua opera piú impor-tante, lo psicologo ungherese infatti aveva cominciato a stu-diare il rapporto tra le illusioni percettive visive e quelle tat-tili dimostrando la loro sostanziale omogeneità (cfr. Révész,1934). Questa serie di ricerche, che proseguono per quasivent’anni (cfr. Révész, 1953), fornisce dei risultati interes-santi poiché dimostra che le cosiddette «illusioni ottico-geo-metriche» non costituiscono fenomeni solamente visivi.Révész lavora su oltre una trentina di illusioni (tra cui quel-la di Müller-Lyer della quale abbiamo parlato nel capitolo I,paragrafo 3.2) dimostrando la loro forza coercitiva anchenel senso aptico, cioè sul tatto manuale attivo (per alcuniesempi si veda la figura 1). È opportuno precisare che que-sto studio assume un rilievo particolare perché secondoRévész le illusioni non costituiscono delle semplici curiositàpercettive ma rivelano la conformazione stessa del nostrospazio:

Le illusioni ottiche costituiscono quindi dei fattori essenziali per il nostrospazio visivo. Se le eliminassimo, il mondo spaziale cambierebbe i propriconnotati, perderebbe la propria vivacità ed elasticità e, in tal modo, ver-rebbe meno gran parte del suo carattere estetico. È proprio attraverso

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dano quelle della mano e che ci costringano ad analizzarnela struttura attraverso passi successivi d’esplorazione, unavolta sintetizzate le parti in una somma unitaria (il principio9), la struttura dell’oggetto si rivela unica poiché, a diffe-renza della forma, non risente del punto di vista dal quale èpercepita. Proprio perché il tatto ha accesso piú a struttureche a forme, è in grado di avere una funzione metrica piúefficace di quella visiva che gli consente valutazioni spazialipiú stabili e sicure. Ancora una volta, riprenderemo questopunto piú avanti, per mettere insieme le diverse parti per-cettive il tatto ha bisogno di un lavoro di fissazione verbale:nel processo di sintesi tattile il linguaggio compie un ruolodecisivo perché interno alla costruzione dell’unità struttura-le. Nella vista, al contrario, secondo Révész l’intervento ver-bale tende ad essere esterno, cioè successivo, poiché inter-viene su un’unità percettiva già pronta. Anche in questo ca-so, comunque, molto dipende dal tipo di oggetto percepito:di fronte a forme complesse ed ampie come edifici, distesepanoramiche od opere d’arte (ivi, p. 203), la vista non puòche rilevare strutture.

10.Principio dell’organizzazione autonoma. Una lettura disat-tenta o parziale dell’opera di Révész ha portato spesso a unainterpretazione distorta secondo la quale lo psicologo un-gherese sosterrebbe la palese inferiorità di un senso nonspaziale (cfr. ad es. Millar, 1981) o comunque decisamenteinefficiente nella percezione della forma (cfr. ad es. Flet-cher, 1981; Heller, 2000b). Questa decima tendenza percet-tiva dimostra invece che le cose stanno diversamente. Quel-lo di Révész, infatti, è un gioco continuo di somiglianze edifferenze che tende a sottolineare due principi fondamen-tali. Per un verso tatto e vista, se messi nella condizione difarlo, sono in grado di percepire secondo modalità moltosimili: quando gli oggetti da percepire sono di piccole di-mensioni il tatto può ad esempio percepire Gestalten; quan-do sono invece molto grandi, anche la vista deve procedereper rilevazioni strutturali. Per un altro, ciò non vuol direche tatto e vista siano sensi identici, né che il primo sia sot-

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questo insieme di tendenze che sono alla base anche delle illusioni geo-metrico-visive che le forme [Formen und Gestalten] acquistano vita, mo-vimento e attività. Se queste tendenze non avessero effetto, il nostro mon-do spaziale diverrebbe un sistema rigido piú che un mondo in continuodivenire (Révész, 1953, p. 466).

La dimostrazione che un gran numero di illusioni sono co-muni sia al tatto che alla vista dimostra «l’unità delle nostre ca-pacità percettive dello spazio e della forma» (Révész, 1934, p.364). Il dissenso nasce dal fatto che Blumenberg commette l’er-rore di trarre da questa conclusione un’inferenza non lecita chestabilisce la sostanziale identità (o perlomeno la totale confor-mità) tra il dominio visivo e quello aptico. Blumenberg sostie-ne, ad esempio, che la prospettiva è percepibile graficamenteanche attraverso il tatto per mezzo di una fitta maglia di segniin rilievo tracciata in modo tale che ogni segno parta da unpunto di fuga centrale (si pensi a una ragnatela: ivi, p. 136) eche l’illusione di Aristotele (fig. 2) non è altro che la versionetattile dello sdoppiamento dell’immagine visiva (il noto «vede-re doppio» di chi ha esagerato con l’alcool o è reduce da un’a-nestesia generale: ivi, pp. 156-157).

La posta in palio non va sottovalutata. Attraverso la disami-na dei suoi dieci principi, Révész cerca di trovare un equilibriotra due concetti ancora oggi troppo spesso confusi tra loro: au-tonomia e indipendenza. La vasta coincidenza delle illusionigeometriche tattili e visive, cosí come la parziale applicabilitàal senso aptico delle leggi gestaltiche verificata da un allievodello psicologo ungherese (Scholz, 1957), dimostra che questedue modalità sensoriali sono strettamente intrecciate e che dan-no accesso a uno spazio unitario, non pulviscolare. Al contem-po sostenere l’intreccio tra questi due sensi non significa affer-mare che tra di essi non sussistano forti differenze, che ciascu-no di essi non abbia la sua autonomia, cioè leggi proprie(aÈtÒw = proprio, nÒmow = legge):

Questa forte coincidenza è mostrata dal fatto che sono percepibili in am-bito aptico tutti i tipi di illusione geometrico-visiva. Una tale coincidenzanon perde in alcun modo la propria validità generale a causa del fattoche esistono illusioni spaziali specifiche della vista come la prospettiva

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Figura 1 Alcune delle illusioni visive e tattili studiate da Révész

Illusione di KundtSe si confrontano i segmentia e b, il segmento b,suddiviso in parti, apparepiú grande del segmento a.

Illusione di Zöllner Le cinque sezioni centralidelle linee sono parallelema sembrano convergereverso sinistra e verso destra.

Illusione delle ellissi:Se si confrontano l’ellissiverticale A e l’ellissiorizzontale B, quellaverticale appare piú altae stretta.

Illusione di quantità: Le linee di A sembrano piúnumerose di quelle di B,sebbene il loro numerosia identico.

Illusione di PoggendorfIl segmento A, che ha la stessalunghezza del segmento Be che è interrotto da dueverticali, sembra spostatoverso il basso.

Illusione di TitchenerIl cerchio A dà l’impressione diessere piú grande del cerchioB, delle stesse dimensioni matra cerchi piú grandi.

Tutto ciò non vuol dire che la posizione di Révész sia esen-te da difficoltà o che non necessiti di integrazioni. I punti chedevono passare un vaglio critico sono infatti almeno due. Ilprimo concerne il settimo principio, quello che riguarda la ten-denza del tatto a tradurre i dati aptici in forme visive. In chesenso esso è valido? Quando parla di illusioni spaziali, Révészè molto chiaro su un punto. La coincidenza di prestazioni tratatto e vista non può essere spiegata come una traduzione visi-va delle prestazioni tattili:

Contro le nostre affermazioni sulla natura delle illusioni tattili, si potrebbesostenere che queste, in realtà, sono datità [Gegebenheiten] non aptiche maoriginariamente visive, che nascono involontariamente in corrispondenzadi impressioni tattili-motorie e che poi si trasferiscono su di esse. Questaipotesi è del tutto insostenibile perché, come è possibile dimostrare, perso-ne cieche dalla nascita o dalla prima infanzia si comportano come i vedenticon gli occhi chiusi (Révész, 1953, pp. 476-477. I corsivi sono nel testo).

Il fatto che i ciechi congeniti diano risultati simili a quellidei vedenti bendati conferma l’autonomia della percezione tat-tile (Révész, 1934, pp. 367-371). Perché allora insistere sullatendenza a visualizzare? Révész compie l’errore di considerarecome costitutivo della percezione tout court un dato probabil-mente valido per la nostra cultura e la nostra epoca (entrambesicuramente assai visive: televisione, cinema, telematica ne sonole testimonianze piú ovvie e recenti). È esattamente questo ilpericolo che corre ogni indagine sulla conoscenza umana chetrascuri di confrontarsi con la ricerca antropologica (si pensi,ad esempio, al paradigma cognitivo): scambiare un fatto cultu-rale (cioè locale e storico) per una condizione universale, validasempre e ovunque. La stessa antropologia, peraltro, ha dedica-to scarsa attenzione a forme sensoriali come quella tattile perlungo tempo considerate «minori»: pertanto i dati a disposizio-ne sono purtroppo scarsi. Nonostante ciò è possibile fare unpaio di esempi piuttosto interessanti perché suggeriscono il ca-rattere culturale della tendenza a rendere visivi i dati tattili. Nonsolo, infatti, alcune ricerche sul campo hanno confermato la va-lidità di alcune illusioni tattili, come quella di Aristotele, anchepresso popolazioni non occidentali come i Toda dell’India me-

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che, come accennato, si realizza in seguito alla particolare funzione svol-ta dalla visione binoculare. Allo stesso modo, è possibile citare illusionispecifiche del senso aptico, che trovano la loro origine nel movimento enella posizione degli organi tattili, come ad esempio la cosiddetta illusio-ne di Aristotele (Révész, 1953, p. 476).

Révész insiste continuamente sul fatto che ciò che costitui-sce l’eccezione, o meglio un caso insolito, per un senso rappre-senta la regola per l’altro. Tra tatto e vista esiste una relazioneincrociata che permette di distinguere i loro tratti costitutivi e,nel contempo, di focalizzarne i punti di raccordo e sovrapposi-zione: gli oggetti piccoli e non troppo complessi costituisconoil punto di collasso, cioè di estrema coincidenza, tra sistemipercettivi con caratteristiche proprie.

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Figura 2. L’illusione di Aristotele è provocata da un mancato processo diunificazione sensoriale: se, a occhi chiusi, tocchiamo una matita con due ditadistese (fig. a), abbiamo la sensazione di venire a contatto con un solo ogget-to, ma se le incrociamo ci sembrerà di sentirne due (fig. b) come se i due latidella matita rimanessero separati. Il nome dell’illusione ricorda che il primoa descrivere il fenomeno è stato Aristotele (Metafisica, IV, 1011a). Per unarassegna aggiornata sulle illusioni tattili si veda Negri Dellantonio, 1994, Hel-ler, 2000c e Gentaz, Hatwell, 2002. Fonte: Coren, Ward, Enns, 1999

cia e incisività se non viene inserito in prospettiva genetica edevolutiva. In che modo vista e tatto sono sensi diversi?

Lo psicologo ungherese mette a disposizione tutti gli ele-menti per una risposta piú forte e soddisfacente senza però trar-re con decisione le dovute conclusioni: è come se imbandisse lapropria tavola per poi andare a mangiare altrove. Révész sotto-linea infatti due aspetti complementari. Per un verso tatto e vi-sta sono due modalità sensoriali diverse perché hanno un rap-porto differente con lo spazio-tempo. Il tatto è piú lento dellavista: i movimenti della mano sono misurati di solito in secon-di, quelli degli occhi (i cosiddetti movimenti saccadici) in mil-lesimi di secondo. Nel contempo le mani hanno un campo d’a-zione, come accennavamo in precedenza, limitato all’estensio-ne delle braccia e del corpo, mentre gli occhi possono percepi-re forme e colori per centinaia di metri. Questa accoppiata, tat-to lento a corto raggio e vista veloce a lunga gittata, fa sí che iprincipi portanti della percezione assumano contorni molto di-versi. Come abbiamo visto in precedenza, le opposizioni traforma e struttura, successività e simultaneità, analisi e sintesinon sono nette poiché non è possibile identificare ciascun ter-mine con un senso piuttosto che con un altro (Révész non af-ferma, ad esempio, che il tatto è senso della successione men-tre la vista quello della simultaneità come invece tutt’oggi an-cora molti sostengono: cfr. ad es. Jonas, 1994; Sacks, 1995).

Si tratta piuttosto di un problema di amalgama e di domi-nanza: come mostra lo schema, le dieci tendenze di cui abbia-mo parlato sono sia aptiche che visive, ma diversa è la loro me-scolanza perché differenti sono i loro rapporti di forza:

Principio tatto vista1. Stereoplastico + –2. Successività + –3. Cinematica + –4. Metrico + –5. Atteggiamento ricettivo o intenzionale + –6. Tendenza al tipo e allo schema + –7. Tendenza trasformatrice + –8. Analisi strutturale + –9. Sintesi costruttiva – +10. Organizzazione autonoma + +

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ridionale (Rivers, 1905, pp. 371-372): esistono culture per lequali la percezione tattile assume un valore diverso, piú focale,rispetto alla nostra. Gli eschimesi Netsilik, ad esempio, vivonoin un clima estremamente rigido: per questo la madre porta consé il figlio legato dietro la schiena sotto la sua giacca. Il bambi-no è sempre al caldo, non rischia di cadere sul fondo ghiacciatodell’igloo e la madre può svolgere le proprie attività quotidia-ne. Per la maggior parte della giornata il bambino guarda ilmondo da sopra le spalle della madre e ogni scambio comuni-cativo, almeno finché il piccolo non comincia a camminare, av-viene per mezzo del tatto: «la madre riesce a prevedere i suoi[del figlio] bisogni attraverso il contatto cutaneo» (Montagu,1971, p. 212). Nella cultura Netsilik l’intesa tra madre e neona-to piú che di sguardi è fatta di contatti, di pressioni e di rap-porti termici. Nelle distese ghiacciate del Polo Nord non c’è lu-ce per sei mesi l’anno e per la maggior parte degli altri sei il ba-gliore del sole contro il ghiaccio è molto fastidioso. Nell’ecosi-stema artico la vista perde il primato che gode presso la culturaoccidentale e cede il passo al senso del contatto.

Non si può certo obiettare che l’ambiente polare sia «menonaturale» di quello tropicale o temperato: è solamente diverso.Differenti sono le priorità sensoriali e le strategie di sopravviven-za adottate dagli animali umani che abitano questo spazio ecolo-gico per trasformarlo in un posto in cui poter crescere, cioè inun mondo (cfr. cap. II, par. 3; cap. IV, par. 4). L’importanza deltatto nella cultura eschimese non è riducibile, infatti, alle condi-zioni climatiche nelle quali essa vive: anche per i Dusun, popoloche vive nel Borneo settentrionale, la percezione tattile assumeun ruolo centrale (Williams, 1966). Il fatto che si tratti di unacultura prevalentemente orale svincola il sapere collettivo dalmezzo ottico costituito dalla scrittura: nel caso dei Netsilik unastruttura sociale basata piú sul racconto collettivo che sulla lettu-ra individuale si accompagna alla necessità biologica di stare incontatto per non perdere calore (e non solo in senso metaforico).

Ma c’è un secondo punto sul quale è necessario soffermarsiperché, se possibile, ancora piú importante del primo. Il lavorodi Révész, infatti, rischia di perdere gran parte della sua effica-

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vergenza binoculare e alla rilevazione dei contorni sono auto-matici e precablati. I movimenti saccadici sono delle forme diaggiustamento percettivo di ordine sostanzialmente fisiologico,poco influenzabili da abitudini, cultura o stile di vita, dalla co-siddetta seconda natura insomma.

Per il tatto, le cose stanno differentemente. Révész, parlan-do della differenza tra struttura e forma, fa un’affermazionemolto interessante:

la struttura è in senso kantiano un prodotto empirico, mentre la forma èuna condizione trascendentale della percezione gestaltica (Révész, 1938a,p. 153).

La prima è un dato empirico e costruito, mentre la secon-da è innata. È proprio questo elemento che consente di utiliz-zare la presentazione della percezione aptica fornita da Révészcome parte integrante della nozione di natura umana sulla qua-le abbiamo cominciato a lavorare nei capitoli precedenti. Lacapacità della mano di percepire piú strutture che forme co-stituisce infatti il correlato aptico della sprovvedutezza checontraddistingue il corpo umano nella sua interezza. Come lasomestesia dell’Homo sapiens si caratterizza per l’esposizioneagli stimoli esterni e agli agenti climatici poiché nuda e sprov-vista di armi, cosí la mano umana non ha a disposizione la pos-sibilità cablata, pronta alla nascita, di percepire automatica-mente forme. In entrambi i casi il punto di partenza è la sprov-vedutezza data da una mancanza di difese e abilità innate. Nelcontempo questa doppia sprovvedutezza non rappresentasemplicemente la sottolineatura naturale e un po’ ossessiva diuno stesso carattere, quanto invece due aspetti complementariin grado di dare soluzione al problema costituito dalla nuditàumana.

L’estrema esposizione conferita al nostro corpo dalla postu-ra eretta consente infatti di liberare le mani dalle funzioni spe-cializzate della locomozione o della semplice presa. Spoglian-dosi in una cruda somestesia, il corpo umano denuda le suemani, l’altra sponda della percezione tattile. Ma proprio mani

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Révész sottolinea, poi, un secondo aspetto: è proprio per lamaggiore lentezza e il minor raggio d’azione che il tatto ha bi-sogno del linguaggio verbale. Questa affermazione è spesso in-tesa in modo riduttivo: se il tatto ha bisogno di integrazioniverbali, vuol dire che è un senso intrinsecamente linguistico ecome tale percettivamente inefficace.

Come abbiamo visto questa conclusione è insostenibile poi-ché esiste un nucleo percettivo aptico che è autonomo, origi-nale e irriducibile: la percezione stereoplastica dei corpi, la raf-finata sensibilità alla tessitura delle superfici, la pregnanza del-le illusioni geometriche e, in parte, delle leggi gestaltiche necostituiscono la dimostrazione. Ciò non toglie naturalmenteche il tatto sia un senso meno gestaltico della vista. Questa ca-ratteristica, di solito considerata come un handicap di parten-za, dà invece la possibilità di capire l’importanza del tatto perl’origine del linguaggio3.

Révész è sulla buona strada quando, in maniera piuttostosorprendente (almeno per il lettore abituato a una gran quan-tità di letteratura che si ispira alle scienze cognitive ma che tra-scura il tatto), afferma che «il processo percettivo tattile è, persua natura generale, cognitivo» (Révész, 1938a, p. 127. Il corsi-vo è nel testo). Che il tatto sia un senso cognitivo non significache questa modalità percettiva è colonizzata dalle parole mache il tatto costituisce l’humus percettivo nel quale si radica illinguaggio.

Questo punto è spesso occasione di fraintendimenti. Unadelle fonti di confusione concettuale delle quali è responsabilelo stesso Révész è di aver inserito il termine «intenzionale» o«volontario» nel confronto tra tatto e vista. Anche i movimentitattili, infatti, sono molto spesso involontari (cfr. paragrafo 4.2):quando esploriamo un oggetto con le mani non dobbiamo co-scientemente comandare, passo dopo passo, gli spostamentidelle nostre dita. La differenza sta nel fatto che questa comuneinvolontarietà che accomuna tatto e vista ha un’origine e un si-gnificato profondamente diversi. La superiore velocità della vi-sione è determinata infatti da una circostanza precisa: i movi-menti deputati alla messa a fuoco e al puntamento, alla con-

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«ecologico» poiché cerca di fornire una visione della cono-scenza umana meno frammentata e meno separata da ciò chela circonda. A differenza della concezione computazionale del-la mente, base del cognitivismo standard, l’informazione se-condo Gibson non è elaborata dalla mente attraverso schemiinferenziali. Le informazioni sono come i fiori in un campo:sono lí, nell’ambiente che circonda ogni organismo e sono sem-plicemente da «cogliere» (pick up). Di conseguenza, percezio-ne e pensiero tra loro non si identificano: per lo psicologo ame-ricano percepire significa avere presa istantanea sulle cose,muoversi su un pianeta popolato da altri organismi. La perce-zione, infatti, non è concepita come un processo passivo (com-portamentismo) né come l’elaborazione tutta attiva della men-te calcolatrice (cognitivismo): è un processo di interazione tragli esseri viventi e il loro ambiente. Ambiente e soggetto dellapercezione sono infatti tra loro interconnessi, due termini diun unico rapporto: è proprio da questa relazione specie-speci-fica che scaturiscono le diverse affordances, cioè le varie possi-bilità pratiche di uso e di sfruttamento dell’ambiente da partedi ciascun organismo. Specie differenti non solo percepisconociò che le circonda in modo differente ma lo utilizzano in ma-niera diversa: ci si può arrampicare su un albero solo se si han-no zampe, un sasso può essere lanciato solo da chi abbia manoprensile.

L’approccio ecologico di Gibson si distingue quindi per duecaratteristiche di fondo. La prima, come abbiamo ribadito piúvolte, è il rifiuto di ogni paradigma di ricerca sulla natura uma-na che si concentri solamente sulle sue capacità linguistiche eche utilizzi come principale strumento euristico esperimenti dilaboratorio basati sull’analogia mente-computer.

La seconda consiste invece in una forma estrema di conti-nuismo che descrive l’essere umano semplicemente come unanimale tra gli altri, un essere il cui ambiente è reso piú estesodalla cultura (Gibson, 1966, p. 26). Nella teoria gibsoniana del-la percezione, infatti, la nozione di «mondo» ha un impiegospecifico ma molto diverso rispetto all’accezione nella qualeviene utilizzata nell’antropologia filosofica e in questo libro.

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tanto nude, cosí prive di capacità immediate di percezione del-la forma e di gesti automatici di presa (questo secondo aspettolo vedremo meglio nel paragrafo 4), hanno una plasticità taleda farsi strumenti di lavoro, mezzo di costruzione culturale diquei ripari di cui nasciamo privi.

Da una parte tra linguaggio e manualità sussiste quella chegià Gehlen (1978, p. 173; cfr. cap. II, paragrafo 3.2) descrivecome una analogia strutturale: si tratta in entrambi i casi di for-me conoscitive che non si limitano a constatare come il mondoè, ma a costruirlo, a modificarlo continuamente. Come nel lin-guaggio il dire è sempre un fare, cosí nella percezione manualel’azione conoscitiva è sempre una prassi manipolativa: sia il lin-guaggio che la percezione aptica sono intrinsecamente perfor-mativi (lo vedremo meglio nel cap. IV, paragrafo 4).

Dall’altra, c’è un secondo aspetto sottolineato da Révész(ivi, pp. 188, 191-192): la percezione manuale della strutturarichiede una fissazione verbale. La percezione aptica, cosí co-me quella somestesica (cfr. cap. II), costituisce condizione dellinguaggio semplicemente perché ne ha bisogno. Ciò non vuoldire, naturalmente, che il tatto sia la causa della comparsa dellinguaggio verbale: non si tratta di una relazione meccanica, nétantomeno di una necessità logica. Piú semplicemente, la sprov-vedutezza del corpo e della mano umana trova la sua cura perun verso nella plasticità della somestesia e nelle capacità mani-polative della percezione aptica, per un altro nella plasticità enella performatività del linguaggio.

Mentre la sua nudità somestesica permette all’Homo sa-piens di evadere da un ambiente, le capacità costruttive dellesue mani e delle sue parole gli consentono di costruirsi unmondo.

3. Gibson: il tatto come senso attivo

Come abbiamo detto nel primo capitolo (paragrafo 2.2),Gibson propone una versione del cognitivismo molto partico-lare, potremmo dire eterodossa. Il suo approccio è chiamato

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manuale della quale ci stiamo occupando ora, senza porli inrelazione gerarchica.

A tal proposito Gibson distingue tre forme di percezionetattile. La prima è definita tatto passivo o cutaneo (passive orcutaneous touch) e si riferisce alla condizione nella quale la pel-le subisce il contatto di un altro corpo che le si avvicina (Gib-son, 1962, p. 477). È la modalità percettiva tattile meno effica-ce poiché consiste semplicemente «nella stimolazione della pel-le e dei tessuti piú profondi senza alcun movimento di artico-lazioni o muscoli» (Gibson, 1966, p. 122).

La seconda è chiamata tatto attivo (active touch). Come ve-dremo tra poco, è la modalità tattile piú efficace per il ricono-scimento della forma. Gibson la definisce in questo modo:

Il tatto attivo si riferisce a ciò che di solito è chiamato toccare. Il tatto atti-vo deve essere distinto dal tatto passivo ovvero dall’esser toccati. In un ca-so l’impressione sulla pelle è causata da chi percepisce, mentre nell’altroda qualche agente esterno. Questa differenza è molto importante per l’in-dividuo ma non è stata sottolineata dalla psicologia della sensazione né,soprattutto, dalla letteratura sperimentale.Il tatto attivo è un senso esplorativo piú che meramente ricettivo. […] Sitratta di movimenti esplorativi, non operativi. In questo senso, questi mo-vimenti tattili delle dita sono come i movimenti degli occhi. Infatti, il tattoattivo può essere definito una esplorazione tattile [tactile scanning], in ana-logia con l’esplorazione oculare [ocular scanning] (Gibson, 1962, p. 477).

Il terzo tipo di percezione tattile è definita da Gibson tat-to dinamico (dynamic touch). A differenza del tatto attivo, ildynamic touch coinvolge infatti non solo stimolazioni cutaneee movimenti articolari ma anche sforzi muscolari (Gibson,1966, p. 109). Per questa ragione, si tratta di una forma dipercezione tattile coinvolta soprattutto nella valutazione delpeso dei corpi e nell’impiego di bastoni (o di un qualunquetipo di sonda) per l’esplorazione di ciò che ci circonda. Quan-do il cieco con il suo bastone bianco cammina per la strada simuove sfruttando per l’appunto il tatto dinamico: è attraver-so la simultaneità di informazioni che provengono da pelle,muscoli e articolazioni che il non vedente percepisce «la so-stanza materiale, cioè, l’inerzia degli oggetti» toccati dal suo

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Per Gibson (1966, p. 8), «mondo» è termine che si riferiscesemplicemente all’insieme degli oggetti fisici: di conseguenza èun concetto ancora piú generico di quello di ambiente poichénon si rivolge alla specificità della vita umana quanto invece al-la descrizione prebiologica, fisica, di ciò che circonda un esse-re vivente.

Proprio per queste due ragioni, l’originalità della sua posi-zione e l’eccessivo continuismo, Gibson può esser definito unasorta di «Uexküll della seconda metà del novecento»: da un la-to le sue ricerche hanno un valore fondamentale e imprescin-dibile, dall’altro necessitano di alcune correzioni che permetta-no una migliore comprensione della natura umana e del valoredel tatto per la nostra specie.

Partiamo dal primo punto. Nel 1966 Gibson pubblica unamonografia frutto del lavoro di un decennio di ricerche, Thesenses considered as perceptual systems, che costituisce ancoraoggi un testo insuperato per la filosofia della percezione. Il te-sto non si distingue solo per la sua completezza (tratta in ma-niera approfondita tutti e cinque i sensi mettendo in discus-sione la possibilità di una loro rigida distinzione) ma soprat-tutto perché il libro è pervaso da un continuo e preciso inten-to teorico: dimostrare il carattere attivo della percezione, lasua autonomia da pensiero e linguaggio, la sua intrinseca sine-steticità.

Seppur la sua attenzione si sia concentrata, in questo comein altri testi, soprattutto sulla percezione visiva, il progetto teo-rico di Gibson è sicuramente piú esteso e completo. Per quelche riguarda la percezione tattile, infatti, i due capitoli del li-bro ora citato dedicati a questa modalità sensoriale costituisco-no senza dubbio, oltre a una ricerca pubblicata qualche annodopo sulla rivista Psicological Review, i due cardini della ricer-ca sul tatto della seconda metà del novecento.

Gibson individua ancor piú chiaramente di Révész il carat-tere bipolare della percezione tattile poiché identifica sia la po-larità somestetica (Gibson, 1962, p. 479; 1966, p. 98) della qua-le abbiamo parlato nel capitolo precedente che quella aptica-

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molto semplice. Gli oggetti (posti dietro una tenda in modo daimpedirne la visione) da identificare erano delle formine perdolci con un diametro medio di 2 centimetri e mezzo, costruitecon una striscia metallica piegata a formare una certa sagoma.Si tratta di forme geometriche semplici e piuttosto regolari:

I soggetti dovevano capire quale fosse la forma di questi og-getti all’interno di due diverse condizioni sperimentali: la pri-ma prevedeva che le mani non potessero esser mosse in alcunmodo. Era lo sperimentatore a imprimere la forma dell’ogget-to sulla mano aperta e distesa. Nel secondo caso invece i sog-getti potevano muovere l’oggetto ed esplorarne i contorni. I ri-sultati delle due prove furono molto chiari: mentre con il tattopassivo, i soggetti riuscivano a identificare le forme sono nel49% dei casi, nella modalità attiva la percentuale saliva al 95%(Gibson, 1962, p. 486). Ciò dimostra senza ombra di dubbionon solo che il tatto attivo è molto piú efficace di quello cuta-neo ma che la pretesa inefficienza sensoriale del tatto, tantospesso ribadita nella letteratura (cfr. paragrafo 1), nasce dallascarsa conoscenza di una modalità sensoriale piú complessa diquanto si potrebbe credere.

La riabilitazione della percezione aptica di Gibson assumeperò un valore diverso rispetto a quello datogli da Révész. Lopsicologo americano infatti sottolinea piú le somiglianze che ledifferenze tra vista e tatto. In questo senso lo studioso ameri-cano sembra essere piú vicino a Blumenberg che allo psicolo-go ungherese:

D’altro canto, se il colore è intangibile, la temperatura è invisibile. Ognisenso ha la sua speciale sensibilità alle proprietà di una superficie ma cene sono anche alcune comuni. La corteccia di un albero appare ruvidasenza il tatto ma la si percepisce ruvida anche con il tatto e senza la vista.

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strumento, la loro «consistenza» (Gibson, 1966, p. 128. Il cor-sivo è nel testo).

Gibson afferma esplicitamente che prima di lui solamenteRévész e Katz hanno studiato il tatto prendendo nella dovutaconsiderazione le diverse modalità di funzionamento della per-cezione manuale. La modalità attiva di Gibson sembra ripren-dere infatti il principio cinematico di Révész di cui abbiamoparlato nel paragrafo precedente:

Katz (1925) e Révész (1950) hanno provato, invece, che la mano è un or-gano sensoriale distinto dalla pelle della mano. Katz ha cominciato a de-scrivere l’esperienza tattile cosí come si presenta nella vita quotidiana eha compiuto esperimenti su alcune delle discriminazioni che è possibileindividuare. Révész, osservando le performances dei ciechi, ha propostoun modo sconosciuto di esperienza chiamato aptico che va oltre le classi-che modalità del tatto e della cinestesi. L’interesse di questo autore è ri-volto alla filosofia e all’estetica. Questi due sembrano essere i soli ricer-catori che abbiano dato peso a ciò che abbiamo chiamato tatto attivo. Illoro lavoro non è stato continuato da altri ricercatori e il termine stesso«aptico» non è stato piú molto usato, forse perché non si adatta con ciòche di solito si considera un senso (Gibson, 1962, pp. 477-478).

Anche Gibson (1966, p. 123) è convinto che il tatto non siainferiore alla vista nella percezione dello spazio. L’articolo pub-blicato nel 1962 sulla rivista Psicological Review (al quale ac-cennavamo in precedenza e che abbiamo citato diverse volte)fonda un atteggiamento teorico in gran parte nuovo, in gradodi dare nuova linfa alla serie di ricerche sul tatto inauguratadalla psicologia gestaltica. Questo studio ottiene un risultatosperimentale semplice ma convincente in grado di dimostrarecon chiarezza e rigore le capacità tattili nella percezione dellaforma. Le ricerche di Katz e Révész infatti sono spesso pienedi resoconti sperimentali approssimativi, a volte basati sull’e-sperienza diretta degli autori con soggetti ciechi o bendati. Gib-son propone un test in grado di eliminare qualsiasi residuo ra-psodico o generico senza, per questo, scadere in esperimentispecialistici, pieni di dettagli fisiologici precisi ma privi di al-cun interesse teorico.

Lo psicologo americano mette alcuni soggetti vedenti di fron-te a un compito di riconoscimento delle forme dalla struttura

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di un oggetto duro o morbido, liscio o ruvido. Nel dynamictouch, infatti, mani e corpo umano diventano una specie di«diapason biologico» in grado di cogliere le caratteristiche cor-poree degli oggetti circostanti (Mazzeo, 2002b).

I problemi nascono quando Gibson si lancia in affermazio-ni come questa:

La capacità di vibrisse, artigli e antenne di sentire cose a distanza non èdifferente in linea di principio dall’abilità dell’uomo di usare un bastone ouna sonda per scoprire fonti d’urto meccanico alla fine dell’appendice ar-tificiale della sua mano. L’impiego di strumenti, da stecche, bastoni e ra-strelli fino a oggetti piú raffinati come cacciaviti, pinze o anche canne dapesca e racchette da tennis, si basa probabilmente su capacità percettivecorporee che si trovano anche negli altri animali (Gibson, 1966, p. 100).

Se fosse come dice Gibson, se l’impiego umano di utensilisi basasse su capacità percettive del tutto simili a quelle deglialtri animali, non si capirebbe perché non capita mai di vederedue scimpanzé che giocano a tennis o il proprio cane che smon-ta la sua cuccia con un paio di pinze. Da questo punto di vista,lo psicologo americano fa un assunto paradossalmente moltosimile a quello di chi sostiene la tesi opposta, secondo la qualesarebbe solo il linguaggio verbale a distinguerci dalle altre for-me di vita (cfr. cap. II, paragrafo 3). Entrambe le teorie, sial’approccio ecologico che il riduzionismo linguistico, non pos-sono rispondere allo stesso interrogativo: come mai allora èl’Homo sapiens a parlare e non i delfini o gli scimpanzé?

Questa domanda può trovare risposta, invece, se prendia-mo atto che solo nell’animale umano nudità del corpo e plasti-cità manuali si danno reciproco sostegno e che solo nella no-stra specie le protesi tattili assumono un valore duplice. Que-ste, per un verso, hanno una utilità conoscitivo-esplorativa: ilcaso classico del bastone bianco che permette al non vedentedi orientarsi nello spazio. Per un altro, la loro importanza è ditipo manipolativo poiché, grazie alle nostre capacità manuali,possiamo costruire utensili in grado di modificare quel che cicirconda: dalla tenaglia alla motocicletta, dal trapano all’elicot-tero. La plasticità del tatto manuale si esprime anche nella pos-

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L’esperto può identificare l’albero solo per mezzo di entrambi i sensi.Naturalmente, la struttura ottica delle superfici si estende per miglia e lastruttura tangibile si estende solo per la lunghezza del braccio umano.Ma se le superfici determinano lo spazio percettivo, sia vista che tatto so-no sensi spaziali. […] Si dice che la visione registri solo la superficie frontale di un og-getto mentre il tatto registra il davanti e il dietro allo stesso tempo. Intal senso visione e tatto sembrano esser differenti. Tuttavia queste diffe-renze sono esagerate; la successione riguarda l’operatività di entrambi isensi. […] In generale, queste indagini suggeriscono che visione e tatto nonhanno nulla in comune solo quando sono considerati come canali per datisensoriali semplici e senza significato. Hanno invece molto in comunequando sono considerati come canali per la raccolta di informazioni, co-me organi sensoriali attivi ed esplorativi. Per certi versi, sembra che regi-strino la stessa informazione e che producano le stesse esperienze feno-meniche. (Gibson, 1962, pp. 488-490. I corsivi sono nel testo).

Questo brano mostra con chiarezza che Gibson tende a sot-tolineare, seppur con un certo equilibrio, piú la convergenzache l’autonomia sensoriale. Si tratta di una differenza di impo-stazione che non si oppone alle tesi di Révész4: come vedremo(paragrafi 5-5.3), però, nel tempo questa diversità di toni si ètrasformata fino a segnare tra gli allievi di Gibson e lo psicolo-go ungherese una cesura marcata.

4. Al lavoro: perché le nostre non sono mani discimmia

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, Gibson sot-tolinea un elemento importante della percezione tattile, la suaestendibilità protesica. Lo psicologo americano chiama dyna-mic touch l’azione congiunta di mani e braccia che ci consentenon solo di valutare il peso degli oggetti ma anche di esplorar-ne la superficie per mezzo di bastoni, attrezzi e sonde. Provate,ad esempio, a chiudere gli occhi e a prendere una matita tra ledita. Poi cominciate a esplorare quello che vi circonda: consta-terete che, pur non toccando direttamente gli oggetti, siete ingrado di rilevarne alcune caratteristiche tattili poiché non solopotrete dire se qualcosa è di fronte a voi, ma anche se si tratta

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drupede o per la brachiazione, cioè per il passaggio da un ra-mo all’altro. Proprio per questa ragione, Révész sottolinea chela mano umana non è semplicemente una sorta di passe-partoutuniversale e privo di vita (ivi, p. 113) ma che esprime «il con-cetto stesso di umanità» (Révész, 1938b, p. 132). Essa non è ilcoacervo di una gamma di istinti animali, nemmeno della piúampia possibile, poiché incarna la negazione dell’istinto che,per definizione, è specifico e programmato nel Dna: la manopuò costruire armi e difesa proprio perché è geneticamente di-sarmata.

La differenza tra la mano umana e quella degli altri primatiemerge con chiarezza, ad esempio, in una circostanza molto si-gnificativa: il trasporto degli utensili. In un libro recente, Ci-matti (2002, p. 109) osserva giustamente che una delle caratte-ristiche della produzione di strumenti da parte degli scimpanzéè che questi hanno un impiego limitato alla situazione in cuivengono utilizzati. Dopo che una scimmia ha costruito o usatouno strumento (ha scagliato un sasso a terra per usarne unascheggia, ha infilato un bastoncino dentro un altro per averneuno piú lungo), lo lascia lí, a una distanza dal luogo della fab-bricazione non superiore a qualche decina di metri. Come ab-biamo visto (cap. II, paragrafo 3) la posizione di Cimatti schiac-cia tutte le differenze tra animali umani e non umani su un’u-nica variabile, la presenza del linguaggio verbale: lo scimpanzénon continua a utilizzare lo strumento perché è inchiodato auna sorta di eterno presente dal quale, senza le parole, non èpossibile uscire. Queste affermazioni sono condivisibili se in-tegrate dall’individuazione di condizioni di possibilità corpo-ree per uno sganciamento dal presente che, altrimenti, sembraprovenire dal nulla. Révész permette di farlo. Lo psicologoungherese (Révész, 1938b), infatti, attribuisce alla mano unvalore «sociobiologico» perché la sua conformazione anato-mica consente l’apertura di un orizzonte temporale storico esociale nel quale presente, passato e futuro si intrecciano traloro. Révész sottolinea un limite nell’uso degli strumenti daparte degli scimpanzé che fonda e completa quello citato daCimatti: la scimmia abbandona lo strumento per ragioni in

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sibilità di mettere in gerarchia questi due aspetti a secondo del-le circostanze5. Nell’esplorazione sensoriale la manipolazionedeve mettersi da parte per evitare il rischio di rompere o modi-ficare ciò che vuole conoscere: nel tastare un mandarino perverificare se sia maturo, occorre avere la capacità di agire condelicatezza per evitare che il frutto ci esploda tra le dita; nell’e-splorare l’ambiente che lo circonda il cieco deve fare attenzio-ne a non rompere con il suo bastone gli oggetti che incontra.Nell’azione manipolativa, al contrario, l’apprezzamento per-cettivo degli oggetti deve essere inibito poiché rallenta o impe-disce il lavoro: se nel lanciare un coltello ci mettessimo ad ac-carezzarne l’impugnatura per godere a pieno della sua liscia le-vigatezza, non potremmo mai imprimere su di esso l’energianecessaria per stringerlo correttamente, lasciarlo al momentogiusto ed evitare che la nostra preda fugga via indisturbata.

In entrambi i casi, l’uso di protesi si combina con la plasti-cità tipica della nostra manualità e, in questo modo, sopperiscealla mancanza di armi o difese naturali. È proprio questo il pun-to che sfugge sia a Gibson che ai sostenitori del riduzionismolinguistico: il nostro non è un anonimo corpo animale e quelleumane non sono mani di scimmia. A tal proposito, Révész pre-cisa che le mani umane assomigliano a quelle degli altri prima-ti solo superficialmente. La diversa conformazione scheletricadella mano consente una opponibilità tra il pollice e le altre di-ta che non si limita, come negli altri primati, a formare una pre-sa uncinata poiché permette di lavorare sugli oggetti e di co-struire strumenti. Un utensile «nasce solo quando un materialestabile subisce una modificazione adeguata per un scopo cir-coscritto» poiché «lo strumento del lavoro deve nascere dal la-voro stesso» (Révész, 1938a, pp. 107-108). Sebbene altre spe-cie animali siano in grado di costruire occasionalmente stru-menti, solo i sapiens ne fanno un impiego sistematico, variega-to e complesso (torneremo su questo punto nel cap. IV, para-grafo 1). Ciò è reso possibile dal fatto che la mano che costrui-sce l’attrezzo non è lei stessa uno strumento progettato per unoscopo preciso. Al contrario, la mano dei primati non umani co-stituisce in primo luogo lo strumento per la locomozione qua-

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anche se dotate, nel contempo, di polpastrelli larghi. Quellecui abbiamo accennato sono solo alcune delle caratteristichemorfologiche che consentono la cosiddetta «presa di precisio-ne». Questa presa, che non riguarda soltanto pollice e indicema coinvolge tutto l’arto, è il movimento base che consente al-la mano non solo di raccogliere e utilizzare piccoli oggetti (pin-zette, aghi o matite) ma anche di costruire e utilizzare utensilidi dimensioni maggiori.

Questi dati dimostrano che la mano è la manifestazioneesemplare del particolare andamento di sviluppo che caratte-rizza la nostra specie, la neotenia (cap. II, paragrafo 4). Le no-stre estremità superiori, infatti, sono tanto versatili poiché con-servano la plasticità e la mobilità dello stato embrionale6:

Nell’uomo la mano raggiunge il suo massimo grado di sviluppo funzio-nale. Ciò è dovuto in parte al fatto che essa conserva molti caratteri co-siddetti «primitivi»: il che vuol dire che è priva della specializzazione(cioè delle divergenze dallo schema di base dei mammiferi), che le manidegli altri Primati possiedono; e in parte al fatto (probabilmente di mag-giore importanza) che le connessioni che la mano ha con il sistema ner-voso centrale sono incomparabilmente piú ricche che in ogni altro ani-male. Cosí, insieme con un’anatomia che rende possibile una grande va-rietà di movimenti, c’è il controllo neuro-muscolare necessario per la lo-ro attuazione (Clegg, 1968, p. 176).

Allo stesso tempo è proprio l’opponibilità del pollice chesembra creare dei problemi a una interpretazione neotenicadella manualità umana:

Se comparata con quella degli altri primati, l’anatomia della mano uma-na sembra congelata nella condizione embrionale. Tuttavia, l’opponibi-lità del pollice, ottenuta attraverso la rotazione del suo piano di allinea-mento verso le altre dita, è uno sviluppo aggiuntivo (Lock, Peters, 1996b,p. 376).

Gehlen (1978, pp. 130-131), a tal proposito, sottolinea chel’opponibilità del pollice costituisce una acquisizione evolutivarecente e pertanto non fetale. Il filosofo tedesco, però, si lasciaandare a una affermazione tanto radicale poiché gli studi pa-

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primo luogo corporee, metaboliche e morfologiche. Da un la-to, il comportamento di presa è scatenato da un bisogno spe-cifico, il nutrimento: quando questo cessa, l’oggetto viene ab-bandonato. Dall’altro lo scimpanzé non porta con sé i propriutensili poiché le sue mani, a causa della scarsa opponibilitàtra il pollice e le altre dita, mal si prestano alla funzione di tra-sporto (ivi, p. 125).

Le affermazioni di Révész sono confermante da un recen-te studio di Marzke (1996) che mette a confronto con accu-ratezza la mano umana e quella dei primati a noi piú vicini:gli orango, i gorilla e gli scimpanzé. La studiosa americanaha individuato solamente due tratti anatomico-funzionali co-muni alla mano umana e a quella delle grandi scimmie: il pri-mo è costituito dall’articolazione ridotta tra ulna e polso, ilsecondo nella mancanza di muscoli adduttori per l’indice el’anulare. In tutti e due i casi si tratta di caratteristiche legateall’utilizzo della mano come una specie di uncino per la bra-chiazione. Ma il punto interessante è che gli altri 17 trattimorfologici decisivi per la funzionalità della mano umana nonsono presenti nelle altre tre specie. Alcune prove sperimenta-li hanno confermato il forte legame tra le caratteristichemorfologiche che distinguono la mano umana e la costruzio-ne degli utensili:

L’analisi delle posture di presa e dei movimenti delle mani usati nella ripe-tizione sperimentale e nella manipolazione di utensili paleolitici ha dimo-strato che la gran parte delle caratteristiche morfologiche che distinguonole mani degli ominidi da quelle dei pongidi sono le stesse richieste dall’usoe dalla costruzione abituale di strumenti litici (Marzke, 1996, p. 131).

La manipolazione di materiali duri come la pietra, ad esem-pio, è resa possibile da ossa robuste e legamenti resistenti cherendono particolarmente stabile e forte la regione centrale delpalmo umano. Le particolari proporzioni e l’adeguata configu-razione articolo-muscolare conferisce al palmo, al pollice e allealtre dita una presa sicura. Il controllo delle attività manipola-tive è facilitato anche dalle dimensioni delle nostre dita: que-ste, in proporzione, sono piuttosto piccole rispetto al pollice

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la manualità aptica è definibile il senso estendibile verso lalontananza. La prima apre gli scenari di una sensibilità ampiama scoperta; la seconda crea le condizioni per modificare ilproprio corpo e il proprio mondo a seconda delle necessitàscatenate da una somestesia tanto fragile. Il concetto di «la-voro» è in grado di mettere in relazione queste due polaritàe, nel contempo, consente di reinterpretare le due vulgate ri-guardanti la mano che percorrono la tradizione occidentale.Nel primo paragrafo, abbiamo visto che la mano sembra co-stituire il senso del limite e della rivelazione ultima (il «toccarcon mano») oppure, come vedremo meglio nei prossimi pa-ragrafi, il senso della limitazione, cioè una forma conoscitivainsufficiente. Questa oscillazione ha finito per isolare le no-stre estremità superiori dal resto del corpo: in un caso perchéunica fonte di conoscenza, in un altro perché senso materialee grezzo.

Per questa ragione, il lavoro riabilita le mani perché eviden-zia una dimensione decisiva del significato che esse assumonoper l’Homo sapiens: è ciò grazie a cui l’essere umano «operan-do tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, cambia al-lo stesso tempo la natura sua propria» (Marx, 1867, pp. 211-212). Da questo punto di vista, il tatto manuale è decisivo perla costruzione di un mondo e l’abbandono dell’ambiente per-ché rende operativa una sensibilità generica che senza inter-vento e priva di cure non potrebbe che morire. Ne costituisce,in altri termini, la condizione pratica e sociale. Per un versomodifica i dintorni in uno spazio pronto ad accoglierlo (la ma-no che taglia, coltiva e raccoglie), per un altro è lo strumentograzie al quale curare una prole che nasce indifesa: prende inbraccio e porta per mano8.

Ciò vuol dire che la mano non è né il senso inchiodato neisuoi limiti, né quello che li supera sorvolandoli: è piuttosto ilsenso dell’attrito. Le linee che solcano i nostri palmi non so-no il misterioso presagio di un futuro ma i segni di un lavoroche, a volte con fatica e altre con insuccesso, cerca il riscattodi un corpo nudo. È grazie al lavoro che il destino è nelle no-stre mani.

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leontologici a lui contemporanei consideravano questo trattomorfologico successivo addirittura all’uomo di Neanderthal.Ricerche piú recenti (Biondi, Rickards, 2001, pp. 44-45) dimo-strano invece che l’opponibilità del pollice è un tratto moltopiú antico, già presente nell’Oreopiteco e risalente a un perio-do compreso tra i 7 e i 9 milioni di anni fa.

Questo dato è considerato da alcuni studiosi7 una discon-ferma dell’idea che la manualità sia un aspetto decisivo per lacomparsa dell’Homo sapiens: se gli Oreopitechi avevano unamano simile alla nostra e il tatto manuale è cosí importante perla natura umana, come mai questi ominidi non hanno svilup-pato una cultura o un linguaggio simili ai nostri?

L’interrogativo, però, è mal posto: come abbiamo detto piúvolte, il rapporto tra manualità, posizione eretta, nudità delcorpo e linguaggio non deve essere considerato in modo rigi-do, in termini di causa ed effetto. Stiamo parlando piuttostodelle condizioni corporee di possibilità della natura umana: co-me tali esse possono essere, presa una per una, necessarie manon per questo singolarmente sufficienti (ma su questo puntoritorneremo: cfr. cap IV, paragrafo 2). L’arcaicità del polliceopponibile può esser letta come una prova a favore della no-stra impostazione: proprio perché è un tratto tanto arcaico nonè piú necessario ipotizzare, come è stato costretto a fare Geh-len (1978, p. 130), che si tratti di una «specializzazione […] didata recentissima». Comunque, a prescindere se sia un’acqui-sizione recente o meno, l’opponibilità del pollice non rappre-senta di certo una forma di specializzazione biologica ma unasemplice mutazione morfologica che, ammesso e non concessonon sia neotenica, contribuisce ad acuire il carattere versatile egenerico della mano umana.

In questo scenario l’importanza del dynamic touch del qua-le parla Gibson diviene piú chiara e focale. È proprio nellapossibilità di sentire e agire tramite utensili che i due volti deltatto trovano la loro sinergia. Come abbiamo visto nel secon-do capitolo, la somestesia è infatti il senso esteso della vici-nanza: consiste in una nudità estrema ed esposta, indifesa ebipede. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, invece,

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modalità sono tra loro ridondanti poiché mostrano larghi mar-gini di sovrapposizione. Per questa ragione, molti dei suoi allie-vi hanno sottolineato il carattere amodale della percezione tatti-le, con un esito però doppiamente insoddisfacente.

Da un lato la loro ricerca si basa sull’impiego di un termineche, come abbiamo accennato in precedenza (cap I, paragrafo4.2), è ambiguo e controverso: cosa vuol dire «amodale»? Si trat-ta di proprietà condivise da tutti i sensi o da nessuno in partico-lare? O forse solamente da alcuni? Dall’altro, la psicologia eco-logica che si è occupata della percezione aptica ha finito col di-luire le caratteristiche proprie del tatto in una rete di somiglian-ze con la percezione visiva. Ancora una volta il tatto rischia diessere considerato semplicemente una specie di vista in tono mi-nore. Chi comincia a leggere le ricerche pubblicate negli ultimidecenni ha la sensazione di essere di fronte a un bivio: o il tattoè efficace perché funziona come la vista oppure il tatto è auto-nomo ma inefficiente. Ciò che ne risulta è un panorama confusoe reazionario poiché invece di farci comprendere meglio la per-cezione tattile, ci riporta ad antichi miti che riguardano tatto ececità. Proprio per questa ragione, affronteremo alcune delleposizioni piú rilevanti della ricerca contemporanea: si tratterà diun viaggio dal potere terapeutico, in grado di farci superare, al-meno lo speriamo, alcune idee suggestive ma fuorvianti. Saremoalle prese soprattutto con le varianti di un’idea che rappresentail converso della posizione sostenuta da Sacks (l’abbiamo vistanel par. 1): mentre lo scienziato americano sostiene che esserciechi significa vivere fuori dallo spazio, ci confronteremo conl’opinione secondo cui, almeno in certe occasioni, i ciechi vedo-no. Il risultato della combinazione di queste due posizioni è pa-radossale perché ci stringe in una morsa inesorabile: come vada-no le cose la mancanza della vista non costituisce un problema.Nel primo caso, la cecità è un problema solo per i vedenti poi-ché i ciechi non si renderebbero conto del proprio limite; nelsecondo caso la cecità non è un problema per nessuno perchéquesto limite, in fondo, sembra superabile.

A tal proposito prenderemo in esame due esempi. Nel primol’équipe di Bach-y-Rita sostiene che i ciechi possono vedere per

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5. I ciechi vedono? Le ricerche cognitive sul tatto

Prima di concludere questo capitolo, dobbiamo affrontareun ultimo aspetto, importante sia da un punto di vista storicoche teorico.

Il paradigma cognitivo infatti ha fornito in questi ultimi de-cenni un numero considerevole di articoli e pubblicazioni sullapercezione tattile. Questo dato, indubitabile, può dare l’im-pressione che la trasformazione ancora in atto delle scienze co-gnitive stia comportando un rapido e decisivo cambiamentoteorico in grado di spezzare quella identificazione tra percezio-ne e visione della quale abbiamo parlato in precedenza (cap. I,paragrafo 4.1). Dobbiamo interrogarci, dunque, su quale sia laportata e la validità degli studi cognitivi sulla percezione tatti-le. In che modo, ad esempio, consentono di conoscere meglioquesta modalità sensoriale? In che senso gli eredi di Gibsonsono realmente tali?

Il nostro giudizio su questi studi sarà particolarmente duroper due ragioni di fondo, tra loro interconnesse, che è oppor-tuno anticipare.

Nonostante il loro numero, questi saggi non hanno avuto al-cun effetto rilevante sullo strapotere che la visione ancora oggiriveste nello studio sulla percezione poiché non hanno superatoil loro status di «ricerca di nicchia». Alla base di questa incapa-cità esiste un preciso motivo teorico. Non si tratta soltanto dellarefrattarietà mostrata dal resto del mondo scientifico e della ri-cerca sperimentale a comprendere la necessità di studiare i sen-si non visivi per conoscere meglio la percezione umana. Il pro-blema principale di queste ricerche è che loro stesse non sonoriuscite a liberarsi da alcune illusioni filosofiche che riguardanoil rapporto tra tatto e vista.

Salvo qualche eccezione, rara e parziale (le vedremo nel par.5.3), molti di coloro che dicono di ispirarsi all’approccio di Gib-son hanno cercato di approfondire lo studio della percezionetattile in modo unilaterale, enfatizzando l’importanza conferitadallo psicologo americano alla ridondanza intersensoriale checaratterizza la percezione. Secondo Gibson, infatti, le differenti

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sperimentali per affermare che, per mezzo del TVSS, il cieco è ingrado di vedere: «vedere», bisogna sottolinearlo, in senso pro-prio e non metaforico. Cerchiamo di capire quali sono i risul-tati sperimentali che sembrano autorizzare una conclusionetanto stupefacente. I successi del TVSS possono essere riassuntiin tre punti principali:

1. Dopo un addestramento di diverse ore11, i soggetti ciechiriescono, grazie al TVSS, a riconoscere oggetti di uso quoti-diano (telefoni, tazze, sedie) e figure geometriche (triangoli,cubi e sfere) e ad apprezzare effetti tipici della percezionevisiva (prospettiva, zoom e parallasse).

2. Sempre dopo l’addestramento, se un oggetto si avvicina ra-pidamente alla telecamera i soggetti ciechi, invece di spo-stare la schiena o la pancia cioè il luogo colpito direttamen-te dallo stimolo, muovono la testa indietro o di lato, comefanno i vedenti.

3. Tramite il TVSS il cieco percepisce a distanza: caratteristicatipica del vedere e non del toccare.

Il TVSS è in realtà uno strumento estremamente limitato chefa emergere l’ambiguità dell’espressione «percezione amoda-le». Con questo apparecchio i soggetti percepiscono ciò che licirconda in un modo che sembra essere a metà strada tra la vi-sione tipica delle forme di vita piú semplici (il fototattismo deilombrichi, ad esempio) e quella dei mammiferi. Con il TVSS, in-fatti, i ciechi vedono meglio dei lombrichi ma peggio dei gatti,comunque non vedono come vede la maggior parte degli ani-mali umani. Lo dimostra, in primo luogo, il comportamentopercettivo dei soggetti. Se analizziamo le argomentazioni di Ba-ch-y-Rita, Dennett e Morgan scopriamo che quelli che vengo-no presentati come i punti di forza del TVSS costituiscono inve-ce dei punti deboli:

1) Con il TVSS i ciechi vedono perché riconoscono forme percepi-te con una telecamera. In realtà, si tratta di prestazioni mol-to limitate. Il numero degli oggetti riconosciuti dai soggetti

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mezzo di appositi strumenti progettati per la sostituzione senso-riale (paragrafo 5.1); nel secondo lo psicologo irlandese JohnKennedy afferma che i non vedenti disegnano utilizzando moltedelle strategie grafiche adottate da chi vede, in primo luogo laprospettiva (paragrafo 5.2). Analizzeremo infine una terza linea,costituita dagli studi di Susan Lederman e Roberta Klatzky, checostituirà, almeno in parte, un esempio di come sia possibile fa-re ricerca cognitiva sul tatto senza lasciarsi ingannare dai luoghicomuni che segnano la nostra cultura.

5.1. Vedere con la pelle: Bach-y-Rita e la sostituzione sensoriale9

L’interesse che ha spinto Paul Bach-y-Rita a costruire il suosistema di sostituzione sensoriale è in primo luogo pratico: tro-vare ausili tecnici in grado di aiutare i non vedenti negli spo-stamenti e nella percezione di ciò che li circonda. Non a casolo strumento da lui ideato, il Tactile Visual Substitution System(TVSS), nasce come l’evoluzione tecnica dell’Optacon, una mac-china che traduce in Braille la scrittura in nero.

La sostituzione sensoriale consiste nell’uso «di un sensoumano per ricevere informazione che normalmente è ricevutada un altro senso» (Kaczmarek et al., 1991, p. 1). Il TVSS è unapparecchio piuttosto semplice che realizza questo rapporto disostituzione per mezzo di una matrice collegata a una telecame-ra. La matrice è posta sulla schiena o sulla pancia del soggettoed è formata da una griglia di 400 stimolatori di 1 mm di dia-metro e distanziati l’uno dall’altro di 12 mm. Gli stimolatoritrasformano in vibrazioni le informazioni visive colte dalla tele-camera: la versione schienale del TVSS utilizza una sedia da den-tista; la versione anteriore è invece portatile con la telecameramontata direttamente sulla testa del soggetto (cfr. figure 3 e 4)

Questo apparecchio ha goduto di un certo successo nel di-battito filosofico10 poiché alimenta la speranza che un giorno,grazie alla tecnologia piú avanzata, il tatto possa diventare unefficace sostituito della vista. Alcuni autori, tra cui Morgan(1977), Daniel Dennett (1991) e lo stesso Bach-y-Rita (1972;1997), hanno utilizzato infatti i dati ottenuti da queste prove

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è ristretto (venticinque circa: cfr. Bach-y-Rita et al., 1969, p.963; White et al., 1970, p. 23). Inoltre, tramite il TVSS è im-possibile rendere la percezione cromatica, elemento fonda-mentale della visione. Questo congegno garantisce quindiun repertorio percettivo di basso livello sia per quantità cheper qualità. Un test con immagini emotivamente coinvol-genti non produce sui soggetti alcun effetto: i soggetti risul-tano del tutto indifferenti alle immagini di donne nude pub-blicate dalla rivista Playboy (Bach-y-Rita, 1972, pp. 145-146;Dennett, 1991, p. 379).

2) Con il TVSS i ciechi vedono perché le punture tattili diventano«trasparenti». Bach-y-Rita e gli altri autori non prendono inconsiderazione il fatto che tutte le protesi tendono a diveni-re parte integrante del corpo cui sono applicate: è un effet-to che caratterizza anche protesi piú semplici che siano ditipo sostitutivo (seguiamo la classificazione di Eco, 1997,pp. 317-318) come gli occhiali o magnificativo come i patti-ni, le motociclette o gli sci. In ciascuno di questi casi, la pro-tesi tende a scomparire e a divenire parte integrante dell’ar-to al quale è applicato. La caratteristica della trasparenzanon rappresenta quindi una proprietà esclusiva dei sistemidi sostituzione sensoriale ma è elemento proprio di ognistrumento protesico. Per di piú, nel TVSS l’unificazione de-gli stimoli non segue leggi visive (unificazione gestaltica pervicinanza) ma tattili (cfr. White et al., 1970, p. 26): i sogget-ti cui è applicata una matrice non uniforme suddivisa inquattro quadrati non si accorgono della differenza poichégli stimoli tendono a collassare gli uni negli altri secondol’illusione tattile (e uditiva) della percezione «a imbuto».

3) Con il TVSS i soggetti vedono perché possono percepire a di-stanza. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, perutilizzare il dynamic touch, discriminare forma e tessitura dioggetti lontani, non è necessario il TVSS poiché è sufficienteun’asta o un bastone.

Soffermiamoci ancora per un istante su quest’ultimo punto.A tal proposito, Bach-y-Rita afferma:

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Figure 3 e 4. Il Tactile Visual Substition System (TVSS)Figura 3 fonte: White et al., 1970Figura 4 fonte: Bach-y-Rita, 1972

degli effetti percettivi che dovrebbero contraddistinguere ilTVSS come parallasse, zoom e prospettiva.

A un primo sguardo, il TVSS sembra ispirarsi al modello eco-logico della percezione fondato da Neisser e Gibson13, mentretradisce in realtà una impostazione molto piú vicina al cogniti-vismo ortodosso. Il problema della sostituzione sensoriale è af-frontato infatti come una semplice questione di portata del ca-nale. Kazmarek (et al., 1991), ad esempio, ci conforta ricor-dando che il tatto è secondo solo alla vista in quanto a flussomassimo di informazioni per secondo (Vista: 107 bit/sec, Pelle:106, Udito: 105). Bach-y-Rita (1972, p. 16) ricorda che per lasensibilità alle variazioni temporali il break minimo percepibiledal tatto è di 10 msec: molto migliore di quello della vista (30msec) e poco peggiore dell’udito (3 msec). Viene dato per scon-tato, in altre parole, un punto per niente ovvio: che le differen-ze tra i sensi siano solo quantitative, cioè di semplice capacitàdi gittata informazionale.

Il paradigma in base al quale è costruito il TVSS concepiscela percezione come un processo che potremmo definire idrau-lico-postale. Questa immagine dei rapporti tra le modalità sen-soriali, piú specificatamente tra tatto e vista, è fuorviante poi-ché trascura la storia evolutiva che distingue i diversi sensi. Lasinestesia infatti non è (o non è solo) una forma di ridondanza,quanto piuttosto il carattere costitutivo del rapporto perce-piente-percepito. I sensi costituiscono una rete di esplorazioneintrecciata con aree di sovrapposizione e zone divergenti, cioèmodalità tra loro dipendenti ma contemporaneamente autono-me. Abbiamo visto in precedenza (paragrafo 2) che la sovrap-posizione parziale tra illusioni tattili e visive mostra l’alternan-za tra margini di intersezione sinestetica e zone cognitive tipi-che di ciascun senso. Il TVSS non dimostra che il tatto possa di-ventare un senso visivo, piuttosto ci ricorda quale sia il legamefilogenetico tra occhio e pelle, come il primo discenda dalla se-conda. È solo in questa accezione che è possibile affermare che«vediamo con la pelle»: una simile affermazione però non ri-guarda piú il cieco armato di TVSS, quanto piuttosto la storiaevolutiva di tutti gli organismi vedenti. Certo, la retina e l’oc-

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La telecamera non serve da estensore della pelle nello stesso modo in cuiavviene nella sensibilità tattile dei ciechi che utilizzano il bastone bianco.Al contrario, il ruolo svolto dalla pelle nel nostro sistema di sostituzionesensoriale è quello di modificare il suo ruolo percettivo in questa situa-zione funzionale. La pelle assume, da un certo punto di vista, il ruolo diun relay (simile alle cellule gangliari della retina o al nucleo genicolato la-terale) dell’informazione che proviene da una telecamera che non costi-tuisce una estensione del senso tattile, ma piuttosto una superficie ricet-trice artificiale (Bach-y-Rita, 1972, p. 152).

Le parole di Bach-y-Rita sono condivisibili, a patto di rove-sciarne il senso: il TVSS non è come il bastone bianco perché èmeno efficace di quest’ultimo. L’utilità di questo apparecchioper orientarsi nello spazio è infatti scarsa, inferiore a quella diun qualsiasi pezzo di legno: non è un caso che nelle nostre cittànon vediamo spostarsi ciechi armati di TVSS12. Se non diciamoche con il bastone bianco «il cieco vede», perché dovremmodirlo allora dell’apparecchio progettato da Bach-y-Rita?

Su un piano comportamentale, quindi, possiamo dire checon il TVSS i ciechi non vedono perché non sono in grado di per-cepire e muoversi come i vedenti umani. Nel contempo, il TVSS

fornisce una immagine del senso tattile decisamente reaziona-ria: si ritorna alla vulgata secondo la quale il tatto costituirebbeun senso intrinsecamente protesico, geometrico e meramentecutaneo.

L’ipotesi di fondo che anima queste prove sperimentali èche tra tatto e vista esisterebbe una differenza solo «quantitati-va» (Morgan, 1977, p. 201): Bach-y-Rita (1972, p. 68) sostieneche il TVSS è qualitativamente paragonabile alla vista, Dennett(1991, p. 379) che l’aumento della velocità di trasmissione del-l’informazione potrebbe migliorare «alcune deficienze del si-stema». Il problema però è piú complesso. A dimostrarlo c’è ilfatto che tra quantità degli stimolatori tattili e qualità della per-cezione non esiste un rapporto direttamente proporzionale. Ilpassaggio da 200 a 400 pixel tattili, ad esempio (Bach-y-Rita,1972, pp. 90-91), ha migliorato l’accuratezza del riconoscimen-to delle figure ma non lo ha raddoppiato (si è passati dal 69,6%al 87,5% di risposte corrette). L’incremento del numero deglistimolatori, soprattutto, non ha reso piú nitida la percezione

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ciò che mostra la propria efficacia non sono gli apparecchi disostituzione sensoriale ma le protesi percettive.

Il TVSS non è una forma di visione tattile, ma qualcosa chesta a metà tra il mito della percezione dermo-ottica (il ciecoche riesce a vedere senza gli occhi: Montagu, 1971, p. 139) e ladermografia o una scrittura sulla pelle simile a un Braille iconi-co-geometrico. Il TVSS non costituisce pertanto uno strumentodi sostituzione sensoriale non solo perché non sostituisce nulla(come abbiamo detto, è soltanto una protesi) ma anche perchénon è poi cosí sensoriale (Lenay et al., 2000, pp. 292 sgg.): èuna tecnica di rappresentazione16, piú vicina al geroglifico chealla televisione, tramite la quale imparare a riconoscere un «vo-cabolario di oggetti»17. Non a caso, quando Bach-y-Rita (1997)cita altri esempi di ciò che intende per mezzi di sostituzionesensoriale menziona il Braille e, in seconda istanza, la Linguadei Segni, due forme (una tattile, l’altra visivo-gestuale) di co-municazione piú che di percezione. Come abbiamo accennatoall’inizio il predecessore tecnico e concettuale del TVSS è costi-tuito proprio da apparecchi monodimensionali (Visotactor) epoi bidimensionali (Optacon) che nascono come traduttori inBraille delle pagine scritte in nero (Nye, Bliss, 1970) e, primaancora, da una sorta di «linguaggio corporeo» (Geldard, 1960)che tenta di proiettare sulla pelle lettere alfabetiche.

Il TVSS, quindi, non solo non costituisce un progresso nellanostra conoscenza della percezione tattile, ma anzi rischia difarla regredire. Come abbiamo visto in precedenza (paragrafo3), infatti, Gibson attribuisce a Révész e Katz il merito di aversvincolato il tatto dal pregiudizio di essere una forma percetti-va passiva e inefficace. Nel dire questo Gibson critica propriole ricerche da cui ha preso spunto Bach-y-Rita per costruire ilsuo apparecchio:

[…] a dispetto della sua importanza, il «senso del tatto» (Boring, 1942,cap. 13; Geldard, 1953, capp. 9-12) è stato studiato dai fisiologi sensoria-li solo come un canale passivo o ricettivo. È trattato come parte dellasensibilità cutanea. La sensibilità della pelle, che include temperatura edolore cosí come il tatto, può essere piú facilmente studiata applicandodegli stimoli alla superficie cutanea. A livello percentuale, Geldard (1957)

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chio nel loro complesso costituiscono una organizzazione sem-pre cutanea: non solo perché hanno sensibilità tattile (a pres-sione, temperatura, dolore) ma perché costituiscono forme or-ganiche derivate dalla pelle sia filogeneticamente (il già citatofototattismo) che ontogeneticamente. Come afferma uno deicollaboratori di Bach-y-Rita (Collins, 1971, p. 268), l’occhio siforma nel corso della crescita embrionale14 a partire da un fo-glietto cutaneo, l’ectoderma. Non è corretto, però, utilizzarequesto dato per affermare che la pelle può avere una funziona-lità simile a quella della retina (ivi, pp. 277, 291; Bach-y-Ritanel passo citato poco sopra). La storia naturale che separa pel-le e occhio non può essere né ignorata, né spazzata via come sefosse qualcosa di secondario e inutile: se la pelle fosse piú omeno come la retina, perché esisterebbero gli occhi? A questol’equipe di Bach-y-Rita sembra proprio non pensare.

Una progressiva differenziazione evolutiva ha portato la ge-nerazione di organi percettivi specializzati (occhi, orecchie, na-si) che modalizzano questa prima forma di contatto con il mon-do. La questione posta dal TVSS va quindi rovesciata: il fattoche grazie a protesi tecniche il cieco riesca a vedere qualcosacon la pelle non dimostra che le diversità sensoriali sono ridu-cibili a differenze di gittata informazionale. Al contrario, le mo-dalità sensoriali costituiscono un tessuto sinestetico caratteri-stico della nostra forma di vita che trova suo fondamento inuna comune origine filo e ontogenetica, in un tessuto vero eproprio, la pelle, poiché sensi e linguaggio rappresentano, inprimo luogo, forme di contatto con il mondo (su questo puntotorneremo: cap. IV, paragrafo 4)15. La produzione di un siste-ma che riuscisse ad avere una complessità simile a quella dellaretina non renderebbe il sistema in grado di sostituire la visio-ne ma produrrebbe semplicemente un occhio artificiale. Se fos-simo in grado di progettare una matrice tattile che convertissetanto accuratamente gli stimoli ottici, potremmo collegarla nonalla pelle nuda ma al nervo ottico e realizzare un occhio bioni-co simile agli impianti cocleari che migliorano l’udito seguen-do esattamente questo principio, inserendo una centralina elet-tronica sulla terminazione del nervo acustico: ancora una volta

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divisi in due gruppi: alcuni (10 vedenti bendati) dovevano te-nere il dito indice fermo e sentire passare sotto di esso una fi-gura in rilievo mossa dallo sperimentatore; gli altri (12 vedentibendati) invece dovevano lasciarsi guidare dallo sperimentato-re nel movimento dell’indice su un foglio liscio, nel quale nonc’era alcuna linea in rilievo. Questa volta fu il secondo gruppoad andare meglio, a dimostrazione del fatto che nel riconosci-mento del disegno è piú importante il movimento cinesteticodella mano che la percezione cutanea passiva. Questa coppiadi esperimenti non contrasta quindi con le affermazioni diRévész o Gibson poiché dimostra che il tatto è attivo a pre-scindere da chi controlla il suo movimento, confermando unpunto al quale abbiamo già accennato (paragrafo 2): l’attivitàdel tatto non deve essere confusa con la volontarietà dei movi-menti di esplorazione. Le due prove sottolineano anche che sipuò apprendere a riconoscere disegni in rilievo poiché, alme-no in una prima fase, una guida esterna può supplire alla man-canza di capacità di esplorazione adeguate per percepire undisegno in rilievo. Se si esorta il bambino non vedente a sco-prire il piacere di produrre e percepire immagini, questo benpresto diventerà «guida di se stesso» (Kennedy, in stampa)18.

Piú conosciuto è però un altro aspetto dell’attività di ricercadi Kennedy che ha sottolineato in piú di una circostanza che ve-denti e ciechi disegnano utilizzando modalità rappresentative traloro molto piú simili di quanto si possa credere. Analizzando di-segni fatti da soggetti ciechi tra loro molto diversi per età, scola-rizzazione e cultura, lo psicologo di origine irlandese cerca di di-mostrare che anche i non vedenti utilizzano metodi grafici consi-derati tradizionalmente visivi come la prospettiva e l’occlusione.Proprio queste comuni capacità grafiche dimostrerebbero la vi-cinanza tra il tatto e la vista. La posizione di Kennedy sembra,per certi versi, una versione aggiornata e raffinata di quella pro-posta da Blumenberg (cfr. paragrafo 2) poiché anche in questacircostanza il tentativo è il pedissequo accostamento tra tatto evista. In questo caso, però, l’accostamento è unilaterale: Blumen-berg, infatti, non cerca solo equivalenti tattili delle esperienze vi-sive ma procede anche in direzione inversa (afferma, ad esem-

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ha applicato stimoli multipli alla pelle e ha mostrato cosí alcuni dei di-versi «messaggi» che la pelle può trasmettere, ma in tal modo si è occu-pato di un mosaico di ricettori e non di un organo esplorativo (Gibson,1962, p. 477).

5.2. La pelle in prospettiva: Kennedy e i ciechi che disegnano

John Kennedy è una figura molto rappresentativa della ri-cerca contemporanea sulla percezione tattile. Lo psicologo ir-landese ha tutte le carte in regola per essere considerato unodegli eredi piú promettenti della scuola gibsoniana: il suo di-rettore di tesi alla Cornell University è James Gibson (che nonesita a definire il suo «mentore»: Kennedy, 1993, p. viii) e il su-pervisore Eleanor Gibson; il suo iter studiorum include l’in-contro con lo studioso di percezione di ispirazione gestaltistaRudolf Arnheim.

Le ricerche di Kennedy si concentrano su un particolareaspetto della percezione tattile, i disegni prodotti da ciechi. Inprimo luogo, il suo studio mira a sottolineare le potenzialitàgrafiche e pittoriche del tatto che, secondo lo psicologo irlan-dese, sono sottostimate: i ciechi spesso non sanno disegnaresolamente perché non hanno mai provato a farlo o non hannoimparato le tecniche adatte. Non a caso, uno dei primi saggidedicati da Kennedy (Magee, Kennedy, 1980) al problema co-stituito dalla rappresentazione tattile aggiunge una sfumaturaimportante, sia da un punto di vista psicologico che pedagogi-co, al concetto di active touch di cui parla Gibson. In una pro-va di riconoscimento tattile, alcuni soggetti dovevano ricono-scere delle figure in rilievo facendosi guidare dallo sperimenta-tore. Altri, invece, dovevano farlo in modo piú attivo, esplo-rando il disegno da soli. Il risultato della prova è interessanteperché i soggetti guidati, pur avendo un atteggiamento piú pas-sivo rispetto agli altri, riconoscevano i disegni (un ombrello,una mano, un cigno, ecc.) con maggiore facilità. In apparentecontrasto con quanto affermato da Révész e Gibson, «i sogget-ti passivi mostravano prestazioni migliori di quelli attivi» (ivi,p. 288). Una seconda prova ha precisato il senso di questa af-fermazione. In un altro esperimento i soggetti furono di nuovo

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(tra l’altro, se il bicchiere è trasparente, lo occlude solo tattil-mente). Un esempio tanto semplice dimostra che non è necessa-rio ricorrere ai disegni dei ciechi per mettere in discussione un’i-dea cosí approssimativa dei rapporti tra tatto e vista.

Sicuramente ciò che contribuisce a fare confusione nel di-scorso di Kennedy è l’ampiezza semantica della parola «prospet-tiva». Se consultiamo un dizionario della lingua italiana di me-dia qualità troviamo infatti almeno tre accezioni del termine:

1. In geometria, la rappresentazione grafica di un solido o di ungruppo di solidi, guardato da un determinato punto di vista.

2. Nelle arti figurative, la capacità o la tecnica di rappresenta-re gli oggetti in modo da esprimere la loro collocazione inprofondità nello spazio.

3. L’insieme di norme che regolano l’esecuzione di disegni diquesto genere.

Poniamoci allora la domanda: in quale circostanza i disegniraccolti da Kennedy ci direbbero qualcosa di particolarmente«stupefacente» o «eclatante» (Ferretti, 1998, pp. 128-129) sul-le possibilità rappresentative e percettive del tatto?

In alcuni casi, lo psicologo di origine irlandese sembra ri-ferirsi soprattutto alla prima delle tre accezioni: rappresenta-re in prospettiva significa poter disegnare un oggetto, adesempio un tavolo, secondo un certo punto di vista unifican-te (vantage point: cfr. Kennedy, 1983, p. 23; 1993, pp. 198sgg.). Ma questa abilità non è particolarmente sorprendentepoiché non riflette una specifica capacità pittorica o percetti-va quanto una struttura cognitiva piú ampia e generale: esserconsapevoli che la posizione degli oggetti nello spazio è rela-tiva alla nostra posizione corporea. Quando, ad esempio, sor-volo in aereo la penisola italiana, la disposizione dei mari èrelativa alla direzione del mio viaggio: se provengo da sud mitroverò l’Adriatico sulla destra e il Tirreno sulla sinistra ma sel’aereo è partito da Parigi, è chiaro che la posizione dei duemari sarà, rispetto ai miei assi d’orientamento, invertita. Èsorprendente, piuttosto, che Kennedy di ciò non si accorga:

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pio, che l’illusione di Aristotele ha come corrispettivo visivo losdoppiamento oculare). Kennedy sembra procedere invece in unsolo senso di marcia poiché, secondo la sua tesi, ciò che apparivafino ad oggi visivo è in realtà anche tattile. Quel che ci premesottolineare è l’ambivalenza di un accostamento che sembra pre-ludere alla rivalutazione della percezione tattile, mentre ne segnal’ennesimo scacco. Vediamo brevemente perché.

Kennedy indica un percorso teorico che mira esplicitamen-te alla riabilitazione del tatto e con il quale, quindi, non po-tremmo che esser d’accordo. Il problema è che persegue que-sto obiettivo attraverso una strategia controproducente.

Per un verso concede troppo poco al senso aptico e alle pos-sibilità rappresentative dei ciechi. In Drawing & the Blind, iltesto in cui affronta il problema in modo piú approfondito,Kennedy (1993) propone un esame accurato e preciso delle ca-pacità pittoriche dei non vedenti confrontandole con quelle dipopolazioni che non hanno esperienza nella produzione e rico-noscimento delle immagini (i Songe) e con iscrizioni rupestririsalenti a circa 50000 anni fa: l’obiettivo è sostenere che alcu-ne delle modalità che governano la raffigurazione per immagi-ni sono universali e non dipendenti dalle variazioni culturali.

La prospettiva sembra essere un ottimo candidato perché,secondo Kennedy, i ciechi la riconoscono e la possono utilizza-re senza grandi difficoltà. Lo psicologo irlandese propone al-cuni disegni (figura 5) fatti da soggetti ciechi per darne dimo-strazione. I disegni sono interessanti ma forse meno di quantoci si potrebbe aspettare. La domanda è infatti semplice: dov’èla prospettiva?

Nella serie di disegni che ritraggono una mano, quel che pos-siamo notare è un semplice fenomeno di occlusione: un oggettocopre un corpo che sta alle sue spalle. Ma questo è davvero cosísorprendente? Lo è solo se si parte dall’idea che l’occlusione siaun fenomeno tipicamente visivo: un puro «mettere in ombra».Se ci pensiamo un po’ meglio, scopriamo invece che non è cosí:se, ad esempio, posiamo un bicchiere sopra un compact disc,possiamo toccare solo una parte della superficie del CD perchéil bicchiere, ostacolandone la percezione, lo occlude tattilmente

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tanto piú che, per mettere alla prova le capacità prospettichedei ciechi, egli utilizza la versione modificata di un test esco-gitato da Piaget (la prova delle «tre montagne») proprio percomprendere meglio le capacità cognitive generali dei bambi-ni. L’esperimento è molto semplice: su di un tavolo si dispon-gono un cubo, una sfera e un cono. Poi si chiede ai soggettidi dire da quale punto di osservazione si avrebbe la disposi-zione degli oggetti disegnata su un foglio (da sinistra o da de-stra, dall’alto o dal basso, ecc.). I risultati hanno dimostratoche la capacità di riconoscere il punto di osservazione tra idue gruppi di soggetti è sostanzialmente la stessa (Kennedy,1993, pp. 205 sgg.; 1997, p. 94. Si veda anche Heller, Ken-nedy, 1990). Quel che verrebbe da aggiungere è: «e quindi?È cosí straordinario il fatto che i soggetti ciechi non abbianouna concezione egocentrica dello spazio?» In un senso tantogenerale, è ovvio che i ciechi godano di capacità prospetti-che: il fatto che riescano a muoversi nel flusso caotico di unacittà solo col bastone bianco ne costituisce la migliore dimo-strazione.

Vediamo allora la seconda delle accezioni che abbiamo elen-cato. Qui le cose si fanno piú interessanti. Kennedy definisceinfatti il principio della prospettiva nel modo seguente: «unoggetto sottende un angolo piú piccolo quando è lontano ri-spetto a quando è vicino» (ivi, p. 192). L’autore sottolinea giu-stamente che questo principio non è solo visivo: se ascoltiamodue persone, una alla nostra sinistra e l’altra alla nostra destra,la direzione delle loro voci segue esattamente questo principioperché l’arco che sottende la loro posizione diminuisce all’au-mentare della distanza dall’ascoltatore. Lo stesso vale per il tat-to: se puntiamo due alberi con una coppia di bastoni, prose-gue Kennedy, l’angolo costituito dalle nostre braccia seguirà ilmedesimo principio prospettico. La prospettiva è definita per-tanto come una generica «scienza della direzione» (ivi, p. 225).Anche in questo caso ci troviamo però di fronte allo stesso in-terrogativo di prima. Abbiamo semplicemente dimostrato chei ciechi conoscono lo spazio: forse non è ancora un risultatodel tutto scontato (come abbiamo visto c’è ancora qualcuno

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Figura 5 Disegni di alcuni ciechi adulti: una mano (a,b,c) e un tavoloFonte: Kennedy, 1993

gica conseguenza del credere che quello del cieco sia un mon-do fuori dallo spazio. Poiché si suppone che il mondo senso-riale dei non vedenti sia radicalmente altro da quello dei ve-denti, quel che ne risulta è che nessuno può uscire dalla pro-pria condizione né comprendere i propri limiti. Kennedy assu-me una posizione che è opposta a questa, una controparte tal-mente speculare che arriva, seppur in base a premesse diverse,alle medesime conclusioni: ogni tentativo di fare dei ciechi de-gli «aspiranti vedenti» (cfr. Mazzeo Mario, in stampa) ha comeconseguenza di fraintendere la specificità della condizione dichi è privo della vista e di non comprendere possibilità e limitidella percezione tattile.

Come è avvenuto nel paragrafo precedente, ci troviamo difronte a un percorso argomentativo curioso: in un primo mo-mento si sottovaluta il proprio oggetto di studio, il tatto, per poimostrare in un secondo tempo che in realtà questa modalità sen-soriale ha capacità eclatanti. Il risultato è una doppia esagera-zione, prima per difetto e poi per eccesso, che ha per conse-guenza affermazioni decisamente sorprendenti come questa:

I disegni di questi tre soggetti ciechi indicano che essi apprezzano moltiprincipi della rappresentazione dei contorni. In linea generale, nei dise-gni le linee corrispondono alle regole che governano la rappresentazionedei contorni per i vedenti. Cioè, le loro linee rappresentano bordi di su-perfici (Kennedy, 2000, p. 72. Cfr. Kennedy, 1993, p. 123).

O al tatto si concede troppo (la tesi secondo cui per i bam-bini ciechi non è poi cosí difficile disegnare in prospettiva) osi concede troppo poco: è cosí stupefacente infatti che a con-torni visivi corrispondano linee tattili? Kennedy sembra di-menticare che il disegno, sia in nero che in rilievo, nasce dauna abilità manuale: in entrambi i casi si tratta di fare un se-gno, tracciare una linea sulla carta. Studiando il disegno deiciechi lo psicologo irlandese cerca di evidenziare il caratterevisivo del tatto, invece di sottolineare il fatto che la manualitàaptica ha un valore anche per i vedenti. È forse per questa ra-gione che Kennedy (1993, pp. 269-270) afferma che siamouna specie bizzarra perché sappiamo disegnare e fare raffigu-

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che lo mette in discussione: cfr. paragrafo 1) ma sembra un po’poco. In primo luogo, la dimostrazione fa ricorso a una cono-scenza somestetica dello spazio mentre una delle tesi di Ken-nedy è che «l’aptica possiede un senso intuitivo delle prospet-tive» (cit. in Masini, Antonietti, 1992, p. 138); in secondo luo-go, da questo punto di vista le posizioni di Révész e Gibsonsono piú mature poiché propongono una concezione maggior-mente equilibrata dei rapporti che legano e distinguono tatto evista.

Passiamo infine alla terza accezione, la piú delicata. In que-sto caso, infatti, la posizione di Kennedy è oscillante. Per unverso lo psicologo irlandese nega che i ciechi disegnino sponta-neamente per mezzo di una tecnica prospettica. Cosa, tra l’al-tro, difficile da ipotizzare poiché non avviene neanche nei ve-denti: come è noto, nella cultura occidentale la tecnica pro-spettica è un’invenzione solo rinascimentale.

Ma per un altro verso Kennedy (in stampa) sembra affer-mare che per i bambini ciechi è naturale apprendere certe tec-niche tanto quanto per i vedenti. Questa, in realtà, è l’unica tesiforte del suo approccio e purtroppo è anche la piú fuorviante.Alcuni disegni mostrati da Kennedy sono molto belli e, in cer-ti casi, dimostrano un vero talento grafico (cfr. ad es. quelli diTracy in Kennedy, 1993, p. 118 o quelli di Gaia in Kennedy, instampa): ma sono eccezioni. La maggior parte dei soggetti esa-minati dallo stesso Kennedy (1993) mostrano capacità moltoinferiori, a riprova che per i bambini ciechi è possibile ma nonfacile imparare certe tecniche rappresentative.

Rivalutare le capacità cognitive del tatto non significa mi-metizzarle, cioè schiacciarle su quelle visive. Il rischio è quellodi proporre una descrizione omogenea dei sensi che non ri-spetti la loro specificità: se il tatto fosse davvero tanto visivo ocosí «amodale» (Kennedy, 1993; 2000), il confronto con il li-mite sensoriale per i ciechi sarebbe tutto sommato poco fru-strante e facilmente superabile: si ritorna in fondo all’idea dichi, come Sacks (1995), afferma che il cieco non avverte il pro-prio limite sensoriale e, di conseguenza, che esso non è poi co-sí drammatico. Per Sacks questa conclusione costituisce la lo-

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mensionale si dimostra nettamente piú efficace di quella bidi-mensionale. Questo test suggerisce che, se si vuol comprende-re il valore cognitivo del tatto, è rischioso concentrare la pro-pria attenzione esclusivamente sulla percezione manuale deitratti in rilievo poiché essa costituisce proprio uno dei suoipunti deboli.

Come Bach-y-Rita, anche Kennedy cade vittima invece diun modello di riferimento che non sembra perdere la propriaforza, il Braille. La scrittura è la concretizzazione visiva dellelingue orali: il fatto che la scrittura in rilievo per non vedenticostituisca il paradigma ultimo di molte ricerche contempora-nee sul tatto tradisce una concezione doppiamente subalternadel tatto, alla vista e al linguaggio verbale. Il «doppio schiac-ciamento» che affligge il cognitivismo piú ortodosso (cap. I,paragrafo 4.1) riesce a infiltrarsi anche nelle ricerche che gli sioppongono.

Una parte degli studi di Klatsky e Lederman sono interes-santi poiché contribuiscono a sgomberare il campo da alcunedelle vulgate che dipingono il tatto come un senso temporale,inefficace e subordinato per l’appunto a vista e linguaggio. Altrericerche, alle quali faremo solo un breve accenno, ne costitui-scono invece l’ennesima incarnazione: la riscossa del tatto haper retrogusto una nuova sconfitta. Ma procediamo con ordine.

Secondo i due autori, il tatto è una modalità sensoriale for-mata da due sottosistemi distinti ma interdipendenti. Il primo,sensoriale, è deputato alla percezione di qualità tattili, termi-che, nocicettive e cinestetiche. Il secondo è di tipo invece mo-torio-manipolativo. Il legame che sussiste tra i due sottosistemiè dimostrato dal fatto che le proprietà fenomeniche percepitedalla mano (sottosistema 1) sono esplorate da precise tecnicheesplorative (sottosistema 2) chiamate EP (exploratory procedu-res). Per le nostre mani, le due psicologhe ipotizzano otto EPfondamentali (figura 6):

1) Movimento laterale (lateral motion): consiste nello strofina-re le dita contro un’area omogenea della superficie dell’og-getto per percepirne la tessitura.

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razioni anche se ciò non ci avrebbe dato alcun vantaggio evo-lutivo. Proprio perché sottovaluta il valore della manualitàper la specie umana (cieca o vedente che sia), a Kennedy puòsembrare «strana» la nostra facoltà di produrre e interpretareimmagini. Come abbiamo visto nel paragrafo 4, questa capa-cità non solo non è bizzarra ma è addirittura decisiva. La rap-presentazione figurativa costituisce una delle forme di una ca-tegoria tutta umana, quella del lavoro: grazie alla sua plasti-cità la mano sopperisce alla sprovvedutezza del proprio cor-po modificando ciò che la circonda, costruendo utensili, pro-ducendo figure. È perché siamo nudi che, con le mani, ci co-priamo di immagini.

5.3. Il tatto tra riscossa e sconfitta: le ricerche di Lederman eKlatsky

Circa la facilità con la quale i ciechi possono percepire leimmagini in rilievo, non tutti gli autori sono d’accordo con l’ot-timismo di Kennedy. Pur non dichiarandosi gibsoniano, il grup-po di ricerca di Susan Lederman e Roberta Klatsky sottolineaun principio ecologico elementare che sembra sfuggire a tutticoloro che, parlando del tatto, pensano in realtà solo alla per-cezione di disegni o lettere: il tatto è piú adatto alla percezionetridimensionale che a quella bidimensionale (Klatsky, Leder-man, 1993, p. 201).

Per dimostrarlo, Klatsky e Lederman (Klatsky et al., 1993)hanno escogitato un esperimento suddiviso in due parti: nellaprima un gruppo di soggetti bendati doveva riconoscere, toc-candoli, oggetti di uso comune (occhiali, forbici, telefoni, ecc.).La prova era resa difficile dal fatto che la percezione manualeera ostacolata: alcuni potevano toccare gli oggetti solo con undito o due, altri dovevano farlo con le mani coperte da guanti.Nella seconda parte dell’esperimento, un altro gruppo di sog-getti doveva riconoscere immagini in rilievo raffiguranti gli og-getti del test precedente. Il risultato dell’esperimento è moltosignificativo perché, nonostante le limitazioni imposte sullepossibilità di percepire forme e tessitura, la percezione tridi-

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2) Pressione (pressure): la mano preme una parte dell’oggettoper verificarne la consistenza e la durezza.

3) Contatto statico (static contact): è una tecnica adottata quan-do l’oggetto è sostenuto da un supporto mentre la mano lotocca per verificarne la temperatura.

4) Presa senza sostegno (unsupported holding): consiste nel sol-levare un oggetto soppesandolo con la mano, il polso e ilbraccio.

5) Chiusura (enclosure): la mano cerca di avvolgere l’oggettostringendolo tra le dita per percepirne la forma globale e ilvolume.

6) Seguire il contorno (contour following): è una tecnica parti-colarmente dinamica attraverso la quale la mano si mantie-ne in costante contatto con l’oggetto per valutarne con pre-cisione il volume e la forma.

7) Prova del movimento parziale (part motion test): una manoprova a muovere una parte dell’oggetto, mentre l’altra lotiene fermo.

8) Prova funzionale (function testing): le mani eseguono deimovimenti particolari per mettere alla prova alcune dellefunzionalità specifiche che l’oggetto può possedere. Lo agi-tano per produrre rumore, ci si infilano per constatare se ècavo, lo stringono alle estremità per muoverlo a tenaglia.

Il valore cognitivo e la plausibilità empirica di queste con-dotte esplorative è stata verificata da due esperimenti (Leder-man, Klatsky, 1987). Nel primo si chiedeva a soggetti bendatidi capire in base a quali proprietà tattili i due oggetti presenta-ti mostravano somiglianze: tessitura, consistenza, temperatura,peso, forma e volume, movimento parziale e funzionalità. L’at-tività manuale dei soggetti, ripresa da una telecamera e poi esa-minata nel dettaglio, ha confermato l’associazione tra le ottoEP e le diverse proprietà sensoriali.

Il secondo esperimento è piú complesso perché mira a raf-finare un’associazione che rischia di risultare approssimativa.La prova aveva come obiettivo quello di stabilire se ogni EP

fosse necessaria, sufficiente od ottimale per percepire una cer-

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Fig. 6: Le sei Exploratory procedures (EP) di Lederman e KlatskyFonte: Klatsky, Lederman, 1993

Contatto statico/temperatura

Chiusura/forma globale, volume

Prova funzionale/funzione specifica

Pressione/durezza

Presa senza sostegno/peso

Prova del movimentoparziale/movimento delle part

Seguire il contorno/forma globale, formaesatta

Movimento laterale/tessitura

dell’orizzonte percettivo a fare la differenza: l’occhio si apre aun panorama esteso, le dita colgono solo porzioni dello spazio.

Per dimostrarlo Loomis, Lederman e Klatsky (1991) hannopensato a un esperimento molto elegante. I soggetti dovevanoesplorare, prima con la vista e poi col tatto, una serie di dise-gni. L’idea di fondo della prova era di imporre alle due moda-lità sensoriali gli stessi vincoli di campo percettivo. L’esplora-zione tattile era limitata all’uso di un solo dito e il campo visi-vo godeva di un’apertura sensoriale identica a quella tattile: isoggetti dovevano vedere su un monitor le immagini proiettateda una penna elettronica particolare poiché la sua finestra per-cettiva era stata tarata in modo tale che avesse l’estensione paria quella di un dito. In questa maniera tatto e vista lavoravanoal riconoscimento delle immagini utilizzando lo stesso tipo disequenze. I risultati dimostrano che, in condizioni simili, le ca-pacità discriminative dei due sensi sono quasi identiche. Seperò si prova a raddoppiare l’estensione della finestra percetti-va attraverso la quale percepire i disegni succede qualcosa diinaspettato: per mezzo di due dita le capacità discriminativedel tatto rimangono inalterate, mentre la vista grazie al rad-doppiamento del campo visivo della penna ottica raddoppia laqualità delle sue prestazioni.

Questi due esperimenti sono interessanti perché fornisconouna immagine equilibrata dei rapporti tra vista e tatto, giocataper somiglianze e differenze. Per un verso, la prima prova sot-tolinea la parentela genetica e funzionale tra i due sensi poi-ché, a parità di condizioni, sia il tatto che la vista sono sensi se-quenziali. Per un altro, la seconda prova sottolinea le loro di-versità: l’aumento quantitativo del campo percettivo ha effettosolo per la vista poiché gli occhi costituiscono una strutturaspecializzata per la rilevazione di ampi orizzonti. Gli occhi so-no panoramici ma non le mani ed è per questo motivo che lavista è adatta alla percezione bidimensionale: per apprezzaredisegni e scrittura è decisamente piú importante una percezio-ne estesa e meno stereoplastica di una ristretta ma piú tridi-mensionale. A tal proposito, un dato fornito da Lederman eKlatsky costituisce un’ulteriore disconferma delle ipotesi di

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ta qualità tattile: era sufficiente se forniva una capacità di rico-noscimento superiore al 50% delle prove; necessaria se era lasola a essere sufficiente; ottimale se forniva i risultati piú accu-rati nella percezione di quella proprietà sensoriale. I soggettipotevano utilizzare solo una EP alla volta, suggerita dallo speri-mentatore: in questo modo, a rotazione ogni strategia esplora-tiva veniva associata al riconoscimento di ciascuna delle pro-prietà che abbiamo elencato per verificare quale fosse l’EP piúadatta a ognuna di esse. I risultati hanno confermato lo sche-ma che abbiamo riassunto sopra (il movimento laterale è l’EP

piú adatta alla percezione della tessitura, il contatto statico allarivelazione della temperatura, ecc.). Non solo: i dati forniti daLederman e Klatsky (ivi, p. 364) permettono anche di capirequali tra le diverse EP siano le strategie esplorative piú specia-lizzate, efficaci solo per una o due proprietà, e quali invece so-no in grado di dare risultati soddisfacenti per la maggior partedi esse: la pressione è la tecnica piú specializzata, mentre lachiusura è quella piú generica e versatile. Come è possibile ve-dere nella figura 6, la chiusura coincide con ciò che Révészchiama percezione stereoplastica (cfr. paragrafo 2): la presa si-multanea che permette la ricognizione della forma dell’oggettonella sua tridimensionalità. Come abbiamo visto nel paragrafo4, questo punto è importante perché conferma che la partico-lare plasticità della mano umana consiste proprio nella possibi-lità di opporre tra loro le dita con ampi gradi di libertà: gliesperimenti di Lederman e Klatsky mostrano che non specia-lizzazione manuale ed efficacia percettiva costituiscono i duevolti, strutturale e funzionale, della rilevazione stereoplasticadella forma.

Un’altra serie di esperimenti consente di chiarire ulterior-mente i rapporti che contraddistinguono il legame tra tatto evista. Lederman e Klatsky ipotizzano che le differenze tra que-ste due modalità sensoriali siano da ricondurre, prima di tutto,alla diversa ampiezza del campo percettivo. Il tatto e la vista so-no entrambi sensi sequenziali: mentre però la vista produce se-quenze rapide e automatiche, il tatto procede per passi piú len-ti e plastici (cfr. paragrafo 2). È proprio la diversa estensione

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Kennedy circa la presunta facilità nel percepire segni in rilievoe tecniche raffigurative come la prospettiva attraverso il tatto.Mentre per i vedenti bendati le immagini bidimensionali pro-spettiche risultano piú facili da percepire di quelle che non si-mulano graficamente la profondità, per i ciechi è esattamenteil contrario: per i non vedenti il loro riconoscimento è piú dif-ficile (Lederman et al., 1990).

Bisogna aggiungere però che per spiegare questo risultatoanche Lederman e Klatsky ricorrono a una ipotesi poco con-vincente. Secondo le due psicologhe la percezione bidimensio-nale delle immagini attraverso il tatto sarebbe codificata visiva-mente: ciò che chiamano image mediation model (ivi, p. 56) ri-chiama terribilmente la tendenza trasformatrice, il nono prin-cipio aptico descritto da Révész (e per esso valgono quindi lestesse cautele e le medesime considerazioni: cfr. paragrafo 2).Indubbiamente disporre di capacità immaginative visive costi-tuisce un aiuto nel risolvere compiti cognitivi come il ricono-scimento di un disegno (Ferretti, 1998). Allo stesso tempo,però, se si trattasse di un costante lavoro di traduzione visiva, iciechi non solo dovrebbero avere difficoltà nel riconoscere itracciati in rilievo, ma non dovrebbero riuscirci affatto. Il che,naturalmente, è falso. Lederman e Klatsky danno per scontatoche ricorrere all’immaginazione significhi fare ricorso all’im-maginazione visiva. Negli ultimi trent’anni molte ricerche sulleimmagini mentali hanno dimostrato invece che la situazione èpiú articolata poiché l’immaginazione non può essere ridottané a un processo solamente verbale (l’ipotesi proposizionali-sta), né a uno esclusivamente visivo (tesi che potremmo chia-mare visualista).

Gli studi, ormai classici, di Shepard e Metzler (1971) sullarotazione mentale hanno fornito evidenze sperimentali che di-sconfermano la prima ipotesi. Ai soggetti era chiesto di verifi-care se due figure dalla diversa orientazione spaziale fosserouguali o meno. I tempi di risposta risultarono direttamenteproporzionali alla differenza di orientamento angolare tra ledue figure. Questo esperimento, condotto sia con immagini ir-regolari che a forma di lettera, indica l’esistenza di un processo

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di rotazione mentale dell’immagine di tipo spaziale. L’ipotesisecondo la quale immaginare significa costruire frasi non è ingrado infatti di giustificare l’incremento lineare del tempo im-piegato nelle diverse prove. Se il formato delle rappresentazio-ni fosse verbale, la rappresentazione mentale dovrebbe rivelar-si insensibile (o sensibile non in maniera tanto proporzionale)alle differenze di orientamento angolare.

Gli studi di Marmor e Zaback (1976) e di Carpenter e Ei-senberg (1978), che hanno riproposto gli stessi test attraversouna diversa modalità sensoriale, disconfermano anche la tesivisualista. In questi esperimenti infatti immagini erano perce-pite per mezzo dell’esplorazione tattile di figure in rilievo: ol-tre a un gruppo di soggetti bendati sono state osservate le pre-stazioni di due gruppi di soggetti ciechi (congeniti e non). An-che in questo caso il tempo impiegato nei compiti di confrontoè risultato direttamente proporzionale al grado di rotazionementale necessario per giudicare l’uguaglianza delle due figu-re. Carpenter e Eisenberg (1978) hanno scoperto inoltre che leprestazioni dei vedenti risentivano della posizione iniziale dellemani: se le mani erano poste in modo perpendicolare rispettoalla figura in rilievo, i tempi di risposta erano piú brevi quandoper il confronto era necessaria una rotazione mentale di zero odi trecento gradi, mentre per ottenere le risposte piú lente eranecessaria una rotazione di centottanta gradi. Se le mani eranoposte invece a trecento gradi in senso orario rispetto al cam-pione, i tempi di risposta piú brevi si verificavano con rotazio-ni di duecentoquaranta e trecento gradi, quelli piú lenti conrotazioni di centoventi gradi.

In conclusione, il confronto tra la posizione di Bach-y-Rita,Kennedy e quella di Lederman e Klatsky rivela il carattere para-dossale di buona parte della produzione scientifica contempora-nea sulla percezione tattile manuale. Troppo spesso sembra chenon ci siano alternative: o il tatto funziona come la vista o il tat-to è inefficace e, per dare qualche risultato, deve affidarsi agliocchi. Allo stesso tempo, proprio alcuni degli studi di Leder-man e Klatsky mostrano che la ricerca cognitiva può divenireteoricamente piú avanzata quando, in maniera piú o meno con-

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IV. Esperienza tattile e facoltà del linguaggio

È il tatto il tronco stesso dell’umanità!J.G. Herder

1. Le scimmie che pescano: culture animali e cultureumane

L’obiettivo di questo libro è ribaltare l’idea per la quale l’e-sperienza tattile darebbe origine, almeno nell’animale umano,a una sensorialità seconda, o meglio, secondaria: subordinata avista e/o linguaggio. Nei capitoli precedenti abbiamo cercatodi mostrare che il tatto è definibile come «il secondo senso» inun modo opposto rispetto a quello tradizionale. L’esperienzatattile, prima di essere «seconda», è duplice: vive della polaritàfondamentale tra somestesia e percezione aptico-manuale. Perquesta ragione è doveroso sottolineare ancora una volta cheesistono due accezioni di «tatto»: la prima si riferisce a unasensibilità cutanea estesa, la seconda a quella localizzata nellemani. Questa peculiarità costituisce, contemporaneamente, iltallone d’Achille e il punto di forza dell’esperienza tattile poi-ché, come abbiamo visto, è dallo stato di cronica indigenza diun corpo neotenico che sorge la necessità di stabilire legamiemotivi, instaurare tradizioni storiche, tessere pratiche sociali.

Il tatto può essere definito «il secondo senso» non perchémodalità sensoriale subordinata alla vista, ma poiché costitui-sce la dimensione dell’esperienza decisiva per il secondo voltodella natura umana, la cultura. Dire «secondo volto» o «secon-da natura» può generare fraintendimenti: è opportuno stron-

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sapevole, recupera un atteggiamento teorico vicino a quello diRévész e Gibson. In questo caso il rigore sperimentale che ca-ratterizza questo tipo di indagine cessa di essere asfittico e ca-strante poiché consente di dimostrare con maggiore rigore lavalidità delle intuizioni dell’approccio ecologico e di estendereil campo di indagine della psicologia gestaltica.

Letture consigliate

– Purtroppo non esiste nessuna traduzione italiana dei testi di Révész cheabbiamo citato. Per un rapido profilo biografico dell’autore e per una bi-bliografia completa dei suoi scritti si può consultare il sito della RévészLibrary di Amsterdam: http://cf.uba.uva.nl/en/libraries/psychology/re-vesz.html.

– La migliore presentazione generale della percezione tattile è ancora quelladi Montagu (1971) nella quale sono illustrate alcune delle caratteristichegenetiche, antropologiche e psicologiche piú rilevanti di questa modalitàsensoriale.

– L’interpretazione della nozione di lavoro contenuta nell’ultimo paragrafodeve molto a Virno (1999, parte terza; 2003).

– Per una introduzione in italiano alle tendenze di ricerca contemporaneesulla percezione aptica è utile consultare Galati (1992). Due volumi col-lettanei recenti, uno in lingua francese (Hatwell, Streri, Gentaz, 2000) euno in inglese (Heller, 2000a), contengono numerosi saggi in grado didare un resoconto aggiornato del dibattito. Il piú completo dei due èsicuramente il primo poiché propone interventi, ad esempio, su sostitu-zione sensoriale, percezione neonatale, illusioni aptiche e supporti gra-fici per non vedenti. Uno degli articoli (Lacreuse, Fragaszy, 2000) pro-pone un confronto tra mano umana e non umana molto diverso dal no-stro poiché insiste piú sugli elementi di somiglianza che di differenza.

– Per una concezione della cecità e del tatto opposta alla nostra si veda, oltrea Sacks (1995), l’autobiografia di John Hull (1990). Anche la lettura delcarteggio tra Bryan Magee e il filosofo cieco Martin Milligan (Magee,Milligan, 1995) costituisce un buon esercizio per mettere alla prova lapropria permeabilità ad alcune illusioni filosofiche circa la condizione dichi è privo della vista.

– Una introduzione chiara e stimolante al dibattito contemporaneo su untema al quale abbiamo potuto solo accennare, quello delle immagini men-tali, è sicuramente quella di Ferretti (1998). Cornoldi e Vecchi (2000a,2000b) forniscono invece dati recenti sulle immagini mentali nei ciechi.

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non consiste nel possesso o meno di una entità spirituale, l’ani-ma. In questo senso siamo tutti continuisti.

Le accuse reciproche di «discontinuismo» rischiano, in pri-mo luogo, di farci trascurare il vero punto della questione: ca-pire qual è l’origine e il valore di queste differenze di compor-tamento. In secondo luogo suggeriscono in maniera implicitaun presupposto argomentativo duro a morire che conduce auna sorta di stallo teorico. È come se, ancora oggi, si giocasseuna partita stretta in una vecchia contrapposizione, di stampoottocentesco: l’essere umano è «un angelo decaduto» (opzionespiritualista) o «una scimmia progredita» (opzione materialisti-ca)? Mentre all’epoca della pubblicazione delle opere diDarwin e Lamarck, questo interrogativo ha un contenuto ge-nuino poiché nasce dalla rottura di un paradigma pervasivocome il creazionismo (l’uomo è creato da Dio), oggi questa do-manda, almeno in sede filosofica e scientifica (se stiamo discu-tendo con un teologo, le cose cambiano), assume il sapore stan-tio di chi, indugiando, fa confusione per mancanza di radica-lità teorica.

Per ogni paradigma di ricerca che si dica «naturalista» la ri-sposta all’interrogativo sembra infatti semplice, frutto di un’op-zione obbligata: siamo scimmie progredite. Ed è qui che si ce-la l’inganno: perché, a rigor di termini, non siamo né scimmiené esseri progrediti. Non solo, come abbiamo sottolineato nelsecondo capitolo, l’idea che l’uomo discenda dalla scimmia èscorretta da un punto di vista evoluzionistico (il punto di diva-ricazione cronologica tra scimpanzé e ominidi è oggi molto di-battuto ma comunque notevole, tra i 7 e i 4 milioni di anni fa:cfr. Biondi, Rickards, 2001; Cherfas, Gribbin, 2001) ma è an-che fuorviante da un punto di visto filosofico.

L’esempio della pesca alle termiti infatti è un’ottima dimo-strazione della relazione di somiglianza tra Homo sapiens escimpanzé ma anche della loro estrema diversità. Per un verso,sarebbe sbagliato rifiutarsi di considerare culturale il compor-tamento degli scimpanzé osservato dalla Goodall. Per un altro,sarebbe altrettanto errato lasciarsi trarre in inganno da una si-milarità che si rivela essere solo di superficie. Il punto decisivo

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carli sul nascere. Queste espressioni non intendono affermarein alcun modo che per l’animale umano il linguaggio sia qual-cosa di posticcio, un tardo additivo per un impasto biologicogià formato. Al contrario: è proprio il carattere indefinito e pla-stico, immaturo e incerto della corporeità umana che apre laporta spazio-temporale alla comparsa evolutiva del linguaggio.In particolar modo, la mancata specializzazione dell’esperienzatattile costituisce l’elemento chiave di una relazione a incastro:la «sprovvedutezza biologica» dell’animale umano, come lachiama Gehlen (1978, p. 60), è il presupposto genetico di ri-medi culturali che ne colmino le lacune e ne compensino lemancanze. È per questa ragione che tra comportamenti cultu-rali umani e non umani sussiste una somiglianza solo superfi-ciale che, come tale, può trarre in inganno. Un caso molto no-to è costituito, ad esempio, dall’uso di utensili da parte degliscimpanzé per catturare le termiti (per una rassegna: Lestel,2001, pp. 75 sgg.). L’etologa americana Jane Goodall ha osser-vato in Tanzania questo comportamento presso una comunitàdi scimpanzé: le scimmie prendono dei ramoscelli, li privanodelle foglie, li inseriscono nei tunnel dei termitai e poi li estrag-gono per mangiare le formiche che ci si aggrappano sopra.Questo esempio è importante per almeno due ragioni. In pri-mo luogo, lo scimpanzé non solo utilizza un attrezzo ma locrea: non prende un ramo già privo di foglie ma ne strappauno dagli alberi per poi piegarlo alle sue esigenze. In secondoluogo, si tratta di un comportamento culturale poiché solo que-sto gruppo di scimpanzé utilizza la cosiddetta «pesca delle ter-miti», una pratica trasmessa di generazione in generazione.Molto spesso questo caso è considerato una riprova della fortecontinuità evolutiva tra animali umani e non umani: la culturanon rappresenterebbe uno specifico umano e la differenza tracomportamenti culturali animali e umani sarebbe solo di gra-do e non di genere. Ma cosa significa affermare che questa dif-ferenza è solo di quantità e non di qualità? Sgombriamo subitoil campo da un primo fraintendimento. Su un punto riduzioni-smo linguistico, paradigma cognitivo e antropologia filosoficasi trovano d’accordo: la differenza tra animali ed esseri umani

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squalo non possiamo tuffarci in mare e andare a prendere ilnostro pesce spada. Per un altro è una pesca che sa aspettarepoiché il nostro corpo, grazie alle sue dimensioni e alla suamorfologia (cfr. paragrafi 3 e 5), ha un numero minore di istin-ti al quale dare risposta immediata: ed è per questo che quellapesca può impegnare il significato di una vita intera.

2. I bambini che ululano: natura e cultura umana

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il gioco disomiglianze e differenze tra l’utensile dei primati non umani equello costruito dai sapiens consiste in una diversa amalgamatra plasticità e necessità d’uso. Per i primi, arnese e strumentocostituiscono semplicemente una magnificazione delle presta-zioni. Aumentano un’efficacia comunque presente nella loromorfologia corporea: si tratta di attrezzi meno plastici sempli-cemente perché di essi si ha meno bisogno. Per i secondi, lostrumento non è solamente una protesi magnificativa poichécostituisce l’apertura di interi campi d’esperienza e costituisceuna condizione necessaria per la sopravvivenza. Mentre per loscimpanzé il ramoscello privato delle foglie è semplicementeuno strumento piú potente per mangiare una quantità mag-giore di termiti, per l’Homo sapiens il bastone, la punta o ilpercussore non sono oggetti dedicati a un unico scopo ma auna molteplicità di compiti necessari per vivere (tagliare e bat-tere, appoggiarsi o lanciare) per i quali le mani nude non sonosufficienti.

La differenza cruciale sta dunque nel fatto che solo per glianimali umani la cultura ha un valore biologico. Per compren-dere meglio questo aspetto i cosiddetti «ragazzi selvaggi» co-stituiscono un terreno di riflessione particolarmente adatto. Sitratta di un insieme di casi interessante poiché costituisce loscollamento tra prima e seconda natura umana: bambini vivo-no per lungo tempo in isolamento o, abbandonati, sopravvivo-no allevati da altre specie (ad esempio lupi, orsi, gazzelle). Disolito, al loro ritrovamento questi ragazzi presentano compor-

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infatti è che per gli animali non umani i comportamenti cultu-rali hanno un’importanza relativa, cioè opzionale. Molto spes-so, il fatto che alcune specie di scimpanzé non utilizzino ba-stoncini per pescare le termiti è considerato la dimostrazioneultima del carattere culturale di questo comportamento e, quin-di, del rapporto di continuità tra la nostra specie e gli altri pri-mati. È proprio quest’ultimo passaggio logico a essere indebi-to: ci si dimentica, infatti, che le altre comunità di scimpanzé,quelle che non utilizzano questa tecnica, non sostituiscono ilramoscello con altri utensili ma mangiano le termiti diretta-mente con mani e lingua. La differenziazione tra le diverse co-munità di scimpanzé non consiste quindi nell’impiego di tecni-che differenti ma tra gruppi che mostrano questo comporta-mento culturale e gruppi che non lo mostrano. Per questa ra-gione, l’impiego animale di utensili culturali1 è un insieme diazioni accessorio e secondario perché gli scimpanzé sono unaspecie cosí specializzata che può sopravvivere ugualmente an-che senza bastoncini: non a caso le termiti catturate con uten-sili costituisce solo il 20% di quelle mangiate da questa formadi vita (Lestel, 2001, p. 76).

La somiglianza tra la pesca delle termiti degli scimpanzé ela sfida tra il marlin e il pescatore narrata da Hemingway ne Ilvecchio e il mare è perciò sfavillante ma superficiale come quel-la che esiste, sul piano teorico, tra potenza e potenzialità. En-trambi i termini infatti richiamano la dimensione del «poter fa-re», ma in due sensi molto diversi: gli strumenti animali sonotali esclusivamente in virtú della loro efficacia di prestazioneimmediata (potenza); quelli umani lo sono in virtú della loroflessibilità d’uso (potenzialità). La pesca della scimmia è un’at-tività, potremmo dire, appetibile: ha un effetto veloce ma limi-tato poiché soddisfa rapidamente un bisogno non procrastina-bile. Quella umana è invece una pratica longeva: la lunga vitadel protagonista del romanzo di Hemingway è il frutto di unainfanzia cronica, di un periodo di apprendimento che non dàsubito risultati (o almeno non sempre). Per un verso, è una pe-sca che deve attendere: poiché non siamo provvisti della morfo-logia dell’orca marina o degli acutissimi organi di senso dello

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ne. Per controbattere la seconda, dovremo chiarire meglio lanozione di condizione di possibilità. Per mostrare l’implausibi-lità della terza, faremo un percorso piú ampio che coinvolgeràil rapporto tra non specializzazione, evoluzione e dimensionicorporee: sarà allora che salperemo alla volta dei misteriosimondi descritti da Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver.

Partiamo dunque dalla prima obiezione. Pur facendo eser-cizio di prudenza, è possibile ritrovare in tutte le storie che ri-guardano i ragazzi selvaggi un primo elemento ricorrente. Ilcucciolo d’uomo, infatti, tende ad assumere i caratteri dellaspecie che lo alleva, qualunque essa sia: se è allevato da lupitende a diventare un predatore carnivoro, se allevato da gaz-zelle si comporta come una preda erbivora2. Il bambino lupo oil ragazzo gazzella costituiscono il corrispettivo di ciò che nelsecondo capitolo (paragrafo 3.5) abbiamo chiamato neofilia.Da questo punto di vista, infatti, la plasticità umana è una stra-da a doppio senso: l’umano adulto è attratto da forme giovani-li e quindi, oltre che dai suoi piccoli, dalle specie piú flessibilie potenzialmente domestiche (la neofilia, per l’appunto). Allostesso tempo, il cucciolo di uomo tende ad assumere i tratti de-gli adulti che lo circondano, siano conspecifici o meno: è perquesta ragione che ogni tanto sentiamo parlare di bambini lu-po, ragazzi gazzella o uomini orso e mai di antilopi zebra o discimpanzé ghepardo. Naturalmente esiste una varietà di casinei quali una specie animale adotta cuccioli di un’altra. In al-cune circostanze, ad esempio, un cane alleva piccoli di gatto.Ma il punto che qui ci preme sottolineare è che il gatto, quan-do cresce, non abbaia: miagola. Mentre il bambino cresciutodai lupi mescola caratteri umani a quelli dei lupi, il gattino al-levato dai cani resta un gatto. Per questa ragione, i ragazzi sel-vaggi non solo non costituiscono una difficoltà per il fonda-mento neotenico della condizione umana ma ne rappresentanola conferma.

Esiste poi un secondo tratto comune. In tutte le storie di ra-gazzi selvaggi di cui abbiamo notizia si parla di cuccioli d’uomoallevati comunque da un gruppo: se lupi o altre specie non sene prendessero carico, il bambino morirebbe. Un controesem-

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tamenti aggressivi, assenza completa di linguaggio verbale, abi-tudini alimentari e di vita «animalesche». In seguito si verificaun recupero della capacità intellettive e comunicative, sempreperò parziale. È una questione, bisogna sottolinearlo, moltodibattuta: la maggior parte delle testimonianze risale al diciot-tesimo secolo e si affida a resoconti episodici e poco precisi.Non si tratta, però, di una controversia di ordine puramentemetodologico. Dal punto di vista teorico, questi dati suggeri-scono infatti interpretazioni molto diverse. Da un lato, sonostati utilizzati per sostenere che da un punto di vista biologiconon esiste qualcosa che possa definirsi «natura umana»: secon-do la filosofa Anna Ludovico (1979, p. 56) ciò che distinguel’essere umano dall’animale «non è la biologia, bensí la cultu-ra»; lo psicologo Lucien Malson (1964) ripete piú volte che iragazzi selvaggi dimostrano che fuori dall’ambito sociale l’es-sere umano non è tale. Dall’altro, Felice Cimatti (2002, p. 207)utilizza questi casi per discreditare la tesi secondo cui la neote-nia sarebbe decisiva per comprendere la nostra natura. Le ar-gomentazioni di Cimatti sono sostanzialmente tre. In primoluogo i bambini selvaggi contraddicono la tesi neotenica per-ché, privi di linguaggio, riescono a sopravvivere: se l’essereumano fosse davvero sprovvisto di biologia, senza cultura nondovrebbe farcela. In secondo luogo, si tratta di esseri che han-no il nostro stesso corpo ma che non parlano: se questo ne fos-se condizione di possibilità, dovrebbero poterlo fare. Da qui laconclusione che la neotenia, e siamo al terzo punto, non costi-tuisce un prerequisito per avere linguaggio verbale, quantopiuttosto la sua conseguenza. Poiché, come abbiamo visto, ilconcetto di «natura umana» e l’immaturità corporea tipica del-la nostra specie rappresentano due idee centrali per questo li-bro, è doveroso affrontare la questione. A tal proposito, le treobiezioni di Cimatti sono interessanti perché ci danno l’occa-sione di sviluppare la nostra tesi: difendere, contro Ludovico eMalson, la nozione di «natura umana» senza abbracciare perquesto alcuna forma di riduzionismo linguistico. Per risponde-re alla prima critica, sarà necessario sottolineare due tratti co-muni ai casi di bambini cresciuti lontano dalle comunità uma-

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umana dovrebbero parlare. A tal proposito è decisivo com-prendere la nozione di «condizione di possibilità». Come giàaccennato nel capitolo precedente (paragrafo 4), abbiamo scel-to di utilizzare questo termine proprio per proporre una alter-nativa teorica in grado di uscire dalle strettoie imposte dall’op-posizione tra cause e ragioni, tra natura e cultura, tra innato eappreso. Solo se si sfugge a queste antinomie è possibile evita-re di aggiungere la seconda natura umana su un anonimo cor-po animale (è il problema di Ludovico e Malson ma anche, adesempio, di McDowell: cap. I. paragrafo 3.2) e comprendereche la cultura è costitutiva dell’Homo sapiens poiché nella no-stra specie assume un valore biologico radicale: è per questaragione che la seconda natura non si innesta, né si aggiunge al-la prima ma la integra e, almeno in parte, la riorganizza. Soste-nere che il bipedismo dell’Australopithecus o il pollice opponi-bile dell’Oreopiteco costituiscono prove contro la nostra ipote-si significa esser vittima di un fraintendimento: a fare la diffe-renza è infatti la congiunzione di diverse condizioni di possibi-lità, un’espressione che, dunque, è necessario declinare al plu-rale. In questo libro stiamo cercando di individuare ciò che peril linguaggio costituisce una serie di condizioni singolarmentenecessarie e solo congiuntamente sufficienti. Sufficiente è infat-ti un insieme di tratti morfologico-sensoriali: essere bipedi eimplumi, essere nudi e dotati di mani, avere un tatto someste-sico e un tatto aptico neotenici.

Si faccia attenzione: affermare che essere bipedi implumi èun insieme di condizioni necessarie e sufficienti per avere lin-guaggio verbale significa dire che non ci può essere un corpoche parla che non sia bipede e implume ma non che, se si è bi-pedi e implumi, si abbia necessariamente linguaggio verbale. Ilpunto è decisivo per almeno due ragioni. In primo luogo per-ché segna la differenza tra condizioni necessarie e sufficienti ecause necessarie e sufficienti: per comprendere l’origine dellafacoltà del linguaggio le prime devono sostituire le secondeperché, a volte lo si dimentica, quello in cui ci stiamo muoven-do è un dominio biologico e non fisico (ammesso che nella fi-sica contemporanea si possa ancora parlare di cause. Diciamo:

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pio per questa idea potrebbe essere costituito da un sottoinsie-me della vasta categoria dei ragazzi selvaggi. Si tratta dei bam-bini sopravvissuti per autosostentamento che, dopo essere sta-ti abbandonati, sono riusciti a cavarsela da soli in ambienti na-turali come foreste o zone montuose. Se andiamo, però, a os-servare piú da vicino i casi documentati (Ludovico, 1979), sco-priamo che la data di scomparsa dei bambini è sconosciuta osuccessiva ai 4-5 anni3, un’età piuttosto avanzata. Ma, a tal pro-posito, l’argomento decisivo è un altro: in fondo, è il clamorestesso suscitato da questi casi a costituire un dato fondamenta-le a sostegno della nostra ipotesi. Si tratta di resoconti sugge-stivi proprio perché rari ed eccezionali (17 negli ultimi quattrosecoli), proprio perché di solito un bimbo umano da solo nonriesce a sopravvivere.

I casi di cuccioli d’uomo allevati da altre specie animali nonfanno che testimoniare la plasticità corporea di un essere che,proprio perché a corto di istinti, in situazioni estreme riesce afare affidamento su quelli altrui. Quel che emerge è, in altreparole, un secondo aspetto nel quale si intersecano neotenia eneofilia, lentezza di crescita e domesticazione. Il bambino lu-po, infatti, segue lo stesso principio di fondo su cui si basa ilcercatore di tartufi (cfr. cap. II, par. 3): se quest’ultimo si affi-da al naso del suo cane per scovare sottoterra un tubero cosípregiato, il primo si affida al gruppo di predatori per trovarequalcosa di ancora piú prezioso, la sopravvivenza. È proprio laneotenica plasticità del suo corpo a consentire al ragazzo sel-vaggio di modellarsi sulla comunità che lo accoglie: sfrutta almassimo gli istinti residui (utilizzando, ad esempio, un olfattodebole rispetto agli altri mammiferi), vive del prestito costantedi quelli che non può acquisire (il bambino lupo può impararea usare l’olfatto ma non a farsi crescere gli artigli). Poiché il ra-gazzo selvaggio non ha a portata di mano una cultura, colma lemancanze del proprio corpo con una biologia altra, quella del-l’animale che lo adotta.

La seconda obiezione basata sui ragazzi selvaggi riguarda ilrapporto tra corpo tattile e linguaggio: se il primo fosse condi-zione per il secondo, i bambini lupo che hanno una sensibilità

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problema dell’origine del linguaggio. Se la sua comparsa nonha condizioni di possibilità, essa potrebbe fare la sua appari-zione in tutte le specie animali: perché quindi proprio nellanostra?

In secondo luogo la despecializzazione, al di là di quanto sivorrebbe far credere, non è una risposta evolutiva al problemadell’origine del linguaggio, almeno non in quanto tale poichélascia aperti una serie di problemi tutti da risolvere. Prendia-mo ad esempio la stazione eretta. Come abbiamo detto, il bi-pedismo è già presente negli Australopitechi e probabilmentein specie anteriori (Biondi, Rickards, 2001, p. 72). Per chi ade-risce con coerenza alla logica della despecializzazione, le cosedovrebbero essere andate piú o meno cosí: in un primo tempoi nostri predecessori erano bipedi; in un secondo momento sisono specializzati in scimmie quadrupedi; in un terzo momen-to, grazie al linguaggio, siamo tornati bipedi. Se il linguaggioavesse avuto un effetto di despecializzazione sul corpo umano,ci troveremmo di fronte a una sorta di «inversione a u» evolu-tiva. Questo dietrofront filogenetico non solo è filosoficamentetortuoso, ma anche biologicamente improbabile poiché violauna delle poche regole che il darwinismo è riuscito a produrrein poco piú di un secolo di vita: la cosiddetta legge di Dollo.

Vediamo in breve di cosa si tratta. Louis Dollo (1857-1931)è un ingegnere minerario che, alla fine del diciannovesimo se-colo, si appassiona alla paleontologia: durante i suoi scavi in-fatti si imbatte in diversi fossili animali, in prevalenza dino-sauri. Nel 1893, dopo aver studiato per piú di dieci anni lamorfologia dei reperti, formula tre principi che costituisconoancora oggi i cardini della teoria evoluzionistica: secondo Dol-lo l’evoluzione è un processo discontinuo, irreversibile e limi-tato. L’evoluzione è discontinua perché non procede per cam-biamenti progressivi e graduali ma per mutamenti bruschi eimprovvisi; è limitata perché ogni specie ha una durata neltempo finita, dunque destinata all’estinzione; è irreversibileperché una volta imboccata una via evolutiva non è possibiletornare indietro ripristinando lo stato di cose precedente. Èproprio quest’ultima affermazione che costituisce la «legge o

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in un sistema complesso e non in un sistema semplice). Datecerte condizioni, infatti, l’evoluzione non ha uno sviluppo pre-vedibile; allo stesso tempo, escluse certe condizioni è possibileprevedere che alcuni avvenimenti non si verificheranno. Senzaluce solare, ad esempio, non può esserci fotosintesi. Allo stessotempo se c’è luce solare non vuol dire che questo, prima o poi,provocherà la comparsa della fotosintesi su Marte. In secondoluogo il punto è decisivo perché lo scarto tra avere i prerequi-siti per il linguaggio e parlare costituisce una caratteristica in-terna non solo alla nozione di condizione di possibilità ma an-che a quella di facoltà del linguaggio verbale. Avere facoltà dellinguaggio significa proprio questo: essere potenziali e non es-sere potenti e, dunque, poter disporre di una capacità senza chequesta si sviluppi necessariamente. Un animale specializzato èpotente proprio perché imbocca efficacemente uno svincoloevolutivo molto stretto: o risponde a certe condizioni ecologi-che oppure si estingue. Un animale potenziale ha, invece, uncampo di possibilità piú vasto poiché si trova in quello che po-tremmo chiamare «un paesaggio evolutivo». L’Orrorin, adesempio, uno tra i nostri progenitori piú antichi, ha avuto difronte a sé due strade principali che costituiscono i percorsifondamentali del processo di ominazione: poteva specializzarsi(in modi tra loro molto diversi: gli odierni orang outang, goril-la e scimpanzé ne costituiscono solo alcuni esempi) oppure ri-manere il meno specializzato possibile e affidarsi sempre piúalla coesione di gruppo, alla socialità del toccarsi e a quello chealla fine sarebbe divenuto il carattere pubblico della parola.

La non specializzazione costituisce il nodo cruciale dellaterza questione alla quale dare soluzione. Rimane da compren-dere, infatti, quale sia il rapporto logico e genetico tra scarsitàdi istinti e linguaggio: la sprovvedutezza della struttura corpo-rea umana e la neotenia della sua ontogenesi non possono co-stituire, piú che una precondizione, la conseguenza della com-parsa della facoltà del linguaggio?

La risposta è semplice: no. Questa domanda, infatti, si ba-sa su un’idea di fondo, la despecializzazione, che presenta dueinconvenienti. In primo luogo lascia inesplicato e misterioso il

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ne una variante biologica decisiva, di solito trascurata dalla let-teratura: le dimensioni degli organismi.

3. L’errore di Gulliver: linguaggio e dimensionidel corpo4

Probabilmente, la prima forma di vita apparsa sulla terra èstata un batterio. I batteri costituiscono ancora oggi non soloesseri viventi di straordinario successo evolutivo ma, come pre-vede la legge di Dollo, costituiscono una delle forme di vitameno specializzate mai prodotte dalla storia naturale. Il puntodi forza dei batteri coincide con il loro problema maggiore: so-no esseri microscopici. La semplicità è ciò che consente loro diadattarsi ad ambienti diversissimi (per conformazione chimica,temperatura e struttura: cfr. Gould, 1996) ma, allo stesso tem-po, è ciò che li ingabbia in un orizzonte biologico molto ri-stretto.

Sono proprio le dimensioni corporee infatti a costituire lastrada maestra intrapresa dai processi evolutivi che rigeneranoil potenziale di speciazione: il passaggio dalla prima forma divita non specializzata ad altre specie non specializzate consistein un aumento dimensionale che ha permesso una differenzia-zione dei tempi di sviluppo e, dunque, del rapporto epigeneti-co tra DNA e ambiente. Se un organismo è di grandezza ridot-ta, microscopica come quella dei batteri o minuscola comequella degli insetti, la varietà dei tempi di sviluppo non può es-sere molto ampia per una semplice ragione quantitativa: in unorganismo tanto piccolo ci sono poche variabili biologiche emeccaniche sulle quali il caso può giocare. Il fenomeno stessodella neotenia compare infatti solo in organismi di dimensionimaggiori: come abbiamo avuto già modo di dire, l’esempio piúnoto nel regno animale è quello dell’axototl, una salamandra(cap. II, paragrafo 4). Naturalmente l’aumento di taglia corpo-rea non è, di per sé, garanzia di non specializzazione: apre sem-plicemente diverse possibilità evolutive. I dinosauri da questopunto di vista costituiscono un esempio paradigmatico poiché

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regola di Dollo». Il principio sostiene che mentre è possibileche una specie non specializzata si specializzi, molto piú com-plesso è il caso contrario.

Questa direzionalità evolutiva, si badi, non ha alcun saporefinalistico. Si tratta soltanto, infatti, di una questione di proba-bilità. Le trasformazioni evolutive sono cosí complesse che laprobabilità di riportare a uno stadio precedente grandi muta-zioni, come quelle che hanno dato origine al volo degli uccellio alla nascita dell’Homo sapiens, è pari a quella di ottenere sem-pre «croce» lanciando in aria una moneta cento volte di segui-to (Gould, 1993, pp. 100-101).

Dollo, bisogna dirlo, non costituisce la soluzione a tutti inostri problemi. Se per un verso, ci aiuta a dimostrare che l’es-sere umano non può costituire una specie despecializzata, nonci dice un’altra cosa, altrettanto decisiva: come sia possibilerender conto del fatto che i sapiens e i suoi antenati abbianomantenuto un grado cosí elevato di non specializzazione. Inrealtà, lo studioso belga rischia di intrappolarci in un duro im-passe: se Dollo ha ragione e l’evoluzione è un processo a sensounico, l’essere umano non deve costituire solamente il primatemeno specializzato ma, addirittura, l’organismo meno specia-lizzato. Poiché, infatti, è difficile passare dalla specializzazionealla non specializzazione e visto che l’essere umano è l’animalemeno specializzato, Dollo ci mette nella bizzarra condizione didover affermare che la comparsa dell’Homo sapiens coincidecon l’inizio della vita, il che è clamorosamente falso. In altreparole, si pone il problema di comprendere in che modo l’evo-luzione possa non solo perdere potenziale evolutivo ma ancheaumentarne. In primo luogo, dobbiamo ricordare che la leggedi Dollo riguarda, come abbiamo accennato, solo fenomenievolutivi complessi, su ampia scala sia morfologica che tempo-rale: alcune inversioni evolutive sono possibili ma solo per trat-ti corporei relativamente semplici che riguardano mutazioni disingoli geni come le proporzioni di tibia e fibula nelle zampedi alcuni uccelli o la presenza di denti molari nei gatti (Raff,1996, pp. 392-395). In secondo luogo, per risolvere questa dif-ficoltà in modo radicale è necessario prendere in considerazio-

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sono decisive poiché costituiscono un tassello fondamentale percomprendere la relazione a incastro tra biologia e cultura. Tra-scurare questo elemento costituisce una mossa teorica, ingiusti-ficata e fuorviante, che dimentica la nostra storia evolutiva poi-ché si basa sulla convinzione di fondo che cambiando le dimen-sioni di un corpo si verifica un aumento progressivo e gradualedelle sue proprietà e della sua forma. Si tratta di una idea allet-tante ma ingenua, l’incarnazione filosofica di una suggestionenarrativa di successo: una teoria della natura umana alla Gulli-ver, il celebre protagonista del romanzo di Jonathan Swift. L’au-tore inglese, infatti, propone una sorta di esperimento mentaleche torna utile ai fini del nostro discorso poiché svolge con coe-renza un presupposto sbagliato, ancora oggi largamente condi-viso: la convinzione che linguaggio e cultura siano indipendentidalla grandezza del nostro corpo.

Per capire perché le nostre dimensioni sono decisive per fa-re di noi organismi non specializzati e, sulla base di ciò, anima-li in grado di parlare, prenderemo in esame quel che potrem-mo definire l’errore di Gulliver. Facendo visita al regno dei mi-croscopici lillipuziani e a quello dei giganteschi Broddingna-gians, analizzeremo gli aspetti centrali di un’idea che, letteral-mente, non sta in piedi.

3.1. Esser piccoli: perché Lilliput non esiste

L’apertura del romanzo di Swift è nota: Lemuel Gulliver, inseguito alla rovina della sua imbarcazione, naufraga su un’isolasconosciuta. Al suo risveglio, si trova assediato da creatureumane «non piú alte di quindici centimetri» (Swift, 1726, p.10) armate di arco e frecce. Il protagonista si imbatte, infatti,in mini-uomini che parlano una lingua straniera e che vivonoin una città simile a quelle europee del settecento: i lillipuzianisono come noi in tutto e per tutto tranne che per le dimensio-ni. Ma è davvero cosí? È davvero possibile avere una cultura eun linguaggio a prescindere dalle dimensioni del corpo? L’in-terrogativo deve apparirci meno bizzarro di quanto potremmocredere poiché è, ancora oggi, del tutto attuale. Jerry Fodor

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rappresentano il vertice dimensionale raggiunto dalla vita sullaterra (sono gli organismi piú grandi mai vissuti sul nostro pia-neta) e, al contempo, specie di rettili adattate ad habitat moltospecifici. È proprio con la scomparsa dei dinosauri, circa 65milioni di anni fa, che si libera un numero enorme di nicchieevolutive. Poiché cessa la compressione ecologica esercitata fi-no a quel momento dagli enormi rettili, i mammiferi, piccolianimali poco specializzati, possono proliferare e variare perspecie e dimensioni. Mentre però l’aumento dimensionale deidinosauri aveva assunto il significato di una forte specializza-zione, i mammiferi intraprendono un numero diverso di stra-de. Una di queste è quella dei primati. Se il basso fabbisognoenergetico e la maggiore capacità di sfruttare le risorse hannocostituito probabilmente un binomio decisivo per la sopravvi-venza dei mammiferi (Gould, 1994, p. 84), i primati rappre-sentano una sorta di «mammifero prototipico»: piccoli arbori-coli simili ai toporagni che si nutrono di insetti e che, proprioper la loro minore specializzazione corporea, possono ora con-quistare nuovi habitat. Tra le diverse vie evolutive dei primatiche è possibile ricostruire (si tratta, infatti, di un gruppo tutt’al-tro che monolitico), alcune di esse intraprendono un aumentodelle dimensioni corporee tale da comportare una maggiorepossibilità di variazioni nello sviluppo ontogenetico. Ed è quiche i sapiens entrano in scena.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, l’ani-male umano è una forma di vita di dimensioni notevoli. Abi-tuati forse al confronto con elefanti e rinoceronti, balene e orsi,esseri che ci colpiscono per la loro enorme mole, dimentichia-mo che l’essere umano è piú grande del 99% degli esseri viven-ti (Gould, 1977b, p. 167). Concentrati sul potere esercitato dallinguaggio o dalle rappresentazioni mentali sulla nostra espe-rienza, sia il riduzionismo linguistico che il paradigma cogniti-vo considerano le proporzioni corporee come una variante se-condaria: il peso delle nostre membra o l’altezza del nostro cor-po sarebbe frutto del solo caso o, se si vuole, è un particolareche non merita eccessiva considerazione. Non è cosí. Per unaspecie non specializzata come la nostra, le dimensioni corporee

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glia limite e questo le impedisce di ridursi in scala, di affollarei cervelli lillipuziani con la stessa densità con la quale popola inostri. Secondo le stime del biologo Florence Moog (1948, p.53), la portata cranica di Lilliput non consente di superare i 35milioni di neuroni: è per questa ragione che Gulliver non sitroverebbe nell’isola dei piccoli umani ma in quella degli in-sufficienti mentali. Non solo. Anche gli occhi, infatti, risento-no delle variazioni dimensionali. Come i neuroni, pure coni ebastoncelli non possono essere eccessivamente miniaturizzati.Per di piú il foro che consente alla luce di entrare nell’occhio,la pupilla, non può farsi troppo stretto, perché la retina nonpotrebbe mettere il suo proprietario nella condizione di vede-re a causa di fenomeni di diffrazione della luce: i lillipuzianiquindi oltre che stolti sarebbero anche deboli di vista6.

Spesso, Wittgenstein (1953, paragrafo 115) non ha maismesso di ricordarlo, nel linguaggio immagini ci tengono «pri-gionieri». In alcune circostanze, lo abbiamo visto nel primo ca-pitolo, questa immagine allestisce un teatro mentale entro ilquale si svolgerebbe quella recita incorporea in cui consiste-rebbero i nostri pensieri. In altre parole si tratta dell’idea checervello e corpo siano due entità radicalmente distinte e chenel primo (o meglio in una sua parte specifica) sia possibiletrovare la sede del linguaggio. Il corpo ne sarebbe il semplicecontenitore e le sue dimensioni modificherebbero di conse-guenza solo l’ingombro di questa «scatola che parla» (l’ideasecondo la quale i pensieri sono nella nostra testa, della qualeabbiamo parlato all’inizio del secondo capitolo, ne costituisceuna delle possibili varianti). Questo modo di affrontare lo stu-dio del linguaggio è fuorviante poiché dimensioni del corpo,capacità sensoriali e sviluppo cerebrale costituiscono coordi-nate interdipendenti: solo un equilibrio evolutivamente effica-ce e biologicamente plausibile tra questi assi può costituire lacondizione di possibilità per il linguaggio verbale.

L’importanza di queste precondizioni è dimostrata implici-tamente da un’altra grave impossibilità che mina il mondo lil-lipuziano. Come abbiamo visto nel primo paragrafo, l’uso diutensili è decisivo per comprendere le relazioni di somiglianza

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(1986), uno degli esponenti piú rappresentativi del paradigmacognitivo, ha dedicato ad esempio un intero saggio al proble-ma se i parameci, protozoi grandi quanto un ovulo umano deiquali abbiamo già parlato piú volte (cap. II, paragrafi 2, 3.1),possano avere o meno rappresentazioni mentali. Nella sua di-scussione della questione, Fodor non prende neanche in consi-derazione le dimensioni di questo organismo dando per scon-tato che non si tratti di un aspetto pertinente per il problema5.Felice Cimatti (2000a, p. 9), dal canto suo, apre una delle suemonografie affermando che il cervello di un topo assomiglia aquello di essere umano molto piú di quanto ci farebbe piacerecredere poiché si tratta, in fondo, sempre di neuroni. Torna l’i-dea che l’evoluzione è una specie di meccano che procede dal-l’elementare al complesso attraverso un semplice processo diaddizione: Swift non avrebbe saputo fare di meglio.

Vediamo allora perché l’autore inglese e tutti i suoi inconsa-pevoli epigoni hanno torto. Esistono, infatti, diversi motivi fisicie biologici che rendono i lillipuziani una forma di vita meccani-camente impossibile ed evolutivamente priva di senso. Capendociò, sarà piú chiaro qual è il ruolo giocato dalle dimensioni perun animale non specializzato come quello umano.

Se a qualcuno capitasse la sventura di naufragare in mare eritrovarsi nell’isola di Lilliput noterebbe qualcosa di diverso ri-spetto al racconto di Gulliver. I lillipuziani non si comporte-rebbero, infatti, come gli essere umani a dimensione standard:sin da subito emergerebbe la loro sconcertante stupidità. Co-me è noto, il cervello umano è formato da circa 14 miliardi dicellule neuronali. Il problema è che il corpo in miniatura diLilliput non potrebbe ospitare un cervello altrettanto piccolopoiché la variabilità dimensionale delle cellule non è propor-zionale alla variabilità dimensionale dei corpi. Il confronto, adesempio, tra il neurone di un topo e quello di un elefante mo-stra che al contrario delle dimensioni dei corpi, che differisco-no l’un dall’altro di circa 125000 volte, le rispettive cellule ce-rebrali divergono in grandezza di sole 8 volte (D’Arcy Thom-pson, 1961, p. 51). A causa della sua costituzione interna lacellula neuronale, infatti, non può andare sotto una certa so-

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tura e strumento sarebbero evolutivamente insensate perchéfisicamente inefficaci.

3.2. Esser grandi: perché nostro figlio non sarà mai alto 18 metri

Le dimensioni corporee pongono vincoli sulla nostra formadi vita non solo se vengono rimpicciolite ma anche se amplifi-cate. La selezione naturale non vive cioè solo di dinamiche bio-logiche (catene alimentari, equilibri tra popolazioni, ecc.) maanche di fattori meccanici. Le dimensioni di un corpo, tantopiú quelle proprie dell’animale umano, non sono infatti arbi-trarie: né in senso biologico né fisico. La stazione eretta, checome abbiamo detto è una delle caratteristiche che ci distinguedagli altri primati, è strettamente collegata alle limitazioni im-poste dalla meccanica dei corpi. Nel paragrafo precedente ab-biamo visto che esseri piccoli come i lillipuziani di una similepostura non saprebbero che farsene: non hanno mani da libe-rare perché non avrebbero utensili da utilizzare; non hannovoce da elevare al cielo vista l’esile acutezza del loro timbro so-noro; non ci sono orizzonti da dominare data la debolezza del-l’apparato visivo. Allo stesso tempo, anche uomini giganteschi,non avrebbero vantaggi da una postura bipede peraltro fisica-mente impossibile. Ciò spiega non solo perché l’aumento di-mensionale è stato cosí decisivo per una specie poco specializ-zata come la nostra ma anche perché questo aumento non haavuto proporzioni ancora maggiori. Come vedremo subito uncorpo troppo grande fa precipitare il potenziale evolutivo diuna specie in una nicchia, ancora una volta, molto specifica.

Nella seconda parte del suo romanzo, infatti, Swift immagi-na una situazione inversa a quella di Lilliput: Gulliver, scappa-to dall’isola dei mini-uomini, si ritrova a fare i conti con esserienormi, il regno di Broddingnagians. Il caso è interessante: sel’esempio di Lilliput ci mostra perché non costituiamo primatimicroscopici, il prossimo ci aiuterà a comprendere come mainon abbiamo dimensioni maggiori.

Secondo i calcoli di Moog (1948, p. 52), un essere umanoalto 18 metri come quelli incontrati da Gulliver nel corso dei

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e differenza tra corpo umano e corpo animale. La nozione stes-sa di utensile, infatti, ha significato solo all’interno di uno spa-zio corporeo che abbia certe dimensioni. Per arnesi da taglio(lame, lance o frecce) o da percussione (clave, asce, scalpelli),ad esempio, è necessaria una forza cinetica di impatto tale cheessi possano compiere il lavoro per il quale sono stati costrui-ti: abbattere corpi, intagliare oggetti. Il punto è che un anima-le umano sotto il metro d’altezza non avrebbe la forza necessa-ria per usare questi strumenti. Variazioni di dimensione a pa-rità di forma sono rese impossibili dalle peculiarità che carat-terizzano il rapporto tra superficie, lunghezza e volume. Men-tre la superficie di un corpo, cioè la sua area, è direttamenteproporzionale al quadrato delle sue dimensioni lineari, il volu-me è proporzionale al suo cubo. Per questa ragione l’aumentodelle dimensioni di un oggetto in lunghezza, larghezza e altez-za incide sul rapporto tra superficie e volume: piú grande è ilcorpo, maggiore sarà la differenza tra la prima e il secondopoiché «il volume cresce piú rapidamente della superficie»(Gould, 1977b, p. 161). L’energia cinetica sviluppata da uncorpo è poi proporzionale, lo vedremo meglio nel prossimoparagrafo, al suo peso e al suo volume. Di conseguenza l’ener-gia con la quale un animale può utilizzare un’ascia o un coltel-lo diminuisce in modo esponenziale con il rimpicciolimentodella sua grandezza. Secondo i calcoli di Went (1968, p. 407),un animale dalle sembianze umane pari alla metà delle nostredimensioni, un bambino ad esempio, non gode della metà del-la nostra forza ma solo di un venticinquesimo. Un essere uma-no inferiore al metro, quindi, a prescindere se sia dotato di lin-guaggio, non può tagliare alberi né lanciare pugnali semplice-mente perché sotto i suoi sforzi il legno non si aprirebbe e icoltelli, non avendo la necessaria forza di penetrazione, nonucciderebbero la preda. Aldilà delle sue capacità di disloca-zione spazio-temporale, il lillipuziano non avrebbe quindi nul-la da dislocare o, per meglio dire, per lui sarebbe meccanica-mente impossibile godere di una simile capacità, schiacciatocom’è dai vincoli fisici cui è sottoposto il suo corpo. Se gli es-seri umani fossero di dimensioni lillipuziane, le nozioni di cul-

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una moltiplicazione per trentadue ma per centomila poiché lacrescita della violenza d’urto non cresce in maniera costantealle dimensioni ma, come detto, in modo esponenziale (se man-teniamo costante l’unità di misura in centimetri, 18005 cm equi-vale a 100000 x 1805 cm). Un essere umano gigante, quindi,non può avere stazione eretta in primo luogo per motivi strut-turali: la schiena cederebbe, piedi e gambe si spezzerebbero(Gould, 1977b, p. 169), i fasci connettivali dei muscoli non sa-rebbero sufficientemente forti da compensare le oscillazionidel corpo (Moog, 1948, pp. 52-53). In secondo luogo, nellalotta contro la selezione naturale, un Homo sapiens alto 18 me-tri non avrebbe alcun vantaggio a stare in piedi poiché la mini-ma distrazione e il piú piccolo incidente provocherebbero ca-dute sicuramente letali (McMahon, Bonner, 1990, pp. 138-139): per esseri umani tanto grandi, la gravità risulterebbe es-sere troppo grave.

Come è possibile constatare dunque, la relazione tra non spe-cializzazione e dimensione corporea è molto piú stretta di quel-lo che si potrebbe pensare. Il corpo umano è generico non soloper la sua struttura ma anche per la sua grandezza poiché la no-stra sprovvedutezza nasce dalla combinazione di queste due va-riabili. Un organismo molto piccolo, infatti, può essere non spe-cializzato in termini morfologici, ma non genetici. Il caso deibatteri da questo punto di vista è paradigmatico. Come abbia-mo accennato in precedenza, si tratta della forma di vita che hamaggior successo ecologico sulla terra proprio perché ha unaforma generica in grado di adattarsi agli ambienti piú disparati(Mazzeo, in stampa). Allo stesso tempo, però, sono proprio leloro dimensioni a impedire quella lentezza di sviluppo che co-stituisce la via di ingresso della cultura nella biologia.

D’altro canto, un corpo enorme come quello dei dinosaurinon può essere generico né per forma né per ontogenesi: le li-mitazioni imposte dalla forza di gravità lo rendono un animaleradicato in una nicchia ecologica tanto specifica da imprigio-narlo in una specializzazione ancora piú rigida di quella batte-rica. Per mancare di specializzazione, una massa biologica tan-to ingombrante richiederebbe inoltre dei tempi di sviluppo

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suoi viaggi avrebbe un peso pari circa a 90 tonnellate. Ma unasimile stazza sarebbe insopportabile non solo per un essere bi-pede ma per un qualunque animale terrestre. L’altezza massi-ma che la struttura corporea umana può sopportare è di circa2,20 metri corrispondenti a un massimo di 200 chili di peso.Non è un caso infatti che la popolazione umana di maggiorealtezza, i Vatussi, superino i due metri e che il peso limite diun Homo sapiens si aggiri intorno a quella misura. Man manoche un corpo aumenta di grandezza e peso, le ossa tendono adivenire piú grandi e piú corte. Infatti, mentre lo scheletro co-stituisce l’8% del peso corporeo di un topo, per un cane la per-centuale aumenta al 13-14% e nell’animale umano arriva al18% (D’Arcy Thompson, 1961, p. 27). Il rapporto tra pesocorporeo e ingombro scheletrico, quindi, non rimane costantema aumenta con le dimensioni: è per questo motivo che gli ani-mali terrestri piú pesanti come elefanti e rinoceronti non solosi sorreggono su quattro zampe ma hanno un’ossatura tozza eimponente tale da renderli goffi e lenti. La schiena e le gambedei Broddinggians non sarebbero in grado quindi di sostenereun peso per il quale la loro struttura bipede risulterebbe ina-deguata.

L’energia cinetica, inoltre, non costituirebbe un problemasolo per i lillipuziani ma anche per i giganteschi protagonistidel secondo libro gulliveriano. In questo caso il problema ri-guarderebbe, infatti, la caduta.

Come sottolinea Gould (1977, p. 164), quando i bambinicadono a terra si fanno male molto meno degli adulti non tan-to per la plasticità del loro corpo quanto per le loro ridotte di-mensioni. In circostanze come queste, l’energia cinetica corri-sponde circa alla quinta potenza delle dimensioni lineari: ciòvuol dire che un corpo di 180 centimetri d’altezza cade conmolta piú violenza rispetto a uno di 90, una violenza che nonequivale a due volte quella patita dal corpo piú piccolo ma atrentadue (1805 infatti è pari a 32 x 905). Di conseguenza uncorpo alto 18 metri, come quello dei Brobdinggians, cadrebbein maniera ancora piú rovinosa rispetto a uno, come il nostro,che ne misura dieci volte meno: stavolta infatti non si tratta di

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processo di specializzazione: affermare dunque che il linguag-gio matura significa dire che si specializza. Si tratta ancora unavolta dell’idea, criticata piú volte (cap. I, paragrafo 3.2; II, pa-ragrafi 2, 3), che il linguaggio è un istinto la cui caratteristicaprincipale consisterebbe in un meccanismo ricorsivo, cioè l’ap-plicazione in modo infinito di un numero finito di elementi.

Al contrario, il legame tra costruzione culturale di utensili,neotenia e dimensioni corporee propone una concezione dellafacoltà del linguaggio opposta a quella chomskyana: non si trat-ta di un organo che deve maturare quanto piuttosto di un corpoche può restare immaturo.

La somiglianza genetica e strutturale tra tatto e linguaggiomostra che il carattere straordinario del linguaggio umano nonè il suo grado di specializzazione quanto la sua indeterminataplasticità, una creatività che trova il suo esempio paradigmati-co non tanto o non solo nella ricorsività meccanica (cosa chespiega, tra l’altro, perché è possibile costruire delle macchinericorsive, i computer, che però non riescono a parlare) quantopiuttosto nel bricolage: la capacità di agire, costruire strumenti,modificare il mondo. Come vedremo tra poco è proprio que-sto a rendere conto della sua comparsa evolutiva.

La facoltà del linguaggio, infatti, trova i suoi cardini geneti-ci in tre dimensioni tattili. La prima l’abbiamo vista: meno po-tente ma piú potenziale delle altre modalità sensoriali, il tattoè, come l’azione verbale, disponibile a fare tutto, ma di per sépronto a poco. La seconda sarà l’oggetto di questo paragrafo:il tatto è senso della seconda natura perché, come il linguag-gio, è intrinsecamente performativo (cfr. Mazzeo, 2002c). Ab-biamo già ricordato nel capitolo III (paragrafo 2) che toccarenon significa solo percepire ma anche agire, prendere manipo-lando: si tratta di una modalità sensoriale in realtà poco moda-le perché non specifica e poco sensoriale poiché una parte del-la sua capacità percettiva è sacrificata in cambio di maggioripossibilità d’intervento. Allo stesso modo, parlare significa in-nanzitutto agire: prima di essere rappresentazioni mentali, lapromessa e la speranza, il comando e il ricordo sono azioni checreano relazioni di gruppo e modificano stati di cose.

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probabilmente non sostenibili: sarebbero cosí lenti che la di-pendenza dei piccoli giganti dal gruppo sarebbe troppo pro-lungata.

4. Tatto e facoltà del linguaggio: la coevoluzione tramondo e ambienti

Il ruolo decisivo giocato dalle dimensioni corporee per ave-re cultura e linguaggio ha un altro importante risvolto teorico.Poiché fornisce la chiave evolutiva per comprendere la com-parsa dell’Homo sapiens e i caratteri della sua scarsa specializ-zazione, l’errore di Gulliver fornisce alcune coordinate essen-ziali per capire meglio cosa sia la facoltà del linguaggio verbale.

Piú volte abbiamo accennato a una prima alternativa teori-ca: Chomsky e Pinker, infatti, considerano la facoltà del lin-guaggio come la maturazione di un organo. Si tratta però diuna definizione fuorviante poiché, a rigor di termini, il lin-guaggio non è né un organo né qualcosa che matura. L’attratti-va di questa definizione risiede nell’illustrare un processo ine-vitabile: se prendo un limone verde, ad esempio, e non loespongo alla luce e al calore, questo non maturerà. Se lo mettoal sole, il limone diventerà giallo e sarà pronto per la nostraspremuta. Cosí come un limone esposto al sole non può chematurare, un bambino esposto a una comunità non può cheparlare. Il problema però, come spesso accade in filosofia, èciò che questa immagine presuppone. Affermare che la facoltàdel linguaggio matura significa dire due cose: in primo luogoche ha bisogno di un certo tempo per svilupparsi; in secondoluogo che dopo quel lasso di tempo il linguaggio va a regime.Queste due affermazioni sono condivisibili ma si coniugano adaltri due presupposti che, come abbiamo visto, sono inaccetta-bili: il primo che è per la facoltà del linguaggio la lunghezzadei tempi di maturazione costituirebbe un accidente sostan-zialmente privo di senso o, al massimo, un fatto esterno alla fa-coltà7. In secondo luogo, come ricorda il neurobiologo T. Dea-con (1997, p. 188), la maturazione biologica non è altro che un

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cognitive superiori solamente decine di millenni piú tardi. Per-ché l’Homo sapiens aspetta cosí tanto a farlo? Una prima ri-sposta può chiamare in causa il caso: in realtà i sapiens hannolasciato da molto prima tracce della loro azione ma queste so-no andate perse. Ma proprio perché non sappiamo come è an-data, dobbiamo formulare una teoria in grado di dar conto del-la possibilità che non si tratti di un accidente fortuito. Se soste-niamo che la facoltà del linguaggio consiste nella mancanza dispecializzazione di un corpo neotenico (in estrema sintesi: nu-do, manuale e cerebrale) che si esprime nel metter mano a unmondo, bisogna chiedersi perché per lungo tempo i sapiens ab-biano potuto non lasciare tracce durature del loro operato.

In parte abbiamo risposto a questa domanda già nel para-grafo due: poiché la facoltà del linguaggio costituisce una ca-pacità potenziale e non potente, essere in grado di parlare nonsignifica doverlo fare. Ma ciò non basta, poiché è necessarioaffrontare una difficoltà supplementare che riguarda un datodi fatto: gli esseri umano parlano. Si tratta, in altri termini, dispiegare non solo perché il processo possa non innescarsi (ibambini lupo) o possa non essersi innescato immediatamente(scarto temporale tra reperti anatomici e testimonianze di atti-vità culturali complesse) ma cosa ha fatto sí che si innescasse,come è cominciata ad attualizzarsi la facoltà del linguaggio.

Una risposta plausibile chiama in causa la struttura intrin-seca della relazione tra animale umano, mondo e ambiente poi-ché mette in connessione non solo facoltà del linguaggio e iscri-zioni rupestri ma a questi aspetti aggiunge anche gli altri duedati citati da Deacon: espansione dell’uomo moderno ed estin-zione di alcune specie animali di grossa taglia.

Come abbiamo detto, l’essere umano deve adattare a sé ciòche lo circonda poiché nasce privo di una nicchia ecologicache possa dirsi sua. Per questo motivo, è intrinseco alla condi-zione umana che la sua presenza abbia un’incidenza sull’am-biente circostante e, quindi, sulle altre specie animali e vegeta-li. Da un certo punto di vista, ogni specie incide sulla sopravvi-venza delle altre poiché la dipendenza tra le forme di vita èparte integrante della nozione stessa di ecosistema. Il caso piú

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A queste due dimensioni ne è intimamente legata una terza,che vedremo sia in questo paragrafo che nel prossimo. Come illinguaggio, il tatto è un senso intrinsecamente sociale: proprioperché di per sé è pronto a poco ma disponibile a tutto, c’è bi-sogno che qualcuno gli insegni cosa fare. È su una duplice pla-sticità infatti, performativa e sociale, che si fonda il legame ge-netico tra tattilità e facoltà del linguaggio. È proprio questaduplicità a costituire il motore coevolutivo tra facoltà del lin-guaggio e cambiamento ambientale: un circolo nel contempovizioso e virtuoso che costituisce il cardine su cui ruota la fa-coltà del linguaggio e che, per questa ragione, dà modo di com-prendere meglio la sua origine.

Nel suo ultimo libro Paolo Virno (2003) sottolinea che ilmomento storico attuale si caratterizza per un tratto specifico:flessibilità professionale, formazione permanente, trasforma-zione di un concetto di lavoro sempre piú centrato sulla pro-duzione linguistica non fanno che mettere in primo piano e te-matizzare le condizioni di possibilità della natura umana, neo-tenia e linguaggio. Si tratta di una intuizione molto suggestivapoiché consente di aggiungere a questo elenco un altro ele-mento che costituisce senz’altro una delle peculiarità del mon-do contemporaneo: l’impatto ecologico dell’azione umana.

Quella tra mondo e ambiente infatti è una opposizione con-cettuale (cfr. cap. II, paragrafo 3) che ha un suo concreto cor-rispettivo materiale. Poiché la cultura per l’essere umano costi-tuisce la compensazione di una mancanza biologica, il mondomette radici a spese dell’ambiente animale: ne sfrutta le risorsee, dunque, se questo non è sufficientemente ricco, gli sottraematerialmente spazio. Deacon (1997, pp. 361-362), ad esem-pio, mette in rilievo un dato paleontologico molto interessante:l’espansione dell’uomo moderno, l’estinzione di alcuni animalidi grossa taglia e le prime iscrizioni rupestri (indice di uno svi-luppo cognitivo e rappresentativo senza precedenti) si verifica-no nello stesso periodo, circa 65000 anni fa. Esiste un legametra questi fenomeni? La domanda non è oziosa. Un primo pro-blema è capire perché, nonostante l’Homo sapiens faccia la suacomparsa circa 150000-100000 anni fa, lasci traccia di capacità

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sedia: se è estremamente ricco, può scoraggiare massicci inter-venti culturali dei quali semplicemente non c’è bisogno (le fo-reste tropicali, ad esempio); se è molto povero, può essereugualmente scoraggiante perché rende molto difficile un inse-diamento culturale che ne modifichi la struttura (si pensi agliesquimesi nelle zone artiche).

L’impatto ecologico costituisce dunque un fenomeno che siè messo in evidenza solo di recente, grazie all’industrializzazio-ne dei paesi occidentali: ma quel sta emergendo è un elementoche si trovava già sullo sfondo, una condizione di possibilitàdella nostra forma di vita. Dire ciò non significa affermare chesia «normale» o «giusto» che l’animale umano devasti il piane-ta terra o che quella odierna sia l’unica possibile strada di svi-luppo per la nostra specie. Al contrario, ciò che vogliamo direè che porre un problema ecologico è intrinseco alla natura uma-na: come lo si affronti o se lo si affronti, è un altro discorso.

Mentre gli animali non umani nascono già in equilibrio nelloro ambiente (o già in squilibrio, se si tratta di organismi mu-tanti), l’Homo sapiens deve costruire una relazione non simbio-tica, distruttiva e riparatoria, che potremmo definire di dome-sticazione (cfr. cap. II, paragrafo 4). Da questo punto di vista,ragazzi selvaggi e impatto ecologico costituiscono due facce del-la stessa medaglia: nel primo caso un prestito biologico si infil-tra in un vuoto culturale (il bambino che, senza società, si affi-da al gruppo dei lupi), nel secondo una proliferazione culturalesi inserisce in un vuoto biologico (la scarsità di istinti tipica del-la nostra specie). Proprio perché la natura umana è innanzitut-to neotenica e potenziale, l’Homo sapiens da una parte può far-si piú animale (diventare meno sapiens e piú gazzella), dall’altrapuò ominizzare gli animali: addomesticarli e allevarli ma anchesterminarli e distruggerli.

A fare la differenza tra domesticazione e Homo ferus è lapresenza di un elemento che, come abbiamo già visto nel capi-tolo II, costituisce parte integrante della condizione neotenica,la socialità. Essa costituisce il punto di snodo del processo coe-volutivo tra mondo e ambiente: se è solo, l’Homo sapiens muo-re o si mimetizza nella prima natura (l’ambiente schiaccia il

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banale è rappresentato dal rapporto tra prede e predatori: sein un certo territorio un’epidemia decima la popolazione dileoni, nell’arco di poco tempo avremo un aumento numericodi altre forme di vita, ad esempio di gazzelle. Nel caso dellaspecie umana accade però qualcosa di differente. L’Homo sa-piens non è solo in grado di modificare un ecosistema ma di al-terarlo interamente, di incidere sull’intero equilibrio idrogeo-logico del pianeta: nella storia della terra solo un corpo nonterrestre, come il meteorite che ha decretato la fine dei dino-sauri, è stato piú devastante.

Il processo coevolutivo alla base della facoltà del linguaggiopuò esser visto infatti come un «effetto a cascata» che ha comeprotagonisti principali corpo sprovveduto e ambienti. Poichél’essere umano deve adattare a sé ciò che lo circonda, egli sfrut-ta le risorse naturali dei dintorni piegandole alle proprie esi-genze. A lungo termine, questa azione ha (o può avere) unaforte incidenza sul territorio. In questo caso, è necessario allo-ra un intervento culturale, piú radicale del primo, per otteneredalla natura ciò che spontaneamente non è piú in grado di of-frire proprio a causa dell’azione umana.

Facciamo un esempio. Mentre è probabile che la nascitadell’agricoltura sia nata come una risposta all’inaridimento delpianeta causato da un cambiamento climatico, essa ha avutoed ha tuttora un «effetto antropico» che consiste nel cambia-mento di interi habitat: distruzione di foreste, desertificazione,dissesto idrogeologico (Tattersal, 1998, p. 195). Questo nuovosquilibrio ha richiesto un altro tipo di manipolazione culturale,piú radicale della seconda (l’uso di fertilizzanti, ad esempio)che a sua volta ha come risvolto effetti antropici ulteriori (in-quinamento delle falde, impoverimento del terreno, ecc.). Que-sto esempio, nella sua rozzezza, ha come obiettivo solo quellodi mettere in luce la logica del processo: una coevoluzione che,a secondo delle circostanze, può essere devastante. La portatadell’impatto ambientale dipende infatti sia dal tipo di culturache si forma (e dunque dalle contromisure che il sistema socia-le stabilisce per organizzare lo sfruttamento delle risorse natu-rali) sia dall’ecosistema nel quale un certo gruppo umano si in-

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terialmente il tempo di differenziarsi: la socialità schiaccia l’in-dividualità perché l’unica maniera di trovare coordinazione digruppo è una rigida programmazione genetica che contenga lestesse istruzioni di base per ciascun individuo. Tra le formiche,ad esempio, il grado di individuazione è cosí basso che non so-lo non c’è differenza tra la storia che caratterizza la vita dei sin-goli animali ma, spesso, non c’è nemmeno differenza materialetra il corpo di un conspecifico e il corpo di uno strumento. Disolito gli utensili utilizzati dalle formiche sono altre formiche:è sui cadaveri delle loro consorelle che questi insetti costrui-scono ponti ed edificano scale.

Nell’essere umano la velocità di crescita degli insetti (la pro-genesi) ha un risultato del tutto diverso: poiché si combina allacrescita neotenica di un corpo dalle dimensioni molto piú gran-di, questa rapidità si traduce in un parto anticipato, nella subi-tanea esposizione al mondo. Il risultato è che, se per un versole relazioni con i conspecifici non sono programmate, per unaltro di questo rapporto si ha molto piú bisogno.

La maggiore complessità degli utensili umani, infatti, nonprevede solo una minore specializzazione corporea e manualema anche forme di collaborazione sociale. La piú lenta matura-zione del corpo umano costituisce il converso genetico dellanon specializzazione: se l’Homo sapiens può costruire attrezziperché le sue mani non sono utensili già strutturati per un solocompito (cfr. cap. III, paragrafo 4), la nostra specie li edificasocialmente perché l’altra faccia della non specializzazione è ladipendenza dal gruppo. Il sapiens ha bisogno di imparare letecniche depositate da una cultura e dunque che qualcuno glie-le insegni. Ha bisogno di farle insieme ad altri sapiens perché,anche quando ha imparato cosa fare, deve metterlo in praticasocialmente per ottenere qualche risultato: se gli utensili piúsemplici possono essere costruiti da due mani, ce ne voglionopiú di due per usarli efficacemente. Con un solo paio di mani,ad esempio, è possibile costruire una corda molto lunga. Perusarla però ce ne vogliono molte perché trasportare la carcassadell’animale catturato e dividerlo in parti richiede diversi Ho-mo sapiens. Non a caso, una delle discriminanti tra utensili ani-

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mondo); se è in gruppo, si dà man forte e, in compagnia, tra-sforma ciò che lo circonda nella propria casa (il mondo si af-ferma tra gli ambienti).

Non a caso, è proprio la combinazione tra plasticità e socia-lità che costituisce una delle differenze decisive tra utensileumano e non umano. All’interno della sua panoramica sullediverse forme di utensili nel regno animale, l’etologo Domini-que Lestel fa una osservazione molto interessante:

Uno spazio di intelligibilità delle azioni che utilizzano mediazioni si dise-gna progressivamente intorno a due opposizioni principali: le azioni so-no solitarie o collettive? Sono intelligenti o rigide? Le azioni degli insettisociali che utilizzano mediazioni sono collettive e rigide, quelle degliscimpanzé sono intelligenti e individuali – e quelle degli umani sono col-lettive e intelligenti (Lestel, 2001, p. 88).

Secondo Lestel, dunque, è possibile concepire l’attività stru-mentale umana come l’incrocio tra due modalità già esistentinella storia naturale, una tipica degli insetti, l’altra dei primati.La prima è collettiva ma rigida: i ponti delle formiche o gli al-veari delle api sono costruiti secondo uno schema programma-to geneticamente. La seconda, al contrario, è intelligente maindividuale: uno dei limiti della produzione di utensili dei pri-mati è che questa non si avvale mai dell’aiuto altrui. In entram-bi i casi, dunque, abbiamo collettività o intelligenza ma maiquella collaborazione sociale che costituisce la chiave della con-dotta umana.

Le radici di questa differenza vanno rintracciate, ancora unavolta, in fattori genetici. È impressionante notare che se l’uti-lizzo di utensili umano mescola due caratteristiche già presentinel regno animale, il tipo particolare della nostra modalità dicrescita (l’iperneotenia) è il frutto della stessa mescolanza: trala progenesi, tipica di insetti e parassiti, e la neotenia, accen-tuata tra i primati.

Come abbiamo visto parlando dell’errore di Gulliver, nonsi tratta di una coincidenza. I tempi di maturazione incidonosulle possibilità cognitive e sociali di una specie. Date le lorodimensioni e le modalità di crescita, gli insetti non hanno ma-

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male è sazio si ferma. Poiché la nostra pratica culturale è lon-geva e basata su una cronica indigenza, è piú facile che l’azio-ne umana comporti un cambiamento radicale negli habitat cuipone mano. Poiché per le scimmie la cultura assume un carat-tere opzionale, essa non ha rilevanti effetti ecologici; poichéper noi assume un valore biologico decisivo, il rapporto tra leUmwelten e le culture dei sapiens è piú delicato e può avereesiti devastanti.

Nei prossimi due paragrafi cercheremo di capire meglio l’o-rigine tattile di questi due caratteri, riflessività e ambivalenza,che caratterizzano il mondo e il linguaggio degli animali uma-ni. Analizzeremo piú da vicino in che modo per i sapiens le cu-re rappresentino un bisogno sia biologico che sociale, per poidefinire due caratteristiche morfologiche del nostro corpo, li-minarità e specularità. Dall’intersezione tra la necessità socio-biologica di cure e la struttura della nostra conformazione fisi-ca emergerà quella dinamica ambivalente che contraddistingueil linguaggio umano e che si manifesta con evidenza senza parinel monologo.

Il monologo costituisce una forma linguistica esemplare poi-ché mostra la connessione intrinseca delle due caratteristichedelle quali parleremo: è forma riflessiva perché consiste in unparlare a se stessi; è ambivalente perché tra il sé che parla equello a cui si parla sussiste un rapporto contemporaneo diesclusione (non sono gli stessi interlocutori) e inclusione (sonola stessa persona).

Come abbiamo visto nel secondo capitolo (paragrafo 3), isostenitori dell’importanza esclusiva del linguaggio per la na-tura umana insistono spesso sul suo carattere riflessivo. La suacapacità autoreferenziale, la possibilità che solo le lingue han-no di riferirsi a se stesse, è un elemento decisivo dell’autoco-scienza umana (Cimatti, 2000a). La riflessività verbale non vaintesa infatti solamente come la capacità del linguaggio di rife-rirsi a se stesso («la parola scricchiolio è onomatopeica», «quelche sto dicendo è privo di senso», ecc.) ma anche come la pos-sibilità che il linguaggio conferisce a chi la pratica di parlare ase stesso. Comprendere l’origine corporea del parlare a se stes-

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mali e umani è che solo i secondi sono utilizzati per catturareorganismi piú grandi e forti della specie che li impiega (Lestel,2001, p. 142). Il carattere accessorio dello strumento per loscimpanzé trova infatti un’ulteriore dimostrazione nel fatto chequesto viene utilizzato solo per prendere animali piú deboli,contro specie «già sconfitte» come le formiche o le termiti.

Mentre in una forma di vita specializzata come gli scim-panzé il gruppo assomiglia piú alla somma delle attitudini in-dividuali e dei loro istinti che a un sistema organizzato, nel ca-so degli animali sprovveduti la situazione è esattamente oppo-sta: poiché il saper fare dell’uno è collegato al saper fare del-l’altro (perché glielo ha insegnato, perché ognuno sa fare cosediverse, perché alcune cose possono esser fatte solo insieme), ilcollettivo cessa di essere la somma di individui senza per que-sto collassare in un sistema superindividuale come il regno del-le formiche. Si tratta piuttosto di una relazione invertita. Nonè piú il collettivo a costruirsi sull’individuale (nascita di indivi-dui autosufficienti che si riuniscono in un gruppo) ma è l’indi-viduale a emergere dal collettivo: la nascita di organismi nonautosufficienti richiede il gruppo e solo grazie ad esso ogni or-ganismo può trovare e costruire la propria individualità.

5. Prendere contatto con sé: il tatto comefondamento del monologo

La manifestazione socioculturale della facoltà del linguag-gio può essere considerata, dunque, come un processo autore-ferenziale e ambivalente che mette mano ai cambiamenti chelei stessa ha provocato: è al contempo medicina e malattia.

In primo luogo la parola e la mano sono forme di interven-to riparatorie e distruttive, che possono mandare in pezzi ciòche hanno costruito cosí come rimediare al danno provocato.Le azioni tattili e verbali contribuiscono a creare un mondo e,al contempo, hanno in sé la capacità di saccheggiare gli am-bienti circostanti. Proprio perché la pratica culturale dellascimmia si basa su un principio di appetibilità, quando l’ani-

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logici mostrano che l’intreccio ontogenetico dei diversi sistemisomestesici è legato alla necessità di esperienze tattili-corporeeper l’equilibrio biologico e cognitivo dei mammiferi. L’analisi,seppur rapida, di questi dati consente di fare un passo avantidecisivo nel confronto tra la biologia degli animali umani equella dei non umani, piú precisamente, tra mammiferi, pri-mati e Homo sapiens. Come vedremo da un lato il tatto costi-tuisce una condizione di possibilità decisiva per la vita di tutti imammiferi: privi di contatto parentale, questi sono destinatialla morte. Dall’altro il passaggio da mammiferi a primati e daprimati a umani è accompagnato dall’incremento esponenzialedell’importanza dell’esperienza tattile poiché diviene la chiavenon solo dello sviluppo biologico della specie ma anche di quel-lo sociale. Proprio perché l’Homo sapiens costituisce un mam-mifero prototipico e un primate generico (cfr. paragrafo 3) ri-troviamo nella nostra forma di vita le loro caratteristiche pri-mitive: queste, esaltate, cambiano radicalmente di senso.

Partiamo dunque dai mammiferi. Il contatto tattile post-parto (tipico, per l’appunto, di questa classe di vertebrati) nonrappresenta soltanto una generica forma di rassicurazione tramadre e cucciolo ma una vera e propria precondizione biologi-ca di sopravvivenza. Infatti «l’animale neonato deve essere lec-cato per sopravvivere» (Montagu, 1971, p. 20): se per qualchemotivo questo non accade, il soggetto di norma decede a causadi disfunzioni genitourinarie o gastrointestinali. Gli agnelli chenon vengono leccati dopo la nascita, ad esempio, non riesconoa conquistare la postura eretta e spesso muoiono. I ratti costi-tuiscono in tal senso un caso paradigmatico. Numerosi studicompiuti su questa specie dimostrano che sia stimolazioni ma-nipolative condotte in laboratorio che cure materne post-nata-li hanno un effetto decisivo: il peso corporeo aumenta (Ruega-mer, Bernstein, Benjamin, 1954; Levine, 1957; Denenberg, Ka-ras, 1959), il sistema immunitario si rafforza (Levine, 1960, p.85; Eliott, 1999, p. 140), i tempi di sviluppo sono piú veloci(Levine, 1960, p. 85), la degenerazione neuronale rallenta(Meaney et al., 1988), aumentano i comportamenti esplorativi(Ruegamer, Bernstein, Benjamin, 1954, p. 185; Sapolsky, 1997),

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si e, soprattutto, descrivere in che modo il monologo ereditiuna logica tattile significa mostrare, una volta di piú, perché ilriduzionismo linguistico è un paradigma insufficiente.

La nascita corporea del monologo, inoltre, ha una secondaragione di interesse poiché evidenzia il carattere pubblico del-la mente umana, l’origine intrinsecamente sociale della nostranatura. Mentre le scienze cognitive tendono a considerare, piúo meno esplicitamente, il dialogo come un forma monologicapoiché spesso trascurano gli aspetti contestuali della vita uma-na in nome di una sua piú proficua modellizzazione, il nostroobiettivo è mostrare il carattere profondamente dialogico delmonologo (cfr. Gambarara 2000b, p. 175-176). Il mentalismodi un autore come Fodor per il quale prima vengono le rappre-sentazioni mentali (cap. I., paragrafo 3.2) e poi il linguaggioverbale va rovesciato: la rappresentazione mentale non è il so-strato della parola ma la sua introiezione postuma da parte diun corpo intrinsecamente partecipativo. Inoltre, al contrario diPinker ad esempio, potremo dar conto di concezioni del sémolto diverse da quella occidentale: si pensi al caso dei Bo-rorò, citato nel primo capitolo (paragrafo 3.2), che si conside-rano contemporaneamente uomini e uccelli. Fonderemo que-ste diversità su un patrimonio corporeo-sensoriale comune (lastruttura bipede e implume) evitando ogni rischio di relativi-smo culturale (pericolo che Pinker non scongiura: cap. I, para-grafo 3.2).

5.1. Cure tattili

Come abbiamo visto nel primo capitolo, «somestesia» si-gnifica etimologicamente percezione del corpo e può esseredefinita come un macrosistema percettivo che comprende alproprio interno sei sottosistemi (tattile, nocicettivo, viscerale,cinestetico-propriocettivo, vestibolare e termico) deputati allapercezione del contatto, del dolore, degli stati interni, della po-sizione degli arti e del corpo, dell’equilibrio e della temperatu-ra. La somestesia costituisce un macrosistema sensoriale sfac-cettato e nel contempo fortemente integrato. Diversi dati eto-

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Quello tra madre e cucciolo non è un rapporto semplice-mente nutritivo poiché l’allattamento si inserisce in un piú am-pio repertorio di cure corporee che coinvolge diverse dimensio-ni tattili9. I cuccioli infatti dimostrano l’importanza del contattocon il corpo della madre o del suo surrogato sia in senso passivoche attivo. Per un verso le reazioni dei piccoli scimpanzé sonolegate a variazioni che riguardano il contatto passivo come tessi-tura, consistenza, temperatura e movimento: surrogati che don-dolano di panno morbido e caldo sono preferiti a bambole chesono immobili, di filo metallico, rigide e fredde (Harlow, Zim-mermann, 1959, p. 431). Per un altro verso i piccoli scimpanzéhanno l’esigenza di stare a contatto con corpi che possono esse-re facilmente afferrati sia per forma che per orientamento spa-ziale: madri di pezza con una inclinazione favorevole alla pren-sione (in posizione sagittale e con il torace verso l’alto) risultanopiú efficaci delle altre (Harlow, 1958, p. 675).

Vediamo ora cosa succede nella specie umana. In primo luo-go, dobbiamo mostrare che anche la nostra forma di vita ha unbisogno costitutivo di cure tattili neonatali. In secondo luogosarà necessario mettere in evidenza cosa distingue il nostro bi-sogno di cure da quello dei primati o dei ratti. Si potrebbeobiettare, infatti, che la dimostrazione dell’importanza dellastimolazione tattile per tutti i mammiferi non prova la sua im-portanza specifica per l’Homo sapiens poiché si tratta, per l’ap-punto, di una necessità generale che appartiene alla classe divertebrati cui apparteniamo.

Cominciamo dal primo punto. Il bisogno di contatto dellanostra specie è dimostrato da una deprivazione tattile, tuttaumana, che riguarda il parto (per evidenti motivi etici, è im-possibile riproporre nell’animale umano gli stessi esperimenticompiuti su ratti e scimmie). Una serie di studi (Montagu, 1971,pp. 43-63; Simion et al., 1996) ha confrontato bambini nati se-condo parto vaginale e bambini nati da parto cesareo. Da unpunto di vista percettivo-stimolativo la differenza tra i due casisi è rivelata notevole. Come la gravidanza (cfr. cap. II, para-grafo 4), nella specie umana anche il travaglio è molto piú pro-lungato rispetto a quello animale poiché condensa in sé quella

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le situazioni di stress risultano meno nocive grazie allo svilup-po equilibrato del sistema ipotalamico-pituitario (Levine, 1960;Liu et al., 1997; Caldji et al., 1997), la durata della vita general-mente incrementa8. Mentre cure tattili hanno effetti neurosta-bilizzanti su ratti privi della tiroide e possono controbilanciar-ne lo squilibrio ormonale, esemplari deprivati di ogni contattorisultano incapaci di costruire il nido e di avere rapporti socia-li con i conspecifici. Anche in questo caso, l’esito piú comuneè una morte prematura di solito causata da lesioni organichecardiovascolari o gastroenteriche (Montagu, 1971, pp. 25-31).Tra i sottosistemi somestesici sussiste quindi una forte connes-sione ontogenetica: la stimolazione tattile-termica incide sullosviluppo dei sistemi viscerali, dell’equilibrio e, piú in generale,del corpo.

Se spostiamo la nostra attenzione sui mammiferi piú neote-nici, i primati, scopriamo che su di essi gli effetti della depriva-zione tattile hanno un impatto sociale ancora piú accentuato.

Gli studi ormai classici di Harlow (1958; Harlow, Zimmer-mann, 1959; Harlow, 1962) sul rapporto cucciolo-madre nellescimmie danno ampia conferma di questa ipotesi. Lo studiosoamericano ha dimostrato che per i cuccioli, nel corso dello svi-luppo, i genitori non costituiscono semplicemente fonte di nu-trimento e scudo di protezione dagli agenti naturali. Soggettiallontanati dalla madre ma nutriti artificialmente sviluppanoinfatti comportamenti asociali, instabilità affettiva e impossibi-lità alla vita di gruppo. L’aspetto piú interessante consiste nelfatto che questi disturbi si presentano in grado minore se, alposto del semplice biberon, viene messo nella gabbia uno scim-panzé di pezza mentre rimangono inalterati quando il sostitutomaterno è composto da filo metallico. Quel che manca al cuc-ciolo non è semplicemente il cibo ma il contatto corporeo. Lastimolazione tattile sollecitata dalla bambola di pezza, riscalda-ta da una lampada situata al suo interno, soddisfa almeno inparte la necessità di cure del piccolo scimpanzé e compensameglio (a volte del tutto) l’assenza della madre: il reinserimen-to sociale risulta piú facile, anche se la possibilità di rapportisessuali rimane spesso pregiudicata (Harlow, 1962, pp. 6-8).

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sere umano il valore di queste esperienze cambia, o meglio, sicronicizza. Per il piccolo sapiens la necessità di cure tattili as-sume un significato differente per due ragioni, una temporale,l’altra spaziale. Quella temporale l’abbiamo già esaminata: laduratura immaturità del corpo umano richiede infatti che lecure parentali, necessarie per tutti i neonati mammiferi, siestendano e si prolunghino durante tutta la vita dell’essereumano (cfr. cap. II, paragrafo 4; ma anche cap. IV, paragrafo6.2). Dobbiamo ancora soffermarci, invece, su quella spaziale.Grazie alla sua immaturità, il corpo ultraneotenico racchiudein sé infatti due proprietà: la liminarità di un corpo nudo e laspecularità di una struttura simmetrica.

Come abbiamo visto nel secondo capitolo (paragrafo 3.4),Lorenz apre una delle sue opere piú significative affermandoche il corpo di un organismo rappresenta una sorta di immagi-ne dell’ambiente in cui vive: la pinna è immagine dell’acqua incui si muove, l’ala è un calco della sostanza, l’aria, nella qualesi insinua. Nel caso dell’Homo sapiens, invece, il corpo non èimmagine di un ambiente che non ha ma di se stesso, non ècalco ma, potremmo dire, specchio. Sarà proprio la specularitàriflessiva della nostra morfologia uno degli elementi che ci faràcomprendere meglio l’origine corporea della riflessività ambi-valente che caratterizza la nozione di mondo.

5.2. Il corpo allo specchio

Come abbiamo accennato nel capitolo II (paragrafo 4), laforma corporea umana mostra alcuni caratteri specifici: si con-figura come una struttura liminare (intersoggettiva e dialogica)e speculare (riflessiva e monologica). Questi due aspetti sonoparticolarmente importanti poiché mostrano il carattere intrin-secamente riflessivo del corpo e delle mani. Per un verso il no-stro corpo è nudo e indifeso poiché privo di scaglie e squame,peli o aculei. Per un altro verso è piú esposto e, dunque, sensi-bile poiché il contatto con il mondo è diretto o quasi, mediatosolo da una sottile peluria. In questo senso è possibile afferma-re che la specie umana è protagonista di quello che potremmo

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funzione stimolativa di solito affidata negli altri mammiferi alcosiddetto «leccamento post-natale». Durante il parto vaginaleil bambino è a stretto contatto con l’utero materno. Diverse ri-cerche hanno confermato che la stimolazione tattile che ne de-riva ha un importante effetto biologico-cognitivo sui neonati:rispetto ai nati da parto cesareo, è possibile osservare maggiorereattività e frequenza nel pianto, un’acuità sensoriale piú alta eminor tasso di disturbi emozionali e di mortalità soprattutto inrelazione a deficit respiratori. I bambini prematuri o nati daparto cesareo (quindi, in entrambi i casi, con travaglio breve oassente) sono affetti molto piú frequentemente da disturbi ga-strointestinali, genitourinari, respiratori e mostrano spesso unritardo nel controllo posturale, motorio, buccale e manuale. Iltravaglio non costituisce quindi, come la sua etimologia lasce-rebbe desumere (tripalium = strumento di tortura a tre pali),un inutile tormento o un semplice trauma (Pinker, 1994, p.308) quanto un indice del fatto che la stimolazione cutanea co-stituisce una condizione di possibilità della nostra esistenza:nel contatto con l’utero il corpo del neonato riceve quelle pres-sioni su labbra, viso e corpo in grado di attivare le funzioni vi-scerali e gli organi interni.

Il travaglio si configura cosí come la prima forma di curatattile in cui si mescolano, come sarà anche nella vita futura,piacere e dolore, sensazioni termiche e di contatto, attivazioniviscerali e posturali: per questa ragione la sua assenza deve es-sere compensata da una successiva sovrastimolazione. La na-scita stessa si configura come un momento di sviluppo poichécostituisce un episodio somestesico decisivo per la sua futuraincidenza emozionale e cognitiva.

Come accennavamo all’inizio del paragrafo, questo esem-pio è interessante poiché mostra che tra l’ontogenesi umana equella animale sussiste un rapporto caratterizzato da elementidi somiglianza10 e differenza. La somiglianza consiste nel fattoche la stimolazione tattile è decisiva per tutti i mammiferi, Ho-mo sapiens incluso: alcune esperienze somestesiche si rivelanoimprescindibili per la costruzione del primo fondamento delsé, il corpo. Ma nel caso di un essere ultraneotenico come l’es-

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pesante, a una scena sconvolgente ma anche a un crampo in-volontario associato alla fame; le sensazioni muscolari e postu-rali possono essere indotte da una caduta ma costituiscono an-che lo sfondo, continuamente presente, che caratterizza lo sta-re seduti, in piedi o sdraiati; il dolore può essere causato da uncolpo inferto dall’esterno o da uno stato patologico interno(per le cause del dolore: Schwob, 1994, pp. 26 sgg.). Assistia-mo cioè a una permeabilità percettiva che, a prescindere daogni strumento verbale, conferisce al nostro corpo trasparenzae accessibilità12: è questa doppia reattività, interna ed esterna,che consente un trasferimento analogico tra le mie esperienzee quelle altrui e che permette di stabilire corrispondenze traavvenimenti nel mondo (ad esempio una puntura) e stati per-cettivi-emozionali (dolore, fastidio). Il corpo umano pertantonon costituisce una sfera inaccessibile e oscura ma una portasemiaperta che permette di essere spiata e compresa dagli altrie da noi stessi.

Lo accennavamo in precedenza, il carattere intrinsecamen-te riflessivo dell’essere umano affonda le proprie radici in un’al-tra proprietà fondamentale del nostro corpo, la specularità.Come osserva il filosofo italiano Luigi Scaravelli (1968), le par-ti che lo costituiscono, infatti, si articolano per «opposizioneincongruente» poiché sono entità simili ma non sovrapponibi-li: se dividiamo il nostro corpo a metà con una linea verticaleche procede dall’alto verso il basso, possiamo constatare cheper un verso le due parti sono simili poiché costituite da unastessa successione di elementi (narice, orecchio, guancia, brac-cio, anca, ecc.), mentre per un altro sono diverse perché, se so-vrapposte, esse non coincidono (la parte sinistra è orientata inmodo opposto rispetto alla destra). Questa simmetria opposi-tiva è la paradossalità che caratterizza lo spazio umano: è ciòche ne fa non una struttura geometrica assoluta e senza versoma un’esistenza orientata (Mazzeo, 2001a). L’opposizione in-congruente della destra e della sinistra è elemento fondantedella riflessività umana poiché costituisce una struttura lette-ralmente speculare. Sentendo, ad esempio, i muscoli e i tendi-ni del braccio destro e quelli del braccio sinistro è possibile co-

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definire «un baratto evolutivo»: minor protezione in cambio disensibilità tattile maggiore, cioè meno specializzata. La stessapostura eretta può esser interpretata secondo questa chiave dilettura poiché la riduzione di velocità nella fuga e le conseguen-ti difficoltà nell’arrampicarsi sono compensate dalla libertà con-quistata dalle mani. Queste frantumando i cibi rendono possi-bile la diminuzione del lavoro masticatorio a carico delle man-dibole permettendo, insieme alla scesa della laringe, maggiorefacilità articolatoria e modulazione sonora (Liebermann, 1991).

L’essere umano si configura come un animale meno protet-to rispetto agli altri ma piú predisposto a percepire e a comu-nicare. La pelle umana assume un significato peculiare poichénon costituisce tanto (o solo) un baluardo difensivo (è delimi-tazione del corpo che si rivela fin troppo esposta agli agentiesterni), quanto piuttosto un sistema osmotico di scambio (Da-masio, 1994, p. 314). In altre parole, la cute umana non costi-tuisce una barriera ma quello che il filosofo della scienza Silva-no Tagliagambe (1991; 1997; 2002) chiama un confine, cioè unsistema che svolge una funzione complessa che, contempora-neamente, allontana e avvicina l’animale umano da ciò che locirconda: separa il corpo distinguendolo da quello altrui; lomette in contatto con il mondo che lo circonda; seleziona glistimoli ambientali organizzando i presupposti delle prime for-me di comunicazione tra l’organismo e il suo habitat. Comevedremo meglio nel prossimo paragrafo, proprio sul carattereliminare del corpo umano affonda le radici la soggettività mo-nologica e dialogica propria della nostra specie: ogni azione,anche il parto, si configura da subito come una forma di oppo-sizione allo stesso tempo antagonistica e partecipativa tra ilneonato e la madre, tra il sé e il mondo. Proprio per questomotivo, le esperienze somestetiche costituiscono il fondamen-to del sé corporeo11 senza assumere per questo un carattereprivato o impermeabile alle menti altrui. Si tratta infatti di sen-sazioni provocate da fonti sia interne che esterne: l’alterazionetermica può essere indotta da un fiammifero posto vicino albraccio ma anche da una infiammazione interna o cutanea; lacontrazione dello stomaco può esser dovuta a un pasto troppo

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suo palmo troviamo speciali recettori nervosi che grazie alla lo-ro sensibilità e velocità conduttiva permettono di esplorare ilmondo con molta piú precisione rispetto al tatto passivo (cfr.Negri Dellantonio, 1994).

Nella mano la liminarità del corpo si esalta poiché essa mol-tiplica le sue capacità sensibili: non solo, come abbiamo visto(cap. III, paragrafo 3), i suoi movimenti esplorativi incremen-tano del 50% la capacità di riconoscere le forme rispetto al tat-to passivo, ma la loro sensibilità è 35 volte superiore ad altreparti del corpo, come ad esempio la schiena (Darley et al., 1984,p. 101), e la mobilità che le è propria dà accesso a parti dell’u-niverso per l’animale umano altrimenti inarrivabili.

Se con la vista è possibile dominare ampi orizzonti e con-trollare distese panoramiche, è solo con il tatto che è possibileriparare e conservare. Mentre la vista può solo «tener d’oc-chio», è con il tatto che ci si prende cura di sé e dell’altro. Nelsuo aspetto piú operativo, la manualità costituisce un presup-posto fondamentale per dialogicità e monologicità poiché que-sti termini non devono esser intesi semplicemente come collo-quio o confronto ma come intervento attivo, irruzione perfor-mativa (sia distruttiva che riparatoria). Il pugno e la carezza,cosí come l’autolesionismo o l’autoerotismo, sono testimonian-ze di uno scambio inter o intrapersonale complesso che rendepiú dinamico il rapporto tra diverse esistenze e tra le compo-nenti di un’unica vita.

Le mani costituiscono la massima espressione anche dellaseconda peculiarità dello spazio umano (Scaravelli, 1968): a es-sere speculare è l’intera struttura ma, per scorgere direttamen-te l’impossibilità della coincidenza delle due metà che la com-pongono e il carattere orientato del nostro spazio, possiamosovrapporre con comodità solo le mani. Queste, come ricordaHenry Focillon (1943, p. 108), «non sono una coppia di ge-melli passivamente identici» poiché solamente con gli arti su-periori è possibile congiungere le due estremità opposte delcorpo tramite il contatto tra il palmo destro e il palmo sinistro(non a caso, una delle posizioni tipiche della preghiera e dellaautoriflessività che la contraddistingue: cfr. Virno, 2003).

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gliere un’altra forma di riflessività intrinseca all’animale uma-no che procede sempre per opposizione: non si tratta in que-sto caso di notare il contrasto tra uno sforzo (quello esercitatodal nostro corpo) e una resistenza (quella dei solidi che ci cir-condano) quanto l’analogia e la contemporanea differenza diorientamento del corpo che si muove nella sua bilateralità. Nel-l’abbraccio tra la destra che si unisce alla sinistra liminarità especularità si incontrano. Nell’abbracciare un corpo estraneonon incontriamo solo un alter ego, ma, riconoscendo il confineche ci separa e che ci mette in contatto con questo, incontria-mo noi stessi.

Questa duplice caratteristica del nostro corpo non è solosomestesica poiché la ritroviamo anche nelle mani: stavolta,però, liminarità e specularità non si manifestano piú in modogenerico e diffuso, bensí in forme precise e localizzate. Le ma-ni costituiscono in tal senso la concentrazione delle proprietàdel corpo umano in un organo dedicato. Vediamo brevementeperché.

Per un verso le estremità superiori sono elementi corporei atutti gli effetti (sono come le gambe o le narici): hanno unastruttura simmetrica per opposizione incongruente e, allo stes-so tempo, sono superfici lisce e indifese, prive di scaglie o acu-lei. Per un altro verso, le mani rappresentano la magnificazio-ne del corpo sia nella dimensione liminare che in quella sim-metrica. È proprio nelle mani che la percezione tattile some-stesica, che coglie forme e oggetti solo in modo passivo e gros-solano, può farsi attiva e focalizzarsi nella percezione aptica(cfr. cap. III). Con le estremità superiori non solo siamo in gra-do di percepire per contatto diretto gli oggetti che ci circonda-no (sentendone impressi, in modo ancora somestesico, i con-torni nella pelle) ma possiamo afferrarli cingendoli tra le dita.In questo movimento attivo, siamo in grado di percepire si-multaneamente la forma tridimensionale (stereoplastica) del-l’oggetto ma anche la sua tessitura, la sua temperatura e la po-sizione che occupa rispetto al corpo. La mano rappresenta perquesto un unicum neurofunzionale: solo la sua struttura artico-lata permette di manipolare e aver presa sugli oggetti; solo nel

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trinseco a quel che nel paragrafo 2 abbiamo chiamato domesti-cazione. Per un verso ciò che circonda l’animale umano gli ap-partiene, costituisce parte di lui poiché è il frutto della sua atti-vità costruttiva. Per un altro il mondo rimane un fuori, un luogoesterno con il quale confrontarsi e scontrarsi quotidianamente:la costruzione non è mai definitiva e sempre revocabile, le altreforme di vita continuano a riprodursi e a vivere.

Il travaglio di questa relazione si incrocia con il rapporto,altrettanto complesso, tra individualità e collettività umana.Anche in questo caso, l’ambivalenza si muove lungo due di-mensioni contrastanti e complementari. Da una parte ognunodi noi possiede un corpo liminare che, nella sua nudità, ha bi-sogno piú degli altri organismi di essere curato dai conspecifi-ci: come abbiamo visto, se le cure tattili costituiscono una con-dizione intrinseca alla biologia dei giovani mammiferi, per l’es-sere umano questo diviene un aspetto cronico perché cronicaè la sua giovinezza. Da questo punto di vista, il corpo umano èmeno individuale e piú sociale rispetto a quello delle altre for-me di vita. La sua riflessività, per riprendere l’idea di Lorenz,non rispecchia un ambiente ma i suoi conspecifici perché hacome soggetto privilegiato il genitore e la società, i donatori dicure parentali: quello umano è, per questo motivo, «un anima-le affamato e assetato di riconoscimento simbolico» (Gamba-rara, 2003, p. 227).

Dall’altra parte quello umano è un corpo che, come detto,si articola per opposti incongruenti. In tal senso è intrinseca-mente speculare in modo del tutto diverso: è un corpo piú ri-flessivo degli altri perché è in grado di autoavvertirsi, perché ècapace di prendere atto di sé grazie alla plasticità delle suemembra, in particolare del tatto aptico-manuale. Da questopunto di vista, la sua è una riflessività autoreferenziale: non èsemplicemente un «corpo specchio» ma un corpo che spec-chia se stesso, un corpo fortemente individuale perché è sullabase della sua morfologia che può prendere atto della propriaesistenza13.

Proprio perché liminare e riflessivo, il corpo umano è alcontempo massimamente individuale e massimamente sociale:

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Le mani non solo possono afferrare gli oggetti esterni masono in grado di avvicinarli portandoli in prossimità del cor-po. Nelle azioni di presa, esaltate proprio dalla loro opposi-zionalità incongruente, esse svolgono, per utilizzare un’e-spressione di Heidegger (1927), una doppia funzione di «di-sallontanamento» cui corrisponde una doppia monologicità.Per un verso, avvicinando oggetti lontani dal tronco, le maniconferiscono all’animale umano piena tridimensionalità, necompletano il sé corporeo grazie alla manipolazione e allapercezione stereoplastica. Allo stesso tempo permettono quel-la operatività sul mondo circostante e sul proprio sé che per-mette di modificare gli oggetti e non piú solo contemplarli oascoltarli. Si tratta di un disallontanamento che permette cioèun duplice rispecchiamento: in senso spaziale avvicina l’ani-male umano a se stesso consentendogli di riconoscersi a fon-do nella propria specularità; in senso emotivo avvicina l’ani-male umano al mondo che lo circonda poiché gli consente dimodificarlo a sua immagine e somiglianza, di sentirlo comeparte di sé.

5.3. Tatto, logica partecipativa e parlare a se stessi

La liminarità e la riflessività della morfologia umana consen-tono di chiarire con maggior precisione l’origine tattile della fa-coltà del linguaggio e, quindi, la coevoluzione tra mondo e am-bienti della quale abbiamo cominciato a parlare nel paragrafo 4.Un primo aspetto dell’ambivalenza che struttura il rapporto tral’essere umano e il suo mondo è già stato analizzato: come ab-biamo visto, si tratta del processo genetico nel quale ad altreforme di vita vengono sottratte porzioni dei loro habitat per ave-re materiale da costruzione del mondo umano, in un processocontinuo e reciproco di riparazione e devastazione. Ma a questoaspetto ne va aggiunto un altro che non riguarda l’espansionedel mondo umano, cioè il momento in cui l’ambiente si fa mon-do, ma il rapporto tra l’Homo sapiens e ciò che mondo è già di-venuto. In questo caso l’ambivalenza si esprime in un rapportodi contemporanea appartenenza ed estraneità che si rivela in-

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linguaggio in tal senso risponde a entrambe le necessità poichéconsiste in una presa di contatto a distanza e, contemporanea-mente, in una distinzione nella vicinanza. È proprio grazie allinguaggio che è possibile, infatti, stare vicini rimanendo lonta-ni e allontanarsi mantenendo prossimità fisica: sono dall’altraparte della vallata e, sfruttando l’eco, ti dico cosa succede oltrela montagna; abbiamo litigato e nulla crea distanza piú gravedel non rivolgersi parola.

Dall’altra parte il linguaggio non può sciogliere il contrastodal quale trae origine poiché cura e curiosità, dipendenza e au-tonomia sono termini mai del tutto conciliabili. Per questa ra-gione, il linguaggio ha, lui stesso, una struttura partecipativa e,pertanto, un carattere liminare e riflessivo. È liminare perché,come la mano, è esperienza del limite: se la plasticità del corpoumano esprime fragilità, l’elasticità del linguaggio verbale tra-disce la labilità della mancanza di una nicchia ambientale. Lasua liminarità lo espone dunque alla percezione: non è solo unriparo che esonera un corpo nudo da una sensibilità altrimentiinsostenibile, ma è una porta che apre a nuove dimensioni del-l’esperienza: il sommelier che assapora i vini, le mostre di pit-tura, i concerti musicali ma anche l’equilibrio del funambolo eil rituale del fumatore ne costituiscono la piú ampia dimostra-zione (si tratta di un tema, quello della percezione di secondoordine, che vedremo tra poco nei paragrafi 6-6.2). Il linguag-gio verbale è riflessivo perché intrinsecamente metalinguistico:la capacità di raccontare avvenimenti e riferire le parole altrui,di riprendersi e correggersi ne costituiscono, insieme allaperformatività (paragrafo 4), la sua principale caratteristica di-stintiva14. L’origine della capacità metalinguistica verbale, in-fatti, non è una procedura ricorsiva modulare che poi si gene-ralizza (l’idea di Hauser, Chomsky, Fitch, 2002) quanto piutto-sto il ripiegamento su se stessa di una struttura intrinsecamen-te partecipativa che, cosí facendo, acquista maggiore focalità.

Non a caso, liminarità e riflessività si mettono in evidenzanelle esperienze di crisi. Nei momenti di scacco, durante i qua-li i nostri progetti falliscono, le previsioni si rivelano sbagliatee il mondo umano svela la propria precarietà, la struttura par-

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questa è l’ambivalenza fondamentale di cui si nutre. La tattilitàumana è infatti intrinsecamente partecipativa: invece di segna-re il contrasto tra individuo e gruppo o stabilire una sempliceconvergenza d’indirizzo essa tradisce la complementarietàstrutturale tra l’autonomia di un corpo speculare e la dipen-denza di una morfologia liminare.

Su questa base tattile e neotenica, il linguaggio trova il suoluogo di origine. L’aspetto che ci preme sottolineare è che, na-scendo in un alveo partecipativo, il linguaggio sviluppa a suavolta una struttura partecipativa. Sin dal primo paragrafo, ab-biamo accennato al fatto che il rapporto tra tatto e linguaggiopuò esser concepito come una relazione di cura e malattia. Co-me il corpo umano nasce sprovveduto (liminare e riflessivo) eha bisogno di vestiti, cosí la biologia umana nascendo poveraha bisogno di una ricchezza culturale che la sostenga. Il lin-guaggio a tal proposito costituisce una cura: riempie ciò che èvuoto, copre ciò che è nudo. Prolunga a distanza, estende nel-lo spazio e nel tempo il soddisfacimento di contatto di cui habisogno ogni piccolo umano. Si tratta di specificare, però, diche cura si tratti. Chi considera il linguaggio come una formadi specializzazione, ad esempio, sembra concepire questa for-ma di cura come un vaccino, in grado di immunizzare una vol-ta per tutte la natura umana dalla sua costitutiva precarietà.Purtroppo (o, meglio, per fortuna) non è cosí. Religione e pre-ghiera, magia e superstizione, attività ludica e disagio mentaledimostrano che la parola non basta a eliminare una fragilitàche è alla radice (cfr. paragrafo 6.2). Come abbiamo già visto aproposito del suo rapporto originario con gli ambienti in cui siinsedia, il linguaggio costituisce piuttosto una cura omeopati-ca, un farmaco nel senso etimologico del termine: medicina eveleno, soluzione e problema.

Da una parte il linguaggio dà quel sostegno che sostituisceed esonera una intimità tattile troppo prolungata per essere so-stenibile poiché rischierebbe di mettere in cortocircuito duecaratteristiche chiave dell’immaturità neotenica: la necessità dicure e il bisogno di esplorazione. Se la fragilità richiede prossi-mità, la curiosità non può che realizzarsi nella separazione. Il

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A si oppone ad A e non A

La mano si oppone al corpo che la comprendeIl singolo si oppone al gruppo di cui ha bisognoIl singolo si oppone al mondo che è parte di sé

Il mondo si oppone agli ambienti nei quali si insedia

Come già osservava il linguista danese Hjelmslev (1928;1935; 1937), la logica partecipativa non individua né contrap-pone un termine negativo a uno positivo quanto descrive la con-temporanea distinzione e compenetrazione tra una parte e untutto, tra un elemento intensivo e uno estensivo, tra un’idea de-finita e una indefinita15. Il monologo si articola proprio secon-do questa logica. Se riprendiamo le proprietà del linguaggio in-teriore individuate da Vygotskij nell’ultimo capitolo di Pensieroe linguaggio, è possibile affermare che il monologo si differen-zia dal dialogo per le seguenti caratteristiche:

1) La sintassi è telegrafica e predicativa;2) La fonazione è spesso ridotta o assente;3) È presente una tendenza agglutinante che accorpa tra loro i

termini linguistici;4) Il senso, il valore contestuale, delle parole domina sul loro

significato, cioè sul loro valore piú stabile e intersoggettivo;5) Le leggi di unione semantica sono quelle tipiche dei sensi e

non quelle dei significati: sono dinamiche e fluttuanti. Unprocesso di originalità semantica rende l’idioma riflessivointraducibile.

Questi cinque punti dimostrano che il monologo si distin-gue per un continuo processo di identificazione-distinzioneche appare incomprensibile se analizzato in termini di non con-traddizione. Nel parlare a noi stessi ci troviamo di fronte a duetermini, a uno sdoppiamento dell’Io, che permette lo scambiocomunicativo tra me e me stesso. Si tratta di un gioco linguisti-co che non è cognitivamente vuoto: nel monologo mi sorpren-do per ciò che dico, giungo a conclusioni prima incerte, mettoa fuoco pensieri fino ad allora confusi. Cercare di ricondurre il

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tecipativa del linguaggio emerge con pienezza. Come accenna-vamo in precedenza, il monologo costituisce da questo puntodi vista un esempio paradigmatico. Lo psicologo russo L. Vy-gotskij (1896-1934) osserva che, sia nei bambini che negli adul-ti, il parlare a se stessi è una pratica che emerge soprattutto neimomenti di difficoltà: quando i conti non tornano, l’animaleumano comincia a parlarsi. Questa idea è confermata dalla no-stra esperienza quotidiana. Quando parliamo a noi stessi? Nelmomento in cui stiamo per perdere il controllo della situazio-ne: non troviamo le chiavi di casa e, disperati, ricostruiamo inostri ultimi movimenti perché non riusciamo a ricordare do-ve le abbiamo lasciate; nel pianto ripetiamo a noi stessi quelloche è successo; nel montare la libreria controlliamo le parti dicui non capiamo l’utilità ripercorrendo ad alta voce le tappedell’assemblaggio. Proprio perché è un esperienza liminare, ilmonologo è luogo di emergenza della struttura profonda dellinguaggio verbale, una terminazione senza guaina dell’elettri-cità che scorre al suo interno.

Per capire meglio in che senso il monologo è un punto sco-perto che manifesta la struttura ambivalente del mondo uma-no, dobbiamo ancora precisare, però, in cosa l’ambivalenzaconsista. Questa può esser definita come una opposizione chenon si svolge secondo la legge di non contraddizione ma se-condo un principio che l’antropologo Lévy-Bruhl (1910; 1927)definisce di «partecipazione»: un termine (A) non si contrap-pone alla propria negazione (non A) ma alla congiunzione trasé e la propria negazione. Le ambivalenze che abbiamo descrit-to in questo paragrafo e in quello precedente possono essereriassunte nel modo che segue:

A è uguale a non A

La mano è il corpo perché ne è la focalizzazione tattileIl singolo è il gruppo perché non può essere umano senza di lui

Il singolo è il mondo perché è la sua dimensione vitaleIl mondo umano non può fare a meno degli ambienti animali

e insieme:

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(De Martino, 1973); il linguaggio schizofrenico e infantile pre-concettuale (Vygotskij, 1934); il gioco (Piaget, 1945) e i mecca-nismi onirici di simbolizzazione (Matte Blanco, 1975, 1988); lametafora e la percezione sinestetica (Mazzeo, in preparazione).

Come accennavamo prima, infatti, il monologo non riguar-da solo un periodo limitato (l’infanzia) ma tutta la vita di unessere la cui infanzia è cronica: il sistema partecipativo non co-stituisce una semplice tappa del nostro sviluppo onto- e filoge-netico poiché, al contrario, ne rappresenta la struttura, il fon-damento di una immaturità che non desiste. Per questa ragio-ne, è possibile applicare alla logica partecipativa ciò che affer-ma Portmann (cap. II, paragrafo 3.3) a proposito della visionetolemaica del mondo: entrambe «non stanno lí per essere so-stituite da altre, piú adatte a una forma matura di vita e quindipiú «giuste»» (Portmann, 1959, p. 178). Si tratta piuttosto diun «patrimonio ereditario della natura umana che non dobbia-mo barattare con qualcosa d’altro» (ibidem).

Che il linguaggio sia cura omeopatica alla fragilità neoteni-ca e non vaccino specializzato della nostra condizione è dimo-strato dunque dalla scarsa coesione di un’identità personaleche continuamente si fa e si disfa, che per tenersi insieme habisogno di un continuo lavoro di tessitura narrativa: ha biso-gno di raccontare e raccontarsi, di ascoltare e ascoltarsi, di par-lare a se stessi e agli altri. Proprio perché non abbiamo un or-gano del linguaggio localizzato e non possiamo individuare inun punto del corpo la sede del nostro Io, non abbiamo mai uncompleto e definitivo controllo sulle nostre azioni, sui nostriimpulsi, sulle spinte emozionali. Proprio perché non è semprepadrone di sé, l’animale umano può avere qualcosa da dire eda dirsi: se ingabbiati nel totale controllo delle contraddizionidella logica classica (il calcolo elettronico-seriale) o sciolto nelcaos della partecipazione pura (la sindrome schizofrenica), mo-nologo e dialogo perdono gran parte del loro senso (cfr. Pen-nisi, 2002; Pennisi, Cavalieri, 2002).

Sia il corpo che il linguaggio umano si caratterizzano dun-que per la loro mobile plasticità: come il somestesico si focaliz-za nella mano senza ridursi a percezione aptica, cosí la plura-

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corso della dinamica monologica nei binari del «quale sono deidue? O l’uno o l’altro» significa precludersi la possibilità dicomprendere l’aspetto piú centrale del fenomeno. Al contra-rio, la relazione che sussiste nel monologo tra la voce che parlae l’altra che le risponde è partecipativa poiché mi oppongo aun contraltare che allo stesso tempo è e non è me:

A è non A(Io sono anche l’altro che mi risponde)

e insieme:

A si oppone a A e non A(Il Tu si oppone all’ Io che lo comprende)

Come la mano che prima si distacca dal fianco e poi si ri-congiunge con il corpo cui appartiene, nel monologo parteci-po e mi oppongo a me stesso, prendo contatto con me inprofondità proprio perché mi allontano e mi rincontro. È pro-babilmente a una logica partecipativa che Vygotskij (1934, pp.172-176) fa riferimento parlando della legge semantica basatasui sensi che regola il linguaggio interiore16. È per questo moti-vo che la limitata verbalizzazione fonetica e il carattere aggluti-nante della sintassi non rivelano semplici forme riassuntive,contrazioni di un flusso verbale lineare che in qualche modo lesottende (come precisa lo psicologo russo, il linguaggio inter-no non è il linguaggio esterno meno la voce). Il linguaggio in-terno manifesta piuttosto quel flusso originario e partecipativoda cui poi si cristallizzano i significati e i concetti scientifici de-finibili in termini di condizioni separatamente necessarie e con-giuntamente sufficienti.

A volte, quando il mondo umano è ben saldo, le opposizio-ni partecipative si addensano lungo contrapposizioni piú nettee definite, come quelle della logica classica, nei linguaggi scien-tifici o nei calcoli formali. Altre volte, quando la nostra esisten-za è minacciata, ciò si rivela impossibile o piú difficile: ne co-stituiscono esempi ulteriori il pensiero primitivo (il caso deiBororò di cui abbiamo parlato nel primo capitolo) e magico

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contrario, si tratta, come abbiamo cercato di suggerire piú vol-te, di una relazione di solidarietà: la cultura si incunea nel vuo-to lasciato dalla biologia dando un sostituto (un mondo) di ciòche all’animale manca (un ambiente). Come abbiamo accenna-to nel secondo capitolo (paragrafo 3.2), il linguaggio ha, per ri-prendere un’espressione di Gehlen, una funzione di «esone-ro»: consente di filtrare un flusso percettivo altrimenti letale.L’indeterminatezza di un corpo nudo e la mancata specializza-zione di un essere in primo luogo tattile è ciò che consente lafuga da ogni nicchia ambientale. Nel contempo la mancanza diun habitat rischia di trasformarsi in una doccia stimolativa nonsopportabile. Il linguaggio e i rapporti sinestetici hanno la fun-zione di filtrare il flusso percettivo, organizzandolo: offrono lapossibilità di avere certezze e punti di riferimento, evitano diandare a controllare. Ma, come abbiamo accennato nel para-grafo precedente, la relazione di esonero è solo una delle mo-dalità del rapporto tra linguaggio ed esperienza. Questa azionefocalizzatrice non ha solo un effetto, potremmo dire, sottratti-vo perché non agisce solo da filtro. La solidarietà tra esperien-za tattile e linguaggio non esprime una fondazione a senso uni-co: per un verso l’esperienza tattile, poiché riflessiva e limina-re, fonda il linguaggio; per un altro il linguaggio dà la stura adimensioni tattili inedite poiché oltre ad esser riflessivo è an-ch’esso intrinsecamente liminare. Questo tipo di esperienzatattile, che Paolo Virno propone di chiamare di «secondo gra-do», non è la stanca ripetizione della prima, né una pallida imi-tazione sensibile del linguaggio:

Le sensazioni post-verbali, cioè di secondo livello, non hanno piú il com-pito di «esonerare» (Gehlen) il comportamento dell’animale umano dal-la pressione di un contesto vitale sempre parzialmente indeterminato.Poiché l’esonero è già avvenuto, queste sensazioni sono integrali, ossianon selettive. Estetiche in senso forte, dunque (Virno, 2001, p. 142).

Il sensismo di secondo grado costituisce una sensibilità li-berata che mantiene l’inesauribile ricchezza della percezionedi primo livello e, nello stesso tempo, condivide con il linguag-gio una focalità maggiore. Il riconoscimento di questa dimen-

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lità dei sensi lessicali può addensarsi in un dizionario senzaperdere la possibilità di cambiamenti e nuove accezioni. Pro-prio perché non è sempre padrone di sé, l’animale umano hanecessità di parlarsi per prendere contatto con il proprio io at-traverso una logica, quella partecipativa, che scandisce la strut-tura del movimento: del corpo, delle parole, del corpo dellenostre parole.

6. Funamboli e fumatori: il tatto di secondo ordine

Gibson nelle prime pagine di The Senses Considered as Per-ceptuals Systems fa un’osservazione molto interessante che me-rita di essere citata per esteso:

Parlando, dipingendo, scolpendo e scrivendo l’animale umano ha impa-rato a creare fonti di stimolazione per i suoi compagni e nel fare ciò a sti-molare se stesso. Queste fonti, ammettiamo, sono di tipo particolare, dif-ferenti dalle fonti presenti nell’ambiente «naturale» poiché si tratta difonti «artificiali». Queste generano per l’essere umano un nuovo tipo dipercezione che può essere chiamata conoscenza o percezione di secondamano [at second hand] (Gibson, 1966, p. 26).

Poco dopo lo psicologo americano (ivi, p. 28) precisa che lapercezione di seconda mano non intacca la percezione direttae che, come lui stesso tiene a sottolineare, è quest’ultima a co-stituire il suo primo problema. Si tratta pertanto di uno spuntoche Gibson lascia in sospeso, convinto che sia piú importanteconcentrarsi nella descrizione della teoria ecologica della per-cezione diretta (cfr. cap. I, paragrafo 2.2; cap. III, paragrafo 3).Nonostante l’impostazione di Gibson sia ormai molto nota, algiorno d’oggi questa intuizione rischia di andare persa. Sareb-be un peccato, perché è alla base di una concezione del rap-porto tra esperienza e linguaggio piú interessante della mag-gior parte di quelle attualmente in circolazione. La critica co-stante che abbiamo riservato al paradigma cognitivo e al ridu-zionismo linguistico rischia infatti di proporre una visione delrapporto tra esperire e parlare puramente antagonistica. Al

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re il proprio corpo ed esperire il mondo con le mani, propor-remo due esempi: uno somestetico, l’altro aptico-buccale. Conil primo faremo ritorno a Lilliput: nel funambolismo la preca-rietà dinamica della figura umana diviene fine a se stessa, si faesercizio e arte. Le dimensioni corporee dell’animale umanosi trasformano: da condizione di possibilità dell’esperienzalinguistica ne diventano oggetto di raffinamento, frutto da as-saporare. Il secondo coinvolge invece un’esperienza piú dif-fusa, quella del fumo, che riguarda mani e bocca. In questocaso, il fumare si presenta da un lato come riparo rituale (edunque linguistico-culturale) a un corpo nudo, per un altrocome focalizzazione postlinguistica di esperienze tattili e gu-stative.

6.1. I funamboli di Lilliput

Nel primo libro dei Viaggi di Gulliver, Swift ci mette di fron-te a una scena significativa in cui descrive una danza sul filo lil-lipuziana:

Un giorno all’Imperatore venne in mente di intrattenermi con diversispettacoli locali [...]. Tuttavia nessuno di tali spettacoli mi divertí tantoquanto quello dei danzatori sulla corda, eseguito su un sottile filo bian-co, lungo circa sessanta centimetri e sollevato dal suolo circa trenta (Swift,1728, p. 27).

Questo esempio, che Swift propone in realtà per ironizzaresulle acrobazie dei cortigiani per ingraziarsi il loro sovrano,ben esemplifica alcuni aspetti del rapporto tra linguaggio edesperienza umana. A pensarci bene, infatti, per i lillipuziani ilfunambolismo costituirebbe un’attività semplicemente insen-sata, sia in termini biologici che culturali. Da un lato, per gliabitanti di Lilliput non avrebbe senso esercitare le loro abilitàacrobatiche sul filo per il semplice motivo che non ci sarebbenulla da esercitare: il loro corpo, piccolo e leggero come quellodei passeri che vediamo posarsi sui cavi elettrici, non avrebbealcuna difficoltà meccanica a camminare sulla corda e un pesotanto scarso con un baricentro tanto basso non richiederebbe

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sione dell’esperienza è, bisogna sottolinearlo, decisivo. In pri-mo luogo, come abbiamo appena detto, ci consente di avereun’immagine del rapporto tra linguaggio e sensibilità non an-tagonistica: l’esperienza che nasce dalle parole ricorda che leradici della facoltà del linguaggio sono sensoriali. In secondoluogo, rende immuni da semplificazioni che rischierebbero ditrarci in inganno. Un inganno del quale l’incipit della Metafisi-ca di Aristotele costituisce il paradigmatico esempio:

Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza: ne è un segnoevidente la gioia che essi provano per le sensazioni, giacché queste, an-che se si metta da parte l’utilità che ne deriva, sono amate di per sé, e piúdi tutte le altre è amata quella che si esercita mediante gli occhi. Infattinoi preferiamo, per cosí dire, la vista a tutte le altre sensazioni, non soloquando miriamo a uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamocompiere alcuna azione (Metafisica, I, 980a).

Questo passo è molto significativo perché riassume (e, for-se, fonda) un atteggiamento, quello occidentale verso la perce-zione, rimasto per molti aspetti invariato per oltre venticinquesecoli. Lo stesso Révész sembra riprendere questa opinione.Come abbiamo visto nel capitolo scorso, lo psicologo unghere-se riabilita il tatto sottolineandone il valore cognitivo e l’im-portanza per la nozione di lavoro. Ma, come Aristotele, ancheRévész procede a una identificazione indebita poiché scambiadue dimensioni percettive proprie a tutti i sensi per il funziona-mento specifico di due modalità sensoriali, la nobile vista e ilgreve tatto:

Nell’analisi tattile della struttura emerge in modo particolarmente chiaroil carattere cognitivo della funzione aptica. Non tastiamo per il gusto ditastare. La stessa forma che riusciamo a percepire per mezzo del nostrosenso aptico è, in fin dei conti, solo un mezzo per conoscere l’oggetto enon l’espressione di una percezione immediata, non tendenziosa e con-templativa. Nella contemplazione visiva, invece, seguiamo con lo sguar-do un prato, un albero o una catena montuosa senza alcuno scopo (Révé-sz, 1938a, p. 190).

Per dimostrare che esiste una sensibilità tattile di secondogrado che nasce dal linguaggio e si incarna nel gusto di senti-

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ordine: ha come presupposto la nostra corporeità originaria ela facoltà del linguaggio ma, allo stesso tempo, è un’esperienzatattile non linguistica. Per essere funamboli è infatti necessarioessere bipedi, implumi e dimensionalmente adatti: il gioco sibasa su una precarietà e un equilibrio che solo la nostra formae le nostre dimensioni sono in grado di garantire.

In effetti, si tratta di acquisire un mestiere che per un verso,come ricorda Philippe Petit, forse il piú abile tra i funamboliviventi, «richiede tutta un’esistenza» (1985, p. 34) ma che nel-lo stesso tempo rende «inutile» ogni studio teorico (ivi, p. 33)e addirittura pericolosa la riflessione verbale: «ogni pensierosul filo è una caduta in agguato» (ivi, p. 100). Per non caderedalla corda non solo è necessario stare in silenzio, non pronun-ciare parole, ma evitare di pensare in parole. L’esperienza dicrisi che quotidianamente cerchiamo di risolvere tramite il mo-nologo assume in questo caso un carattere differente poichénon solo non vuole esser superata ma tenta di essere vissuta:camminare sul filo non significa proteggersi dai rischi evidentidi un’esperienza liminare ma farsene carico tenendosi in equi-librio in una situazione nella quale, letteralmente, si è alla cor-da. Come afferma Petit (ivi, p. 38), non si tratta di trovare «unarisposta al problema dell’equilibrio»: il punto consiste piutto-sto nel dare ad esso la sua piú vivace espressione.

Per questa ragione, l’esempio del funambolo rappresentain modo esemplare la condizione tipica dell’essere umanopoiché mette in evidenza una precarietà che diviene certezza.Proprio perché non ha le dimensioni di un uccello, l’animaleumano camminando sul cavo non ne imita stoltamente le pre-stazioni (come farebbe l’abitante di Lilliput) ma ne stravolgeil senso. Quel che è naturale per il passero e il lillipuziano,ciò che già appartiene al suo corpo, diviene per l’animaleumano una conquista: naturale perché radicata nella suamorfologia dimensionale, culturale perché acquisita tramiteesercizio e pratica. Per questo, funambolo è solo «chi è fierodella propria paura» (ivi, p. 31): è l’animale umano che godedelle proprie necessità e, vivendole fino in fondo, le trasfor-ma in virtú.

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l’esercizio di nessuna abilità particolare. D’altro canto, i lillipu-ziani non potrebbero farsi funamboli perché una simile formadi esercizio richiederebbe una cultura e una lingua che, comevisto nel paragrafo 3.1, essi non potrebbero avere.

L’analisi di questi due aspetti chiave per il funambolismoconsente di mettere in scena la complessità del rapporto traesperienza tattile, dimensioni corporee e linguaggio.

Al primo aspetto abbiamo già accennato: il tatto subisce icontraccolpi delle variazioni dimensionali. La propriocezione,ad esempio, ha origine proprio da quella rivincita della superfi-cie sul volume rappresentata dagli organi interni: i villi intesti-nali cosí come gli alveoli polmonari, la circolazione sanguigna ele lobulazioni renali costituiscono un aumento di superficie che,non potendosi esprimere all’esterno se non al prezzo di un ulte-riore aumento volumetrico, si ripiega su se stessa finendo dentroil corpo cui appartiene (D’Arcy Thompson, 1961, pp. 45-46;Gould, 1977b, p. 162). Come abbiamo accennato nel paragrafo5.2, la stazione eretta che distingue l’animale umano dalle altreforme di vita assume un importante valore dimensionale perchécostituisce l’ottimizzazione del rapporto tra sensibilità e dimen-sione: l’incremento della superficie sensibile si realizza per mez-zo della creazione di un piano equidistante tra le due primor-diali superfici corporee (dorsale e ventrale) ed è cosí che mettein opera «un nuovo modo di esibirsi al mondo» (Tobias, 1982,p. 46). La postura eretta si configura quindi come un esposizio-ne precaria ma meccanicamente sopportabile, un aumento dellasuperficie che non richieda, come per gli impossibili giganti diGulliver, un esponenziale aumento del loro volume. L’animaleumano per parlare ha bisogno di alzarsi da terra: da lillipuzianone rimarrebbe schiacciato, da Brobdingnag rischierebbe un ri-torno di schianto.

L’esempio gulliveriano del danzatore sulla corda consentedi comprendere meglio anche un altro aspetto che riguarda larelazione tra esperienza e parola poiché il funambolismo è unaforma fine di cultura che presuppone il possesso della facoltàdel linguaggio. Il funambolismo rappresenta un ottimo esem-pio di ciò che abbiamo chiamato esperienza tattile del secondo

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fumatori in un miliardo e cento milioni, pari a un terzo degliabitanti del pianeta con età uguale o superiore ai 15 anni. Sitratta di un fenomeno che, oltre ad avere un risvolto economi-co notevole (un giro commerciale di circa 200 miliardi di dol-lari l’anno), costituisce una vera e propria emergenza sanitaria:ogni dieci secondi il tabacco miete una vittima. La domanda, atal proposito, emerge inevitabile e misteriosa: come mai moltidi noi continuano a fumare visto che è a tutti noto che il fumo,come ricorda la scritta su ogni scatola di tabacco, «nuoce gra-vemente alla salute»?

Trovare risposta a questo interrogativo è tutt’altro che sem-plice. Il caso del fumatore mette in crisi, infatti, approcci mol-to in voga come la psicologia evoluzionistica (criticata nel cap.I, paragrafo 3.2) che, per dirla in breve, cercano di spiegare icomportamenti umani sulla base di regole darwiniane come laselezione naturale o la conservazione della specie. L’ornitologoe fisiologo Jared Diamond ha cercato, ad esempio, di spiegarequesto fenomeno sulla base del cosiddetto «principio dell’han-dicap», teoria formulata dai coniugi Zahavi, due etologi israe-liani. Questo principio spiega alcuni comportamenti animali,altrimenti incomprensibili. Quando ad esempio una gazzella diThompson avvista un lupo, a un primo sguardo ha una reazio-ne insensata. Invece di allontanarsi o di rimanere immobile perstudiare le mosse del predatore, quella dà vita a un comporta-mento che gli etologi chiamano stotting e che consiste nel sal-tare sul posto con tutte e quattro le zampe. Il fatto è bizzarroperché, almeno in apparenza, del tutto controproducente: lagazzella, saltando sul posto, spreca energie senza aumentare ladistanza tra sé e il lupo. La teoria degli Zahavi spiega il feno-meno affermando che, in buona sostanza, la gazzella esibisceun comportamento comunicativo. La preda, saltando, sta di-cendo al lupo: «Attento! Vedi come sono agile? Non ti convie-ne provare a prendermi, perché ti sfuggirei». Il comportamen-to è quindi costoso ma meno di quanto lo sarebbe un insegui-mento con relativa fuga: l’apparente spreco di energie è inrealtà una forma di economizzazione delle risorse. La lesioneche la gazzella si autoinfligge (affaticarsi saltando sul posto)

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6.2. Andare in fumo

Nel fare la rassegna delle possibili varianti dell’arte funam-bolica, Petit propone un caso piuttosto bizzarro:

La camminata nel cesto è un vecchio esercizio parecchio divertente.Una grande famiglia di funamboli, i Triska, aveva svaligiato in questo mo-do una fabbrica di sigarette. […] La corda partiva dalla finestra del ma-gazzino. Nel corso dello spettacolo, arrivati a quell’esercizio, i funambolilo rifecero tante di quelle volte che il pubblico, non condividendo la pas-sione eccessiva per i cesti, cominciò a fischiare per l’impazienza. I cestierano metodicamente riempiti a un’estremità del filo e svuotati con curaall’arrivo. Cosí la troupe riuscí a riempire un intero carretto (ivi, p. 64).

Questa volta, infatti, i danzatori sul filo dimenticano di gu-stare l’esperienza dell’equilibrio in nome di una causa piú ur-gente. Il lettore smaliziato potrebbe pensare a un fatto soloeconomico, il valore commerciale delle sigarette. Ma forse c’èqualcosa di piú: è all’amore per il fumo che dedichiamo la no-stra chiusura.

Il fumatore incarna una forma d’esperienza postlinguisticacomplementare a quella del funambolo. Come abbiamo visto,il funambolismo rappresenta una esperienza somestetica chenon cerca di risolvere il proprio carattere liminare ma di ap-prezzarlo vivendolo. Il tabagismo è invece un fenomeno cheha carattere manuale e boccale attraverso il quale l’animaleumano prova a dare risposta alla liminarità della nostra formadi vita per mezzo di un surrogato tattile dell’esperienza di cu-ra. I risultati di questo tentativo sono però, ancora una volta,poco definitivi e molto ambivalenti. Come vedremo tra breve,anche il fumo è una forma di cura omeopatica alla labilità del-l’esistenza umana che finisce per rivelarsi piú simile al funam-bolismo di quanto si potrebbe credere. Sia la sigaretta tra ledita che i piedi sulla fune incarnano i paradossi di ogni espe-rienza raffinata del rischio: in entrambi i casi la nostra vita èmessa a repentaglio.

A differenza del funambolismo che riguarda una ristrettacerchia di cultori, l’esperienza del fumo è un fenomeno di mas-sa. L’Organizzazione mondiale della sanità stima il numero dei

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pravvivenza: cure tattili e parentali costituiscono la condizionedi possibilità organica per il suo sviluppo. Per questa ragione,durante la crescita si crea un conflitto:

[…] il fondamentale impulso di toccarci rimane e si pone l’arduo pro-blema di scoprire come lo soddisfiamo nella routine quotidiana al di fuo-ri della cerchia familiare (Morris, 1971, p. 115).

A tal proposito Morris sostiene che il comportamento uma-no si caratterizza per un progressivo rimpiazzamento delle figu-re primarie dell’attaccamento con delle forme sostitutive. Essepossono essere classificate in surrogati d’intimità umani, ani-mali e inanimati. I primi sono definiti dall’etologo inglese «toc-catori di professione» (ivi, p. 174): parrucchieri, massaggiatori,medici o sarti ad esempio dispensano contatto attraverso cano-ni precisi, codificati dalla nostra cultura. Il secondo tipo è co-stituito dagli animali domestici: il contatto che riceviamo da ca-ni o gatti e le cure che ad essi rivolgiamo esprimono in modosocialmente accettabile il nostro bisogno di intimità. Ma è il ter-zo tipo quello che riguarda piú da vicino il nostro discorso. Ilfumo, infatti, è il primo esempio proposto da Morris per illu-strare il concetto di surrogato inanimato. In primo luogo, il fu-matore che porta la sigaretta alle labbra sottolinea il legame on-togenetico tra mano e bocca. Soprattutto nei primi tre mesi divita sia l’esplorazione tattile del mondo che il legame con le fi-gure parentali si esplica tramite la bocca (Bloch, 1994; Mazzeo,in preparazione): proprio perché quello umano è un corpo ul-traneotenico le mani e le braccia del neonato non hanno la pos-sibilità di svolgere compiti percettivi complessi. Succhiare il lat-te dal seno materno cosí come mettere in bocca gli oggetti tro-vati costituiscono per il bimbo due attività intrinsecamente le-gate, recto e verso della sua relazione affettiva e cognitiva con ilmondo. Tenere tra le dita una sigaretta o stringere tra le labbrala pipa non costituisce quindi un generico «ritorno all’infanzia»quanto l’espressione della sua effettiva permanenza:

L’avere qualcosa tra le labbra è un’esperienza calmante per l’animale uma-no, poiché richiama il rassicurante contatto con il protettore primario, va-

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serve, in altre parole, a dimostrare la sua forza, ad allontanare ipredatori e, in altri contesti, a rafforzare il proprio status nelgruppo dei conspecifici (Zahavi, Zahavi, 1997).

La mossa teorica di Diamond consiste nell’assimilare l’ap-parente irrazionalità della gazzella che salta da ferma a quelladel fumatore che, accendendosi una sigaretta, danneggia la pro-pria salute. Anche quest’ultimo esibirebbe un comportamentoevolutivamente costoso per mostrare la propria potenza:

Chi fuma può avere l’alito sgradevole, e chi beve può essere impotente aletto: entrambi però sperano di impressionare i loro simili o le loro part-ner grazie all’esibizione della loro superiorità implicita (Diamond, 1991,p. 250).

Il problema è che, come è costretto ad affermare lo stessoDiamond, a differenza della gazzella per il fumatore «i costisono superiori ai benefici» (ivi, p. 256). Quale forma di riscat-to sociale può compensare la morte negli ultimi cinquanta annidi 60 milioni di persone, un numero di vittime superiore a quel-le provocate dalla prima e dalla seconda guerra mondiale mes-se insieme? Essere piú attraente può valere una pratica checausa circa il 90% dei tumori polmonari? Un’ottica rigidamen-te evoluzionista non solo non dà risposta all’interrogativo marende, al contrario, la domanda ancora piú misteriosa.

Nel caso dell’essere umano, il principio dell’handicap deveessere infatti rovesciato: mentre la gazzella nasce già adatta alsuo ambiente e, danneggiandosi, mostra l’esuberanza della suapredisposizione alla propria nicchia ecologica, l’Homo sapiensnasce, per cosí dire, già con un handicap (la mancanza di unambiente) e ad esso deve mettere, in qualche modo, riparo. Sitratta di condotte riparatorie che assumono però un carattereapparentemente inspiegabile perché, per curarsi, l’animaleumano si ammala ulteriormente. Come mai?

Come abbiamo visto in precedenza (cap. II, paragrafo 4;cap. IV, paragrafo 5.1), la peculiarità della condizione geneticaumana fa sí che per l’Homo sapiens l’intimità non sia semplice-mente un aspetto secondario di una strategia riproduttiva ed’allevamento quanto una condizione essenziale per la sua so-

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cato antropologico: lenisce l’incertezza intrinseca all’esistenzadel bipede implume. Prima della loro distruzione da parte deicoloni americani, alcune tribú pellerossa utilizzavano una pi-pa, «la grande pipa magica» (ivi, p. 13), per accertare se unmembro del gruppo dicesse o meno la verità. Il capo porgevala pipa al presunto colpevole e, se questo osava fumarla, signi-ficava che le sue parole erano degne di fede. Allo stesso mo-do, il celebre calumet della pace costituisce il sigillo che riescea dare stabilità a un mondo nel quale né fatti né parole sonofonte di sufficiente certezza: non basta stipulare verbalmentela pace perché è necessario segnarne la presenza condividen-done il calore e la forma, il sapore e la tessitura. Il fumo incar-na il nostro sentimento d’abbandono, ricorda e, nel contem-po, medica la precarietà di un’intimità necessaria ma non perquesto scontata.

Se in alcune società pellerossa il fumo è ciò che viene dopola parola perché ne rappresenta il sigillo, nel nostro mondo ilfumo viene dopo di essa perché è all’origine di una cultura del-la sigaretta, della pipa o del sigaro che si esprime in una produ-zione materiale e in un apprezzamento percettivo raffinati. Ec-co che la condizione del funambolo e quella del fumatore rive-lano una prossimità maggiore di quanto, in un primo tempo, sisarebbe potuto credere: come il primo trasforma l’instabilitàdella posizione eretta nella gioia di trovare nuove virtú aeree,cosí il secondo trae sollievo accarezzando la sua pipa17. Si trattadi un conforto duplice che nasce per rimediare all’incertezzadella condizione umana ma che diviene a sua volta piacere au-tonomo, godere intrinseco alla condizione della scoperta, gustoper il tabacco: il fumo non rappresenta solo un mezzo perché sitrasforma lui stesso in un fine. Da questo punto di vista, l’espe-rienza del fumo rappresenta in modo paradigmatico i due voltidella neotenia umana dei quali abbiamo parlato nel paragrafo5.3: per un verso è cura poiché dà protezione a un corpo limi-nare; per un altro è ricerca poiché permette la conoscenza dinuove forme d’esperienza.

Per questa ragione Révész (1938a, p. 186) quando, per so-stenere la validità del principio della trasponibilità (secondo il

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le a dire la madre. È una potente forma d’intimità simbolica e quando ve-diamo un vecchio succhiare beatamente il cannello della sua pipa diventachiarissimo che ci accompagna per tutta la vita (Morris, 1971, p. 215).

A tal proposito Morris propone un’idea sulla quale biso-gna fare attenzione. In piú di una circostanza l’etologo ingleseinsiste sul fatto che il fumatore occidentale compensa una man-canza d’intimità dovuta alla particolare organizzazione dellanostra cultura: quello occidentale è un mondo tattofobico per-ché sempre piú «massificato e impersonale» (ivi, p. 8) e che,pertanto, gestisce con una certa riluttanza le dinamiche delcontatto. L’etologo inglese mostra la convinzione che una mag-giore intimità potrebbe eliminare la necessità di surrogati:

Insomma, dobbiamo smetterla di attaccare i sintomi e studiare piú da vi-cino il problema. Se soltanto potessimo essere meno inibiti con i nostri«intimi», avremmo sempre meno bisogno di sostituti. In attesa di questoprogresso, qualunque contatto – o quasi – è meglio di nulla (ivi, p. 234).

Piú volte abbiamo sottolineato il privilegio che la cultura ela filosofia occidentale danno alla vista e al suo presunto pri-mato. In tal senso, Morris ha ragione quando sottolinea chenel mondo occidentale l’esperienza tattile è sottovalutata: smi-nuita nella teoria, trascurata nella pratica. Ciò però non vuoldire che un giorno sarà possibile fare a meno dei surrogatid’intimità tattile, al massimo è possibile cambiarne la tipolo-gia. Il surrogato non è semplicemente il ripiego di una societàdisturbata. Esso costituisce, piuttosto, un tratto tipico delmondo umano. Il fumo non costituisce semplicemente il viziodi postura di una cultura visiva o di un individuo stressato dal-la velocità della vita moderna. È un sintomo, come dice Mor-ris, ma di un disagio piú profondo perché costitutivo della no-stra condizione: un disagio dal quale, come abbiamo visto (pa-ragrafo 4), nasce il linguaggio ma che neanche il linguaggioriesce a lenire. Si tratta, innanzitutto, di un rito: è per questoche lo stesso Darwin nella sua autobiografia afferma: «fumo,dunque sono» (cit. in Kiernan, 1991). In tal senso il fumo, an-che nelle società piú tecnologiche, conserva un preciso signifi-

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non rappresenta che l’altra faccia del virtuosismo del funam-bolo: proprio perché l’animale umano nasce come un esseremalato, spesso è piú importante riuscire a dominare l’insicu-rezza generata dalla nostra costitutiva labilità che le insidieprospettate dalla precisione della statistica. A volte è necessa-rio accendersi una sigaretta per evitare che le nostre certezzevadano in fumo.

Letture consigliate

– Per una rassegna critica, completa e recente, delle forme di cultura ani-male e un confronto dettagliato con le culture umane è molto utile Lestel(2001) che offre un’ottima bibliografia ragionata. Sull’utilizzo di utensilida parte degli scimpanzé, la monografia dello psicologo gestaltista W.Köhler (1961) rimane ancora oggi un testo essenziale e molto chiaro. Suun tema affine, quello del pensiero animale, l’antologia curata da SimoneGozzano (2001) contiene una scelta di testi pubblicati su questo argo-mento molto equilibrata poiché rappresentativa sia delle interpretazionicontinuiste che di quelle discontinuiste. Con un taglio piú psicologico,Vallortigara (2000) fornisce una panoramica piuttosto aggiornata sullacognizione animale, ricca di dati sperimentali e spunti di riflessione suifondamenti biologici e cerebrali delle capacità percettive, mnenomiche,associative e dissociative delle diverse forme di vita.

– Sui ragazzi selvaggi quella di Ludovico (1979) rimane la rassegna piú ag-giornata. Malson (1964) offre invece una bibliografia ragionata, una ta-vola riassuntiva dei casi conosciuti piú completa e, in appendice, propo-ne il testo integrale che descrive uno dei casi piú celebri: Victor dell’A-veyron.

– Sul rapporto tra forma, dimensioni e sviluppo organico interessante, an-che se piuttosto tecnico, è Raff (1996). Per un saggio breve e di piú faci-le lettura si veda Gould (1977b, saggio n. 21). Il libro di Raff è molto uti-le perché discute la legge di Dollo da un punto di vista strettamente ge-netico (si veda anche Marshall, Raff, Raff, 1994): alcuni geni possono ri-manere silenti per alcuni milioni di anni e poi, improvvisamente, espri-mersi di nuovo riportando l’organismo cui appartengono a una condizio-ne evolutiva precedente. Gli errori di codifica medi nel passaggio da ge-nerazione a generazione, infatti, arrivano a distruggere i geni non espres-si solo a partire dai sei milioni di anni. Come sottolinea Gould (1993, p.102), che definisce Louis Dollo «uno dei suoi eroi», il punto è però unaltro: anche quando il gene latente si esprime, il paesaggio corporeo nelquale si inserisce non è piú lo stesso di prima. L’inversione, dunque, nonpuò essere totale poiché non può cancellare la storia evolutiva dell’orga-nismo (per la posizione di Gould sulla legge di Dollo si veda il saggio 3in Gould, 1980 e il saggio 5 in Gould, 1993).

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quale il tatto tenderebbe spontaneamente a tradursi in terminivisivi: cap. III, paragrafo 2), fa l’esempio della pipa manca cla-morosamente il punto. Toccare il suo cannello non richiede,come vorrebbe lo psicologo ungherese, l’associazione con unacorrispondente immagine visiva poiché è proprio un «oggettototale» (Turchetto, 1998, p. 53) come la pipa a dimostrare lostretto intreccio tra l’esperienza del fumo e il senso del tatto18.Ogni caratteristica della pipa ha un correlato funzionale, chemodifica la qualità del fumo e uno tattile che incide sull’espe-rienza manuale e/o buccale di chi la usa: con la curvatura e lalunghezza, ad esempio, varia la freschezza del fumo e lo sfor-zo impartito ai denti per tenerla in bocca (ivi, p. 33); la formadella testa modifica il ritmo d’aspirazione (ivi, p. 53); la tessi-tura del legno contribuisce a determinare la resistenza dell’og-getto e, dunque, la durata della fumata (ivi, p. 10).

Il paradosso della condizione del fumatore è spiegabile, diconseguenza, solo se si parte dalla comprensione del carattereomeopatico dell’azione riparatoria umana. Come di fronte auna difficoltà, il bambino osservato da Vygotskij comincia ilsuo monologo per superare l’ostacolo (cfr. paragrafo 5.3), co-sí l’adulto trova sollievo nel parlare delle sue quotidiane di-sgrazie. Il parlarne, molto spesso, non modifica i fatti: la miamacchina nel parcheggio continua a bruciare, il mio cane noncessa di essere morto, mio fratello persiste nel non farsi vivo.La riparazione di conseguenza non assume necessariamenteuna direzione diretta, non tutte le condotte riparatorie sonoparagonabili all’azione del cacciavite o del martello che met-tono a posto ciò che non va. Il problema è che la costruzionedi un mondo (edificare abitazioni, indossare abiti, guidare vei-coli) non è mai permanente: mentre per perdere la stabilitàgarantita da una nicchia ecologica è necessaria una mutazionegenetica (l’uccello perde le ali) o ambientale (un meteoritecolpisce la terra), per l’acutizzarsi della precarietà tipica delmondo umano basta molto meno: è per questo che, piú spes-so di quanto vorremmo, è piú confortante una sensazione tat-tile di secondo grado che il timore di un malanno futuro in-dotto dal consumo di tabacco. La dipendenza del tabagista

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Note

I. Animale razionale o bipede implume?1 «SD» sta per stimolo discriminativo, «R» per risposta e «Rinf.» per

rinforzo.2 Sono di questo avviso ad esempio Gardner (1985), Mecacci (1992), Fer-

retti (2001), Marconi (2001), Marraffa (2002). Tabossi (1994) e Legrenzi(2002) invece saltano la prima fase e individuano il suo inizio nella fon-dazione della rivista «Cognitive Science» per il primo, in una conferenzatenuta a La Jolla per il secondo. Luccio (1980) fa risalire la nascita delcognitivismo al 1967, data di uscita del testo di Neisser Cognitive Psy-chology. Per orientarsi in un panorama tanto sfumato bisogna ricordareperò che è decisivo stabilire cosa si intende con le espressioni «cognitivi-smo» e «scienza cognitiva»: alcuni li utilizzano come sinonimi (usandoin certi casi solo uno dei due), altri come termini antagonisti. Noi utiliz-zeremo il primo termine per indicare la versione originaria e piú dura diquesto movimento (nelle sue versioni piú recenti o ancora attuali parle-remo di «cognitivismo ortodosso»: si pensi a Chomsky e Fodor); il se-condo per parlare di un progetto di ricerca che nasce come riforma delprimo con esiti contrastanti (a volte piú aperti a corpo e ambienti, altricon forme di chiusura non minori ma diverse). Parleremo di «cognitivi-smo eterodosso» per indicare quelle frange (sulla scia di Neisser e Gib-son) che non si sono conformate alla ripresa dell’ortodossia. Infine poi-ché non c’è accordo se utilizzare l’espressione al singolare «scienza co-gnitiva» o al plurale «scienze cognitive», le useremo entrambe senza faredistinzioni particolari.

3 Naturalmente si tratta di un processo in corso di trasformazione, difficiledunque da riassumere con efficacia senza compiere semplificazioni e ri-durre la complessità del panorama teorico. Lo status delle scienze cogni-tive in Francia ad esempio è particolarmente interessante perché sinto-matico delle tensioni che animano questo paradigma. In un recente con-vegno dedicato al bilancio dell’attività di ricerca cognitiva degli ultimianni e al suo futuro (Colloque Cognitique 1999-2002, 6-7 décembre 2002,

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– Sul concetto di coevoluzione fondamentale è Deacon (1997). Nel suo li-bro, lo scienziato americano fornisce una prospettiva affascinante e det-tagliata sul rapporto di covariazione tra corpo e linguaggio. Quella uma-na è una specie simbolica perché, afferma Deacon, «predisadattata».L’autore illustra alcuni processi dell’evoluzione corporea e cerebrale, lospiazzamento ad esempio, che illustrano con precisione le basi biologi-che della plasticità umana. Il libro, che dedica un capitolo (il quinto) alrapporto tra dimensioni del corpo e del cervello, si caratterizza per alcu-ne concessioni alla logica della despecializzazione evolutiva (ad esempiosulla dentizione dei primati: pp. 380 sgg.).

– Ulteriori approfondimenti circa l’importanza della stimolazione tattileper la crescita e la sopravvivenza di mammiferi, primati e animali umanisono proposti da due testi collettanei in lingua inglese: Barnard, Brazel-ton (1990) e Field (1995). Entrambi propongono una discussione degliinterventi in fondo a ciascun saggio e, nel caso di Barnard e Brazelton,anche una tavola rotonda finale. Al rapporto tra cure tattili e origine dellinguaggio fa riferimento il libro di R. Dunbar (1996) nel quale si sostie-ne che il linguaggio verbale nasce come sostituto della pulizia sociale del-la pelle tra le scimmie (grooming). I primi capitoli sono ricchi di dati cir-ca il rapporto, nei primati, tra le dimensioni dei gruppi sociali e la gran-dezza del cervello degli organismi che lo compongono. La seconda metàdel libro, invece, va presa con maggiore cautela poiché piena di afferma-zioni criticabili circa la natura del linguaggio verbale (che servirebbe, adesempio, a trasmettere pensieri già pronti nella testa) e dei comporta-menti culturali umani spiegati, secondo una ottica ultradarwinista, comestrategie di propagazione dei propri geni.

– Per una descrizione della logica partecipativa da un punto di vista antro-pologico l’opera di Lévy-Bruhl (ad es. 1910, 1922) è ancora oggi una del-le piú interessanti. Per una trattazione del tema in termini psicologici epsicanalitici, la logica simmetrica di Matte Blanco (1975; 1988) è defini-bile a tutti gli effetti come un sistema partecipativo. Mentre rimane quel-la di Hjelmslev (1935; 1937) l’opera piú completa sul rapporto tra lingui-stica e partecipazione.

– Sull’esperienza percettiva di secondo grado rimandiamo a Mazzeo, Virno(2002) e a Fortuna (2002). In entrambi i casi l’analisi di questo concettoparte dall’opera di Ludwig Wittgenstein: il primo saggio si concentra so-prattutto sulla nozione, contenuta nella seconda parte delle Ricerche Fi-losofiche, di «evidenza imponderabile»; il secondo sulla distinzione tra«vedere che» e «vedere come».

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prestazione. A questa obiezione, infatti, non sembra sfuggire del tuttoneanche la Nuova Robotica illustrata da Clark (1997, p. 21) che cita il tat-to una sola volta.

9 Fondiamo questa affermazione sulla base di una ricerca compiuta sugliultimi quindici anni (1985-2000) del Social Science Citation Index (SSCI) edello Science Citation Index (SCI). A differenza di altri testi sulla perce-zione (abbiamo scelto come campione nove libri sulla percezione e sultatto tra cui Kennedy, 1993; Lewkowicz, 1994; Barnard, Brazelton, 1990)citati al massimo una decina di volte, il testo di Coren, Ward e Enns vie-ne menzionato ben 68 volte.

10 Chomsky (1963) costituisce un buon esempio di questa tendenza: in que-sto testo, intitolato Perception and Language, con «percezione» si intendein realtà «udito» e con «udito» si intende «elaborazione del linguaggioparlato». Piú che di Percezione e linguaggio si tratta di percezione del lin-guaggio. Come vedremo nel capitolo IV, quaranta anni dopo Chomsky èancora di questo avviso (Hauser, Chomsky, Fitch, 2002).

11 Per un’analisi approfondita di questo punto siamo costretti a rimandarea Mazzeo (in preparazione). Per ora, ci limitiamo a dire che ipotesi comequelle dell’esistenza di proprietà visivo-spaziali delle rappresentazionimentali (cfr. Ferretti, 1998, pp. 131 sgg.) aiutano a procedere in questadirezione. Non capiamo però perché, visto che si tratta di caratteristichecomuni a piú sensi, sia necessario chiamarle visivo-spaziali e non sempli-cemente spaziali.

II. L’animale sprovveduto1 Anche Damasio in realtà non distingue con precisione sistema nervoso e

cervello utilizzando spesso questi termini come sinonimi. Si tratta invecedi una distinzione utile che ci aiuta a non cadere nell’illusione filosoficadel «pensiero nella testa».

2 Cfr. ad es. Gehlen, 1961; Pansera, 2001.3 Come vedremo nel capitolo IV (paragrafi 6-6.2), questa affermazione

non è esatta. I carceri non sono diversi dagli hangar di cui abbiamo par-lato nel primo capitolo: anche il loro indefinito ampliamento determinacambiamenti interni imprevisti. In questo caso l’imprevisto è costituitoda esperienze non linguistiche che nascono dal linguaggio. Come dire:ogni gabbia crea i suoi evasori.

4 Piú di recente, Lo Piparo (2003) ha ulteriormente approfondito la posi-zione secondo la quale «l’uomo è linguaggio» (ivi, p. 4) nella sua letturadel pensiero di Aristotele.

5 Per una introduzione alla filosofia di Herder si veda Tani (2000a). Peruna discussione sull’attualità del suo pensiero rimandiamo agli interventidi Tani (2000b), Stancati (2000a), Virno (2000) e Fortuna (2000), tuttinello stesso numero del Bollettino Filosofico del Dipartimento di Filoso-fia dell’Università della Calabria.

6 Per il contributo di Schopenhauer alla distinzione tra mondo e ambienterimandiamo a Mazzeo, in stampa.

7 In alcune conferenze tenute negli anni sessanta Portmann cita Scheler,

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Paris) è stata espressa, con forza e da piú parti, la necessità di aprire lescienze cognitive alle scienze sociali e storiche. Questa apertura assume,almeno per ora, contorni poco chiari: per un verso sembra emergere l’e-sigenza di un profondo rinnovamento teorico all’interno delle scienzecognitive che faccia di storia e società caratteri costitutivi e interni dellaconoscenza umana e che sottolinei soprattutto il carattere interdiscipli-nare del paradigma (di questo avviso sembra essere anche Marraffa,2001); per un altro questa idea corre il rischio di materializzarsi in unasemplice estensione del modello cognitivo, nell’applicazione in altri do-mini dell’attività conoscitiva umana degli stessi strumenti teorici utilizza-ti finora (teoria rappresentazionale della mente, modularità, ecc.). Lastessa ambizione di fare delle scienze cognitive il punto di raccordo trascienze della natura e scienze dello spirito assume un valore ambivalentepoiché tende a fare delle scienze cognitive sia un semplice campo disci-plinare (lo studio interdisciplinare della conoscenza umana) che un para-digma teorico che definisca cosa sia la conoscenza umana sulla scorta diuna tradizione cognitivista piú o meno riformata.

4 Per una critica serrata ed efficace, all’interno del paradigma cognitivista,alla Nuova Sintesi rimandiamo a quest’opera. Le perplessità espresse daFodor sull’ipotesi della modularità massiva, come lui la chiama, non co-stituiscono, si badi, un ripensamento da parte del filosofo americano.L’importanza dei sistemi centrali di elaborazione era già sottolineata nel-la Mente modulare. Il punto è che per Fodor non è possibile uno studioscientifico della mente nei suoi aspetti non modulari: un’estensione dellamodularità non risolve il problema (il paradosso dell’hangar). Ma nean-che confinare lo studio di mente e natura umana, aggiungiamo noi, lo ri-solve.

5 I tentativi di naturalizzazione della mente proposti da Fodor incappanonello stesso problema fondamentale (per una rapida ma efficace ricostru-zione di questo percorso si veda Ferretti, 2001).

6 In tal senso, ad esempio, il testo di Paternoster (2001) è molto interes-sante. Per un verso è alla ricerca del delicato equilibrio tra fedeltà al pro-getto cognitivo e, al contempo, apertura a una concezione pragmaticadella percezione. Per un altro, anche in questo caso il percepire è ancorauna volta schiacciato sul vedere. A causa della «sua indubbia preminenzaepistemica» (ivi, p. 9), la visione avrebbe infatti «un posto in qualchemodo privilegiato» (ivi, p. 111).

7 Anche altri due testi introduttivi, molto recenti, non mettono in discus-sione questa identificazione: mentre in Marraffa (2002) essa è implicitapoiché si fa riferimento solo alla percezione visiva, in Legrenzi (2002, p.104) si afferma addirittura che «nei primati e nell’uomo piú del 50 percento della corteccia cerebrale è dedicato all’analisi dei processi visivi».

8 La progettazione di bracci meccanici, settore importante dell’ingegneriarobotica, sembra in tal senso fare eccezione. Si noti però che l’attenzioneè di solito concentrata solo sull’elemento operativo del tatto e non suquello sensoriale: è importante solo l’efficacia della prestazione indu-striale (precisione, velocità, economia). Gli aspetti piú propriamente sen-soriali sono esaminati solo quando è indispensabile per ottimizzare la

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3 Con «origine del linguaggio» non intendiamo naturalmente la ricostru-zione delle condizioni fattuali che hanno portato il primo Homo sapiensa parlare (l’idea stessa è priva di senso: cfr. cap. IV, paragrafo 4). Conquesta espressione, rifacendoci a Saussure (1922), ci riferiamo al tentati-vo di individuare i tratti costitutivi di quella che il linguista ginevrinochiama «facoltà di linguaggio» (si veda a tal proposito Virno, 1999, pp.67 sgg. e Gambarara 2003).

4 Hatwell (1986, pp. 45 sgg.) e Masini, Antonietti (1992, pp. 117-118) sot-tolineano la distanza teorica che separerebbe i due. Come abbiamo det-to, esistono delle differenze di impianto teorico che però non vanno esa-gerate: non dobbiamo dimenticare, ad esempio, che Gibson cita Révésza conferma delle sue ipotesi e non come obiettivo polemico (cfr. Gibson,1962, p. 477; Gibson, 1966, pp. 116, 123).

5 Come sottolinea la psicologa Yvette Hatwell (1986, p. 34) si tratta di duefunzioni in realtà tra loro solidali: al livello neuronale, ad esempio, que-sta vicinanza è dimostrata dalla contiguità spaziale tra le aree primariesensoriali e motorie.

6 Al contrario, le grandi scimmie africane (e altre specie, come i panda adesempio: Gould, 1980) hanno mani specializzate: le dita sono flesse; cu-scinetti callosi proteggono le falangi che durante la locomozione devonosopportare il peso di tutto il corpo; legamenti e tendini sono rinforzatiper evitare l’indolenzimento che comporterebbe scaricare decine di chilisulle nocche (Schwartz, 1986, p. 110).

7 Biondi e Rickards (2001, pp. 44-46, 146) interpretano il dato proprio inquesta maniera. Durante una lunga conversazione anche Felice Cimatti,per altro molto distante dalle posizioni dei due studiosi italiani, ha sotto-lineato con enfasi che questa sarebbe una delle prove conclusive controla tesi sostenuta in questo libro.

8 A tal proposito Daniele Gambarara (2000a) afferma che il «prendere inbraccio» costituisce una delle manifestazioni piú significative di quel ri-conoscimento reciproco, simbolico e sociale, che costituisce una condi-zione di possibilità per il linguaggio verbale.

9 Questo paragrafo costituisce la rielaborazione di una relazione presentataall’VIII congresso della Società di filosofia del linguaggio (Cosenza 20-22settembre 2001) intitolata «Vedere con la pelle» (in Gambarara, 2002).

10 Molti testi che si occupano di percezione tattile contengono almeno uncommento sul TVSS. Solo per fare qualche esempio: Montagu, 1971, pp.141 sgg.; Hatwell, 1978, pp. 506 sgg.; Hatwell, 1986, pp. 41 sgg.; Masini,Antonietti, 1992, p. 116; Kennedy, 1993, p. 293; Coren, Ward, Enns,1999, pp. 237-238; Roberts, Wing, 2001, p. 52. Anche il volume colletta-neo curato da Hatwell, Streri e Gentaz (2000) contiene un saggio dedica-to al TVSS (Lenay et al., 2000) seppur molto critico.

11 La durata della fase di addestramento varia notevolmente da esperimen-to a esperimento poiché parte da un minimo di venti ore e arriva a unmassimo di centocinquanta (Bach-y-Rita et al., 1969, p. 963; White et al.,1970, p. 23).

12 Non solo in Italia: cfr. Lenay et al., 2000, p. 287. Si potrebbe forse obiet-tare che la mancata diffusione del TVSS dipende semplicemente dal fatto

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Bolk, Gehlen (Portmann, 1962, pp. 296-299) e Uexküll (ivi, pp. 287-288;Portmann, 1963, pp. 419-421). È probabile che conoscesse le loro operesin dagli anni quaranta quando condusse le sue ricerche sullo sviluppoontogenetico dei mammiferi.

8 Autocontrollo in senso lato quindi: come dispositivi di equilibrio per ladinamica di un corpo bipede (cfr. cap. IV, paragrafo 3 sgg.; paragrafo6.1); come forme di esonero per un animale iperesposto all’esperienza(cfr. paragrafo 3.2).

9 Plessner è considerato insieme a Scheler e Gehlen uno dei padri dell’an-tropologia filosofica. Per la presentazione del suo pensiero rimandiamo aCrispini (2000) e Pansera (2001).

10 Non a caso, Linneo (1758), quando nella decima edizione del Sistemanaturae conia il termine «primate», comprende in questa classe anche ilpipistrello (Schwartz, 1987, p. 141).

11 Cfr. ad es, Lorenz, 1973, pp. 222, 275, 304 sgg., 310, 314 sgg., 408.12 La questione, come sappiamo, è molto complessa e controversa (per una

discussione aggiornata cfr. Tattersal, 1998; Biondi, Rickards, 2001). Sa-rebbe interessante rileggere il materiale paleoantropologico a nostra di-sposizione e vedere se, a ottanta anni di distanza, la teoria della fetalizza-zione di Bolk è ancora plausibile anche da questo punto di vista. Gould(1977a), che ne parla ampiamente, sembra ritenere di sí. In un libro re-cente Gribbin e Cherfas (2001) compiono un primo tentativo in questadirezione con risultati molto suggestivi.

13 Cfr. paragrafo 3.3. Bisogna precisare che la selezione K non ha come esi-to automatico la fuga dalla specializzazione, cosí come la selezione Rquella opposta: si tratta piuttosto di segnalare l’usuale amalgama tra fat-tori che rimangono tra loro distinti. Per una discussione del problema siveda Gould (1977a).

14 Forse per questa ragione sarebbe piú corretto parlare di «ultrapedo-morfosi» piuttosto che di «ultraneotenia». Bisogna considerare però chedopo questa iniziale accelerazione tutti gli altri tratti sono propriamenteneotenici (le modalità di selezione, la maturazione sessuale): si tratta intal senso di uno sviluppo che «tende al nuovo» in senso proprio: sia per-ché resiste al vecchio, sia perché si affretta a dar vita a un corpo autono-mo. Un processo, quest’ultimo, che ci avvicina ai marsupiali poiché conessi condividiamo un periodo di esterogestazione, cioè di gravidanzaesterna: cfr. Montagu, 1971; Anderson, 1995.

III. Nelle nostre mani1 Per una critica piú dettagliata delle affermazioni di Sacks (1995) riman-

diamo a Mazzeo, 2001b.2 Come ricorderà anche Gibson (cfr. paragrafo 3), l’altro grande studioso

della percezione tattile nella prima metà del novecento è David Katz(1884-1953). Lo psicologo tedesco di formazione gestaltica è, infatti, l’au-tore di Der Aufbau der Tastwelt (1925) tradotto nel 1989 in lingua ingle-se (The World of Touch) e molto citato in letteratura. Purtroppo, motividi spazio ci proibiscono di approfondire in questa sede l’importanza teo-rica e sperimentale del suo lavoro.

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3 Con una sola eccezione: la fanciulla di Cranenburg che le cronache so-stengono sia stata lasciata sola all’età di 16 mesi.

4 Questo paragrafo, insieme al § 6.1, costituisce la versione modificata eparziale di un articolo apparso sul numero 17 (2001) della rivista Bollet-tino filosofico. In questa sede, parleremo solo del modo in cui le dimen-sioni corporee costituiscono una condizione di possibilità spaziale per illinguaggio. In realtà la taglia ha anche importanti risvolti temporali poi-ché, ad esempio, è legata intrinsecamente alla lunghezza dei tempi di ma-turazione del corpo (dunque alla sua neotenia). Per la trattazione di que-sto aspetto rimandiamo all’articolo.

5 Come di consuetudine, Fodor propone un’analisi ordinata ed elegantedel problema. Come è possibile evitare infatti una deriva dell’attribuzio-ne delle rappresentazioni che assegni stati mentali anche a meccanismisemplici come i termostati o organismi elementari come i parameci? Sen-za mezzi termini Fodor si fa carico dell’obiezione mossa da Dennett allanozione cardine della scienza cognitiva. Secondo Dennett, infatti, non èchiaro quale criterio sia possibile trovare per segnare il confine tra siste-mi intenzionali, organismi o artefatti (i computer, in primis) il cui com-portamento può essere spiegato solo facendo ricorso alla nozione di rap-presentazione mentale e i sistemi non intenzionali per i quali invece sa-rebbe sufficiente un modello piú semplice, di tipo stimolo-risposta. Pro-prio per questa ragione, Fodor afferma che la proprietà comportamenta-le che presuppone l’esistenza di rappresentazioni mentali è ciò che tagliain due il «continuum filogenetico» (ivi, p. 12). Il tentativo di Fodor è in-teressante perché, come abbiamo accennato, il filosofo americano fa l’e-sempio del paramecio: una forma di vita presa in esame sia da Uexküllche da Heidegger. L’analisi di Fodor si concentra su una distinzione chia-ve, quella tra proprietà nomiche e proprietà non nomiche. Le prime so-no esibite da sistemi fisici il cui comportamento può essere spiegato inbase a leggi psicofisiche; le seconde sono invece quelle proprietà posse-dute da sistemi il cui comportamento non può essere spiegato solo attra-verso leggi psicofisiche. Di conseguenza, le proprietà nomiche riguarda-no non solo i cambiamenti di stato del termostato, risposte automaticheai cambiamenti di temperatura del suo ambiente (l’acqua dello scaldaba-gno ad esempio), ma anche le reazioni del paramecio di allontanamentoe attrazione poiché regolate in modo meccanico dalla presenza di luce ocibo. Da un punto di vista evolutivo, Fodor sostiene che la deriva men-talista paventata da Dennett può essere scongiurata individuando unaproprietà P che non risponda a una relazione nomica con l’ambiente.Questa proprietà P è identificata con la capacità di generare nessi se-mantici, di spezzare la catena causale fisica e, dunque, di generare rap-presentazioni (ivi, p. 14). Detto in altre parole, secondo Fodor è la rap-presentazione mentale ciò che ci consente di non essere ingabbiati inuna relazione rigida con l’ambiente, di evadere dalla prigione fisica incui i parameci vivono e i termostati funzionano: «la risposta selettiva aproprietà non nomiche è, dal nostro punta vista, il grande problema evo-lutivo per risolvere il quale la rappresentazione mentale è stata inventa-ta» (ibidem). Purtroppo la risposta di Fodor a questo «grande problema

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che stiamo parlando di un prototipo sperimentale e, come tale, non di-sponibile sul mercato. Questo strumento è invece presente in commercio(seppur a caro prezzo, circa 45000 dollari): nonostante ciò, la sua diffu-sione è nulla (ivi, p. 300).

13 Cfr. ad es. Bach-y-Rita, 1972, p. 93; 1997, p. 91. Sembrano essere di que-sto avviso Hatwell (1986, p. 42), Masini e Antonietti (1992, p. 116) e Fer-retti (1998, p. 134).

14 Le forme di sintonizzazione embrionale tra feto e madre di cui parla adesempio Pennisi (1994) forse non sono forme propriamente uditive matattili-vibratorie: non si tratta infatti del porsi in ascolto di due entità di-stinte, ma di un corpo che vive in risonanza con l’altro.

15 A tal proposito, sia Antonio Pennisi che Tommaso Russo hanno espressola loro perplessità circa la costruzione di una gerarchia sensoriale o l’av-vio di una nuova «guerra» tra sistemi percettivi. Vogliamo ribadire, però,che il primato del quale abbiamo parlato qui è di tipo genetico e ontico:né cognitivo né ontologico (cfr. cap I, paragrafo 4.3).

16 Una prova sperimentale (Miletic, 1994) conferma questa ipotesi. Nellarisoluzione di compiti di rotazione mentale, ciechi con l’ausilio di un Op-tacon modificato danno prestazione migliori di soggetti non vedenti chene sono sprovvisti. Quando, però, a quegli stessi soggetti viene sottrattol’apparecchio vibro-tattile le loro performances peggiorano. È come sequesti sistemi piú che protesi percettive costituissero un semplice ausiliografico. Se posso vedere o toccare una figura, questo mi aiuta nei compi-ti di rotazione mentale ma quando l’immagine scompare la difficoltà au-menta di nuovo.

17 Questa espressione è usata esplicitamente dagli stessi autori dell’esperi-mento: cfr. Scadden, 1969, p. 678; Bach-y-Rita et al., 1969, p. 964.

18 Ringraziamo Loretta Secchi dell’Istituto per ciechi Cavazza di Bolognaper averci dato la possibilità di consultare, seppur ancora in stampa, i te-sti di John Kennedy e Mario Mazzeo.

IV. Esperienza tattile e facoltà di linguaggio1 Parliamo di utilizzo culturale di strumenti per distinguere la pesca alle

termiti da casi nei quali l’impiego di utensili assume un significato diver-so come, ad esempio, i rami utilizzati da molte specie di uccelli per co-struire il nido. Questi comportamenti, infatti, sono comuni a tutta la spe-cie poiché necessari alla sopravvivenza: costituiscono però il frutto diun’applicazione rigida e istintuale di schemi innati e, dunque, non sonoforme culturali.

2 In questo senso il confronto tra due bambine allevate da lupi nel 1920 inIndia e un ragazzo cresciuto negli anni sessanta tra le gazzelle nel desertodel Sahara è impressionante: le prime mangiano solo carne cruda e latte,mandano lunghi ululati, di notte sono sveglie e di giorno non vedono be-ne (Ludovico, 1979, p. 38); il secondo è esclusivamente erbivoro e man-gia radici strappandole dalla terra, manda segnali con mani, piedi e naso(gli stessi utilizzati dal branco in cui vive), ha un ritmo del sonno breve eirregolare e ha una vista diurna molto acuta (ivi, pp. 52-53).

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7 In un articolo molto recente Chomsky (Hauser, Chomsky, Fitch, 2002)propone di distinguere due sensi nei quali intendere l’espressione «fa-coltà del linguaggio». La prima lo è in senso largo (FLB: faculty of langua-ge broad sense) e comprende una serie di sistemi senso-motori e concet-tuali-intenzionali propri dell’essere umano ma comuni ad altre specie ani-mali: costituisce una struttura altamente specifica paragonabile all’occhioper i vertebrati. La seconda è invece una facoltà del linguaggio in sensoristretto (FLN: faculty of language narrow sense) e comprende quella capa-cità sintattico-ricorsiva propria solo del linguaggio verbale, evolutasi direcente e che non ha alcuno omologo nel regno animale. L’idea di fondo,anche in questa versione recente piú aperta verso il pensiero evoluzioni-stico, rimane la stessa poiché segna una distanza netta tra FLB e FLN. L’u-nica connessione genetica e strutturale ipotizzata tra le due riguarda lastoria evolutiva della ricorsività che, secondo Chomsky e collaboratori,sarebbe consistita nel passaggio da un modulo animale dedicato a uncompito cognitivo specifico (come ad esempio l’orientamento spaziale) aun sistema generale che può essere applicato a qualunque situazione: unavariante dell’idea che il linguaggio sia una forma di despecializzazione(cfr. § 2). Inoltre Chomsky e collaboratori affermano a piú riprese che leloro sono ipotesi scientifiche e, come tali, in futuro falsificabili sulla basedi nuovi dati. Si tratta di un esempio concreto del carattere ambivalenteche negli ultimi anni sta segnando il rinnovamento delle scienze cogniti-ve. Si afferma di essere evoluzionisti ma si sostengono le stesse idee difondo; si sostiene di essere disposti a rivedere le proprie posizioni sullabase di dati futuri, tralasciando di discutere proprio quei dati che già daoggi sono in grado di metterle in difficoltà. A dimostrazione di ciò, quan-do prendono in considerazione i sistemi percettivi che costituirebbero laFLB, Hauser, Chomsky e Fitch parlano solo delle capacità uditive, dellevocalizzazioni e della discesa della laringe. Rimane l’idea, piuttosto naïve,secondo la quale le capacità percettive fondamentali per la facoltà del lin-guaggio siano solo quelle che servono alla percezione del linguaggio.

8 L’interazione tra esperienze tattili precoci e durata della vita è resa com-plessa da almeno due fattori. In primo luogo per diverse specie svolgeun ruolo decisivo il rispetto di periodi critici per lo sviluppo: sia i ratti(cfr. anche Levine, 1960, p. 86) che i topi, ad esempio, traggono giova-mento dalla stimolazione solo se compiuta entro i primi dieci giorni divita. Nel caso questa avvenga successivamente, tra i dieci e i venti gior-ni, non solo la durata di vita non si allunga ma addirittura diminuisce.In secondo luogo la stimolazione tattile precoce sembra avvantaggiarein termini di durata di vita soprattutto gli organismi con tempi di svi-luppo piú lenti: le forme di vita che maturano velocemente risentonodell’accelerazione genetica prodotta dalla stimolazione tattile (Denen-berg, Karas, 1959).

9 Nella predilezione verso surrogati di stoffa a quelli di metallo, la perce-zione visiva del surrogato sembra svolgere un ruolo modesto poiché l’ef-fetto rassicurante sui cuccioli è inferiore a quello tattile (Harlow, 1958,pp. 681-684; Harlow, Zimmermann, 1959, p. 429). L’importanza della vi-sta emerge soprattutto dopo che il cucciolo e la madre-sostituto sono sta-

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evolutivo» non sembra essere soddisfacente. Per certi aspetti, non sem-bra essere neanche una risposta. L’ortodossia cognitiva di Fodor, infatti,non solo ripropone i problemi suscitati dal riduzionismo linguistico (cfr.cap. II, § 3) ma li aggrava. In primo luogo se la riduzione della naturaumana al linguaggio verbale pone quest’ultimo come un deus ex machi-na, la proposta di Fodor si ritrova nello stesso impasse. Come mai alcunisistemi sono rappresentazionali e gli altri no? Come emerge la fatidicaproprietà P dalle proprietà non P? Ma non solo. Mentre il riduzionismolinguistico ha il vantaggio di poter descrivere la nostra natura sociale estorica come intrinseca all’animale umano, il rappresentazionalismo haanche il problema di spiegare come la rappresentazione si faccia linguag-gio e, soprattutto, lo spiacevole inconveniente di considerare il caratteresociale e culturale della conoscenza umana come qualcosa di aggiunto esuccedaneo, secondario o innestato. Fodor afferma che capire «qualiproprietà delle cose siano quelle che stabiliscono relazioni nomiche conciò che le circonda è, in senso lato, una questione empirica» (ivi, p. 9).Da un punto di vista filosofico è invece decisivo comprendere quali sia-no le relazioni nomiche che il nostro corpo deve instaurare con i suoidintorni e quali no: in che senso, come dicevamo nel primo capitolo, sia-mo animali e in che senso umani. Da un lato il nostro organismo è costi-tuito di cellule, sangue, tessuti, ossa e muscoli come le altre specie viven-ti (perlomeno quelle vertebrate); dall’altro la nostra vita si nutre di lin-guaggio e cultura, parole e immagini ed è questo che la rende propria-mente umana. Come mettere insieme questi due aspetti, tanto decisiviper la nostra natura? L’impostazione di Fodor lascia irrisolto il problemadi capire come la mente umana emerga dal regno animale o, detto in al-tri termini, di comprendere quale sia la relazione tra biologia e cultura,tra il nostro corpo e la nostra mente. Il filosofo americano afferma espli-citamente che la teoria rappresentazionale nasce per risolvere un proble-ma evolutivo. Paradossalmente quella che fornisce Fodor è però una ri-sposta fissista perché considera irrilevante il problema di come le pro-prietà non nomiche nascano da proprietà nomiche. Fodor, detto in altritermini, non ci dice come mai il paramecio non parli e non abbia rap-presentazioni (contro l’identificazione tra parlare e pensare si veda Gam-barara, 1996).

6 Swift (1728, p. 47) invece immagina che i lillipuziani possano vedere pocoin lontananza ma che, in compenso, possiedano una formidabile acuità vi-siva. La variazione dimensionale colpisce, inoltre, anche un organo di sen-so strettamente connesso al linguaggio verbale, l’udito. Nei mammiferi in-fatti il timbro della voce è inversamente proporzionale al quadrato delledimensioni lineari della superficie che vibra, cioè delle corde vocali. Comesottolinea D’Arcy Thompson (1961, p. 44), le dimensioni delle corde edella membrana del timpano sono direttamente proporzionali a quelle delcorpo. Risultato: un lillipuziano avrebbe un timbro di voce acutissimo (dicirca 37000 cicli al secondo), un suono piú alto e flebile dello squittio diun topo, impercettibile per il nostro orecchio che percepisce suoni di almassimo 10000 cicli al secondo. Se anche esseri cosí deboli di mente e divista potessero parlare, noi non potremmo sentirli.

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tatto (intimità) e della posizione corporea (soggettività). Nel 1927 il lin-guista danese intervenne all’undicesimo convegno internazionale di psi-cologia a cui parteciparono come relatori Révész (con la relazione sulladifferenza tra mani umani e arti dei primati che abbiamo citato nel cap.III, § 5) e D. Katz (cfr. Piéron, Meyerson, 1928). Non è escluso che que-sto abbia potuto incidere su alcune delle idee espresse da Hjelmslev.

16 In piú di una circostanza, Vygotskij (1934, p. 23, 25, 80, 103, 172-176,397-398; 1978, p. 63) dà prova di aver letto con attenzione almeno tredei testi in cui Lèvy-Bruhl parla dei rapporti partecipativi: Psiche e so-cietà primitive (1910), La mentalità primitiva (1922) e Il pensiero primiti-vo (1930). È particolarmente interessante il fatto che nel quinto capitolodi Pensiero e Linguaggio lo psicologo russo (Vygotskij, 1934, pp. 175-176) instaura esplicitamente un parallelismo tra partecipazione e pensie-ro nei primi stadi genetici anche se crede giusto intendere questa nozio-ne in modo piú blando: non come processo di identificazione quanto diimparentamento.

17 Detto per inciso, anche il fumo è un’esperienza legata alla nostra tagliacorporea, quindi, fisicamente impossibile per il mondo di Lilliput. Comericorda Went (1968, pp. 404-405), infatti, una fiamma non può esserepiú piccola di qualche millimetro: deve essere grande abbastanza perportare l’aria a una temperatura sufficiente e innescare il processo di ac-censione.

18 Naturalmente esiste anche una dimensione gustativa dell’esperienza delfumo: quella che ci fa preferire un tabacco a un altro, una particolaremarca di sigarette. La nostra ipotesi è che questo aspetto sia secondariorispetto al suo valore di intimità tattile.

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ti allontanati da alcuni giorni: solo in questo caso il piccolo scimpanzéguarda la bambola di pezza piú a lungo rispetto a quella metallica.

10 Almeno nei primi cinque giorni di vita, i diversi effetti del parto vaginalerispetto a quello cesareo sono riscontrabili, ad esempio, anche nei maca-chi (Meier, 1964).

11 In questa sede non abbiamo lo spazio per argomentare piú nello specifi-co la diversità della somestesia umana da quella animale: neotenia emorfologia simmetrico-riflessivo ne costituiscono in ogni caso le coordi-nate fondamentali poiché ne testimoniano la maggior plasticità. A talproposito Deacon (1997, pp. 229 sgg.) ricorda, ad esempio, che le voca-lizzazioni umane sono rese possibili da una sorta di inversione gerarchicatra il sistema viscero-emozionale (piú rigido e automatico) e il sistemamuscolo-scheletrico (piú elastico e volontario): mentre nelle altre specieè il primo ad essere piú importante, nell’Homo sapiens la figura si fa sfon-do e finisce per assumere un ruolo secondario a vantaggio di un control-lo piú fine del proprio corpo.

12 L’intimo legame tra percezione del corpo interno ed esterno è dimostra-to dai casi di autotopagnosia (agnosia dell’immagine corporea): chi è af-fetto da questo disturbo non solo stenta nel riconoscere parti e orienta-menti del proprio corpo ma anche in quelli altrui (Schilder, 1935, p. 72).

13 A proposito dell’autoavvertimento o episensorialità, come la chiama LoPiparo (2003, p. 20), si potrebbe obiettare che di ciò sono capaci anchela vista e l’udito: la vista regola il vedere prendendo come coordinataspaziale il naso; con l’udito siamo in grado di percepire (e dunque di cor-reggere e impostare) la nostra voce. Bisogna però fare attenzione: in tuttie due i casi si tratta di autoavvertimenti parziali (poiché riguardano soloparti limitate del nostro corpo) e, soprattutto, sinestetici. Quando l’oc-chio vede il naso, percepisce una parte del corpo e non una parte di sé(l’occhio non vede se stesso). Quando le orecchie sentono la nostra voce,percepiscono un prodotto articolatorio frutto di un’azione somestetica(l’abbassamento del diaframma, il movimento della bocca, ecc.). Da que-sto punto di vista, il caso piú interessante è un altro, costituito dalla vi-brazione, poiché rappresenta il momento di collasso tra uditivo e tattile:per la trattazione di questo tema rimandiamo a Mazzeo, 2002b.

14 Esiste, naturalmente, almeno una terza caratteristica fondamentale dellinguaggio umano, la contestualità (cfr. Gambarara, 1998). Non trattia-mo esplicitamente questo aspetto poiché è interno alla nozione di mon-do: poiché non nasciamo con un contesto già stabilito (un ambiente),abbiamo la necessità di creare il nostro. Le fluttuazioni di senso delleparole delle lingue storico-naturali esprimono la varietà e la labilità deicontesti per un animale che nasce privo di nicchia ecologica. Sul legameintrinseco tra contestualità e performatività si veda Prampolini (1999,pp. 124-129).

15 In questa sede non possiamo dilungarci su questo punto sebbene impor-tante. Ci limitiamo a rimandare alla Categoria dei casi, nella quale Hjelm-slev applica questo principio all’analisi delle lingue storico-naturali. È danotare che le tre dimensioni in cui si svolgono le opposizioni partecipati-ve indicate da Hjelmslev sono tattili: quella dell’avvicinamento, del con-

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Arnheim R., 172

Bach-y-Rita P., 163-171, 181, 187,257, 258

Bacone (Francis Bacon), 24Barnard K.E., 252, 255Benjamin J.D., 221Berkeley G., 67Bernstein L., 221Berthoz A., 72Binkofski F., 67Biondi G., 127, 160, 191, 199, 256,

257Biscuso M., 15Bliss J.C., 171Bloch H., 247Blumenberg W., 139, 141, 153, 173Bolk L., 98, 99, 101-104, 107, 112,

119-121, 127, 256Bonner J.T., 78, 209Bosco E., 15Brandom R., 38Brazelton B.T., 252, 255

Caldji C., 222Cardona G.R., 69Carpenter P.A., 187Cartesio (René Descartes), 24, 25, 28,

53-55, 65, 84Cavalieri R., 237Cherfas J., 127, 191, 256

Cheselden W., 84Chomsky N., 25, 27, 28, 37, 38, 43,

45, 54, 55, 59, 64, 71, 210, 233,253, 255, 260, 261

Cimatti F., 11, 15, 71, 86-89, 110,127, 157-158, 194, 204, 219, 257

Claparéde E., 67Clark A., 72, 255Clegg E.J., 159Collins C.C., 170Coren S., 59, 142, 255, 257Cornoldi C., 188Crispini I., 256

Damasio, 64, 65, 70, 76, 226, 255D’Arcy W., 204, 208, 242, 260Darley J.M., 229Darwin C., 22, 54, 191, 248,-270Davidson D., 42Deacon T., 210, 212, 213, 252, 262De Martino E., 237Denenberg V.H., 221, 261Dennett D., 164, 165, 167, 168, 259De Renzi E., 67Detti L., 15, 92Diamond J., 245, 246Dollo L., 199-201, 251Dunbar R., 252

Eibl-Eibesfeld I., 120, 121, 124Eisenberg P., 187

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Anderson G.C., 256Antomarini B., 15Antonietti A., 178, 257, 258Aristotele, 69, 141-143, 174, 240, 255

278

Indice dei nomi

281280

Marconi D., 21, 34-38, 50-53, 55, 59,71, 75, 76, 118, 253

Marmor G.S., 187Marr D., 71Marraffa M., 71, 253, 254Marshall C.R., 251Marx K., 161Marzke M.W., 158Masini R., 178, 257, 258Matte Blanco I., 237, 252Mazzeo Marco, 48, 124, 135, 155,

209, 211, 227, 237, 247, 252, 255,256, 262

Mazzeo Mario, 15, 179, 258,McDowell J., 38-43, 50-53, 59, 62,

73, 197McKinney M.L., 127McMahon T.A., 78, 209McNamara K.J., 127Meaney M.J., 221Mecacci L., 33, 253Metzler J., 186Miletic G., 258Millar S., 138Miller G.A., 25Milligan M., 188Molyneux W., 67, 68, 71, 84, 131Montagu A., 144, 171, 188, 221-223,

256, 257Morgan M.J., 22, 164, 165, 168Morris D., 9, 112, 120, 121, 123-126,

247, 248Mountcastle V.B., 69, 72

Negri Dellantonio A., 68, 72, 142,229

Neisser U., 29, 30, 32, 33, 36-38, 58,59, 73, 169, 253

Newell A., 25Newton I., 54Nietzsche F., 94Nye P.W., 171

Odier C., 49

Pansera M.T., 255, 256Parisi D., 71, 72Paternoster A., 254

Pennisi A., 237, 258Peters C.R., 159Petit P., 243, 244Piaget J., 69, 177, 237Pick H.L. Jr., 137, 149Pinker S., 35-38, 42-47, 49-51, 53-56,

59, 75, 83-86, 89, 110, 119, 210,220, 224

Plessner H., 109, 256Portmann A., 77, 98, 99, 102-111,

114, 123, 125-127, 237, 255, 256Prampolini M., 14, 262Prodi G., 88Putnam H., 26

Raff E.C., 251Raff R.A., 200, 251,Révész G., 69, 132-148, 150, 152,

153, 156-158, 171-173, 178, 184,186, 188, 240, 249, 257, 263

Rickards O.,, 127, 160, 191, 199, 256,257

Rivers W.H.R., 144Roberts R., 257Rosch E., 71Ruegamer W.R., 221Russo T., 234, 236, 258, 263

Sacks O., 68, 131, 145, 163, 178, 188,256

Sapolsky R.M., 221Saussure F. de, 257Scadden L., 258Scaravelli L., 15, 227, 229Scheler M., 77, 80, 82-86, 89, 92-95,

102, 106, 113, 255, 256Schilder P., 69, 262Schopenhauer A., 94, 255Schwartz J.H., 256, 257Schwob M., 68, 227Secchi L., 258Sellars W., 38Shepard R.N., 186Simion F., 223Simon H., 25Skinner B., 22-24, 26-28, 32, 37, 38,

45, 71, 77Stancati C., 28, 255

Eldredge N., 49, 119, 122Eliot L.Enns J.T., 59, 142, 255, 257

Ferretti F., 15, 71, 175, 186, 188, 253-255, 258

Field T.F., 252Fitch T.W., 233, 255, 260, 261Fletcher J.F., 138Focillon H., 129, 229Fodor J., 21, 38, 43, 44, 46, 203, 204,

220, 253, 254, 259, 260Fortuna S., 14, 232, 252, 255Fragaszy D.M., 188Fraisse P., 69

Galati D., 131, 188Gallese V., 71Gambarara D., 14, 231, 257, 260Gardner H., 30-33, 35, 37, 71, 113,

253Geldard F.A., 171Gentaz E., 131, 142, 188, 257Gibson E., 172Gibson J.J., 10, 32, 33, 36-38, 58, 62,

68, 69, 71, 73, 132, 139, 148-156,160, 162, 169, 171-173, 178, 188,238, 253, 256, 257

Gimenez-Sastre B., 15Goethe W., 96Goodal J., 190, 191Gould S.J., 15, 73, 100, 119-124, 127,

200-202, 206, 208, 209, 242, 251,256, 257

Gozzano S., 71, 251Gregory R., 61Gribbin J., 127, 191, 256

Harlow H.F., 222, 223, 261Hatwell Y., 131, 142, 188, 257, 258Hauser M.D., 233, 255, 260, 261Heidegger M., 70, 89-93, 95, 98, 105,

109, 110, 230, 259Heller M., 138, 142, 177, 188Hemingway E., 192Herder J., 94, 97, 98, 130, 189, 255Hjelmslev L., 235, 252, 262, 263Høeg P., 127

Houdé O., 35Hull J., 188Huxley A., 127

Jacob P., 15Johnson-Laird P., 18, 20, 36, 59, 62,

64Jonas H., 145

Kaczmarek K.A., 164Kant I., 15, 38Karas G.G., 221, 261Katz D., 10, 152, 171, 256, 263Kennedy J., 164, 172-181, 186, 187,

255, 257, 258Kiernan V.K., 248Klatzky R.L., 164Köhler W., 251Kollmann J., 120Kropoktin P., 17Kubrik S., 57, 60

Lacreuse A., 188Lamarck J.B.D.A., 191Lederman S.J., 164, 180-187Legrenzi P., 71, 253, 254Leibniz G.W., 67Lenay C., 171, 257Lenneberg E.H., 54Lestel D., 127, 190, 192, 216, 218,

251Levine S., 221, 222, 261Lévy-Bruhl L., 48, 49, 234, 252Lewkowicz D.J., 255Liebermann P., 226Linneo K., 256Liu D., 222Lock A., 159Locke J., 67Loomis J.M., 185Lo Piparo F., 87-89, 110, 255, 262Lorenz, 113-120, 122, 124, 225, 231,

256Luccio R., 26, 33, 253Ludovico A., 194, 196, 197, 251, 258

Magee B., 188Magee L.E., 172,

283282

agnosia, 67, 134, 262ambiente (Umwelt):– definizione del, 82– linguistico, 87– copernicano, 108-111– tolemaico, 109-111ambivalenza:– del paradigma cognitivo, 35, 36, 45,

56, 74, 174, 254, 261– tra riparazione e distruzione, 12,

212-215, 218, 220, 221, 230, 231,244

– tra separazione e allontanamento,13, 232

animali preumani (ominidi):– Australopithechi, 197, 199– Neanderthal, 160 – Oreopithechi, 160, 197– Orrorin, 198animali non umani:– acridi (grilli), 79, 80– agnelli, 221– antilopi, 121, 122, 195 – api, 91, 111, 216– axototl (salamandre), 121, 127, 201– balene, 103, 202– camosci, 122– cani, 22, 79, 88, 115, 124, 125, 155,

195, 196, 208, 250– chiocce, 79, 80, 83– corvi, 116-118– delfini, 155

– dinosauri, 201, 202, 209– elefanti, 22, 46, 50, 202, 204, 208– formiche, 80, 81, 190-193, 216-218,

258– gatti, 22, 91, 165, 195, 200, 247– gazzelle, 12, 193, 195, 214, 215,

245, 246, 258– gorilla, 158, 198– lombrichi, 49, 165– lupi, 12, 47, 193, 195, 196, 213,

215, 245, 258– orang-outan, 128, 198– orsi, 195, 202– panda, 257– pappagalli, 19, 48, 64– parameci, 78, 79, 91, 92, 114, 204,

259, 260– pipistrelli, 49, 112, 256– ragni, 83, 84– ratti, 116-118– scimpanzé, 128, 155, 157, 158, 190-

193, 195, 198, 216, 218, 222, 223,251, 262

– topi, 23, 204, 208, 260, 261– volpi, 47, 49, 80– zecche, 79animali umani (Homo sapiens):– Bororò (Brasile settentrionale), 48,

236– Boscimani (Africa meridionale),

121– Dusun (Borneo settentrionale), 144

Indice analiticoStreri A., 188, 257Swift J., 195, 203, 204, 207, 241, 260

Tabossi P., 34, 36, 59, 253Tagliagambe S., 226Tani I., 255Tattersal I., 214, 256Thagard P., 35, 36Tinbergen N., 113, 115Tobias P., 242Traversa G., 15Truffault F., 12Turchetto G., 250

Uexküll J. von, 77-80, 82-86, 88-95,102, 105, 106, 108, 110, 113, 114,116, 118, 119, 127, 150, 256, 259

Vallortigara G., 251

Vecchi T., 132, 188Virno P., 15, 127, 188, 212, 229, 239,

252, 255, 257Vygotskij L., 234-237, 250, 263

Ward L.M., 59, 142, 255, 257Watson J.B., 22, 23, 26, 27, 37, 77Watzlawick P., 20Went F.W., 206, 263White B.J., 166, 167, 257Williams T.R., 144Wing A.M., 257Wittgenstein L., 10, 18, 75, 76, 86,

88, 96, 120, 205, 252

Zaback L.A., 187Zahavi Amotz, 245, 246Zahavi Avishag, 245, 249Zimmermann R.R., 222, 223, 261

285284

illusione percettiva:– aptica, 139-143, 146, 167, 169, 174,

188– ottica, 44, 139-143, 169– prospettica, 112, 141, 164, 165,

169, 172 sgg., 186– uditiva, 167immagini mentali: 186-188, 255istinto:– carenza di, 13, 25, 84, 92 sgg., 101,

119, 126, 157, 196, 198, 215– definizione di, 81– del linguaggio, 45-47, 83, 89, 119,

211,– prestito di, 12, 196, 215– rigidità dell’, 12, 91, 92, 110, 126,

218, 258– sublimazione dell’, 82, 117

lavoro, 10, 95, 96, 132, 148, 156, 161,188, 206, 212, 240

linguaggio verbale:– come cura, 13, 14, 148, 231-233, 237– condizioni di possibilità per (origi-

ne del), 50, 66, 95, 127, 194, 195,197, 198, 205, 215, 240, 259

– contestualità del, 12, 46, 220, 235,262

– creatività del, 28, 39, 40, 43, 211– facoltà del, 11, 12, 14, 28, 197, 198,

210 sgg., 240, 243, 261– performatività del, 148, 211, 212,

229, 233, 262– riflessività del, 88, 219, 229, 230-

233, 235, 239– socialità del, 125-127, 144, 194,

198, 212, 215-220, 252, 257, 260linguistica, 30, 31, 34, 252logica partecipativa:– definizione della, 234– e monologo, 234 sgg.– e pensiero magico, 252

mammiferi, 84, 101, 103-105, 112,116, 117, 122, 123, 159, 165, 196,202, 221, 215, 231, 252, 256, 260

mani:– e lavoro, 10, 96, 148, 156, 161, 240

– e opponibilità del pollice, 100, 156-160, 197

– e presa di precisione, 159– liberazione delle, 64, 101, 107, 111,

112, 147, 148, 207, 226– umane e non umane, 93, 100, 132,

154 sgg., 188, 217, 257, 263maturazione, 13, 27, 102, 122, 210,

216, 256mentalese (linguaggio del pensiero),

43, 47, 48mentalismo (rappresentazionalismo),

26, 220, 254, 260mente (v. anche spirito), 17, 18, 20-

22, 25-33, 38-40, 42-45, 52-56, 66,72, 73, 76, 87, 89, 129, 131, 149,220, 254, 260

metalinguistico, 87, 233modellizzazione, 18, 20, 36, 37, 220mondo (Welt):– copernicano, 108 sgg.– definizione del, 82, 90– tolemaico, 107 sgg., 237morfologia corporea:– come immagine ambientale, 114– e autopresentazione (Selbstdarstel-

lung), 105, 106, 114– e biologia morfologica, 77 sgg.,

101, 106– e dimensioni, 209 sgg., 243– e liminarità, 219, 230 sgg., 262– e stazione eretta, 63, 64, 66, 71, 95,

96, 101, 107, 109, 111, 112, 121,160, 197, 199, 207-209, 242, 243,249, 256

– e specularità, 219, 225, 230 sgg.,262

natura (prima, seconda), 9, 13, 14, 40-42, 45, 50 sgg., 66, 71, 73-75, 84,85, 97, 98, 102, 110, 112, 118, 125,189, 193 sgg., 211-215, 220, 243

naturalizzazione, 11, 51-53, 254neotenia animale, 121, 122, 127neotenia umana (ultraneotenia): – definizione della, 11, 12, 120-122,

256– e cervello, 123, 213

– Esquimesi Netsilik (Artico), 144,215

– occidentali, 10, 48, 58, 67, 97, 129,130, 143, 144, 161, 164, 178, 215,240, 248

– ragazzi selvaggi, 12, 193-197, 215,251, 258

– Songe (Papua Nuova Guinea), 174– Toda (India meridionale), 144– tribù pellerossa (America setten-

trionale), 249– Vatussi (Africa centrale), 208antropogenesi, 98 sgg., 127antropologia:– culturale, 30, 31, 35, 36, 38, 42, 43,

47, 51, 143, 188, 234– filosofica, 10, 73, 74, 77, 102, 113,

115, 150, 190

calcolatore/computer, 11, 18, 20, 25-28, 31-33, 40, 43, 52, 56-59, 61, 62,64, 72, 76, 89, 149, 211, 259

cervello, 26, 38, 50-52, 55, 57, 63, 75,76, 83, 93, 100, 103, 104, 117, 118,123, 124, 204, 205, 213, 251, 252,254, 255

cieco:– che ritrova la vista, 67, 84, 131– capacità cognitive del, 135, 143,

151, 152, 172 sgg., 180 sgg., 258– metodo di scrittura del (Braille),

164, 171, 181 – mitologia sul, 129 sgg., 163 sgg.,

172 sgg., 188comportamentismo (behaviorismo),

22 sgg., 32, 36-40, 43, 45, 46, 53,56, 66, 71, 76, 77, 84-86, 105, 113-114, 131,

comunicazione animale, 79, 80, 245,246, 258

dialogo/monologo, 13, 218 sgg., 230sgg., 250

domesticazione:– e bisogno di contatto, 247– e distruzione ambientale, 215– e neofilia, 124, 195– e ragazzi selvaggi, 195, 196

emozione:– e cognizione, 20, 31, 64, 65, 167,

227– e cura tattile, 69, 224– e istinto, 81, 262– e neofilia, 124– e neotenia, 189– e rispecchiamento, 230EP (exploratory procedure), 181-184episensorialità (autoavvertimento),

95, 231, 262esonero:– e linguaggio, 102, 232, 233, 239,

256 – e sinestesia, 97, 239– e visione, 97estro, 126etologia, 10, 73, 113, 114, 118, 120,

127, 190, 217, 245evoluzione:– armonia prestabilita, 106, 113– coevoluzione, 214, 230, 252– continuismo vs discontinuismo, 47,

80, 83, 86, 119, 150, 191, 245, 246,251

– darwinismo (tipi di), 39, 43, 45, 56,100, 114, 115, 127, 191, 198, 204,261

– fissismo, 56, 260– legge di Dollo, 199-201, 251

Gestalt (forma dinamica)– nel tatto, 135, 137, 138, 141, 146, – nella vista, 137, 138, 146, 167– organismo come, 105, 106– psicologia della, 71, 73, 132, 152,

172, 188, 251, 256– vs struttura, 137, 138, 145-148gusto:– chi è privo del (ageusia), 67– e tabacco, 263

IA (intelligenza artificiale), 30, 31identità personale:– e principio di individuazione, 13,

48-50, 217– modulo della, 49– precarietà della, 13, 127, 231, 237

287286

specializzazione corporea/sensoriale:– e despecializzazione, 198-200, 252– e dimensioni corporee, 201 sgg.– e tatto, 9, 70, 71, 95, 96, 111, 121,

122, 159, 160, 184, 185, 226, 239,257

– e vista, 70, 71, 170, 185– mancanza di, 9, 94-96, 102, 111 sgg.,

159, 160, 190, 195, 198, 201, 211-213, 217, 226, 236, 237, 239, 256

spirito:– come anima, 67, 190, 191– come Geist, 77, 82, 84-86, 92, 103,

106sprovvedutezza, 97, 147, 148, 180,

190, 198, 209, 214, 218, 232

tatto:– come secondo senso, 71, 97, 189– come senso duplice, 10, 68, 71, 95-

98, 112, 189, 228 – primato del, 70, 144, 258tatto aptico (manuale):– chi è privo del, 67, 68– come active touch, 69, 135, 139,

151-153, 172, 173, 228– come dynamic touch, 151, 155, 160,

167– come senso del limite, 129 e sgg.,

161, 233– definizione del, 69, 161– di secondo ordine, 233, 244 sgg.– e immagini bidimensionali, 172 sgg.– i dieci principi del, 132-139– vulgate sul, 10, 131, 136, 161, 168,

171, 181tatto somestesico (corporeo):– chi è privo del, 67, 68– definizione del, 68, 160– di secondo ordine, 233, 241-243– e dimensioni corporee, 242– percezione del contatto (passive

touch), 69, 135, 136, 151-153, 171-173, 228, 229

– percezione del dolore, 68-70, 96,170, 171, 181, 220, 224, 227

– percezione dell’equilibrio, 68, 95-6, 107, 109, 220, 222, 233, 243, 244,256

– percezione della temperatura, 68,70, 96, 144, 153, 170, 171, 182-184,220, 222-224, 226, 228

– percezione viscerale, 68, 106, 220,222, 224, 262

– propriocezione (cinestesi), 68-69,133, 152, 220, 242

teoria modulare della mente:– definizione di modulo, 44, 45– modularismo massivo, 46 sgg., 254

udito:– chi è privo del (sordità), 67, 170– e autoavvertimento, 95, 262– e dimensioni corporee, 207, 260– e linguaggio, 60, 61, 255, 261– e tatto, 95, 167, 169, 258– fetale, 258utensile– definizione dell’, 156, 258– e animali non umani, 12, 155-158,

190-193, 216-218, 251, 258– e dimensioni corporee, 205-207,

211– e manualità, 67, 96, 97, 107, 136,

155-160, 180, 211

vibrazione – come diapason biologico, 155– percezione della, 70, 164, 258, 262vista:– ampiezza di campo della, 97, 108,

111, 134, 137, 145, 185, 229– come senso per eccellenza, 10, 58-

60, 71, 131, 144, 163, 189, 240, 248,254,

– e dimensioni corporee, 205, 207,258

– e linguaggio, 58, 61, 112, 138, 171,181

– e tatto, 69, 70, 97, 112, 130, 131,134 sgg., 152-154, 162 sgg., 229,240, 250, 261, 262

– e dimensioni corporee, 201, 217,259

– e dipendenza, 125, 189, 196, 224,225, 237, 247

– e intimità, 125, 189, 247, 249– e linguaggio, 123, 211, 213, 232,

237, 249– e mani, 159, 160, 197, 213, 247– e neofilia, 124, 125, 196, 215, 232,

249– e nudità, 121, 197, 213, 225, 262– e sessualità, 126– lista dei tratti della, 100neuroscienze, 30, 31, 34, 51, 75

olfatto:– chi è privo del (anosmia), 67– e ragazzi selvaggi, 196

pelle, 10, 13, 42, 44, 50, 64, 69, 70, 73,96, 100, 105, 111, 112, 121, 151,152, 168-172, 226, 228, 252

percezione:– amodale, 65, 163, 178– intermodale, 65, 255– modale, 60, 61, 65, 70, 79, 97, 139,

141, 162, 163, 169, 170, 211, 240paradigma cognitivo:– come controrivoluzione, 37, 45, 56-

58, 131– come rivoluzione, 26-29, 71– e cognitivismo ecologico, 10, 29,

32, 33, 38, 62, 73, 132, 148, 149,155, 172, 180, 188, 238, 253

– e cognitivismo ortodosso, 11, 19,21, 33, 36, 37, 39, 43, 53, 76, 118,149, 169, 181, 203, 204, 253, 259-261

– e Nuova Sintesi, 43-47, 56, 254 – e scienze cognitive, 11, 15, 17-22,

25 sgg., 71, 72, 146, 162, 164, 187,188, 190, 202, 220, 238, 253, 254,261

– esagono cognitivo, 30, 31, 33-36,38, 71

plasticità:– e linguaggio, 119, 211, 233, 237,

238, 262

– e mobilità corporea, 95, 122, 237,238

– e neotenia, 12, 125, 159, 195, 196,262

– e ragazzi selvaggi, 12, 195, 196 – e riflessività corporea, 230, 231, 262– e socialità, 195, 196, 216– e tatto manuale, 10, 11, 96, 132-4,

145-148, 155, 159, 184, 185, 230,231, 237, 238

– e utensili, 158, 159, 193, 216primati, 53, 72, 93, 98-101, 103-105,

107, 108, 111, 113, 117, 121-123,126-128, 156-159, 189-193, 200,202, 207, 216, 221-223, 252, 254,256, 263

principio dell’handicap, 245, 246problema figura-sfondo, 19, 22, 48,

63, 64problema dell’hangar, 20-22, 37, 38,

43, 254, 255protesi:– bastone bianco, 151, 152, 155, 156,

168, 177– impianto cocleare, 170– occhio artificiale, 170– TVSS (Tactile Visual Substitution

System), 164 sgg., 257, 258

rappresentazione, 21, 26, 44, 62, 72,80-82, 107, 135, 171-175, 178, 179,187, 202, 204, 211, 212, 220, 254,255, 259, 260

relativismo culturale, 41, 47, 74, 220res cogitans/res extensa, 25, 29, 53, 54,

66, 75, 84, 85, 92riduzionismo linguistico, 11, 86 sgg.,

110, 118, 155-157, 190, 194, 202,220, 260

selezione R, K, 122, 123, 256, sinestesia:– come filtro, 97, 239– come ridondanza, 169– come tessuto del percepire umano,

59, 66, 72, 79, 84, 97, 169, 170, 237,262

– e questione di Molyneux, 67, 84– e tatto, 66, 97, 169

Editing e impaginazione: Spell srl - RomaFinito di stampare nel mese di settembre 2003

per conto degli Editori Riunitidagli Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. - Roma

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