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Sulla pelle viva

Date post: 27-Nov-2023
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SAMIZDAT 7
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S A M I Z D AT 7

© DeriveApprodi srlTutti i diritti riservatiI edizione: gennaio 2012

DeriveApprodi srlPiazza Regina Margherita 27 00198 Romatel 06 85358977 fax 06 97251992

[email protected]

ISBN 978-88-6548-039-7

sulla pelleviva

il primo sciopero autorganizzatodei braccianti immigrati in Italia

testi di:Brigate di solidarietà attiva, Gianluca Nigro,

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto, Yvan Sagnet

Introduzione

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Nell’estate del 2011 le campagne del basso Salento so-no state scenario del più importante e lungo scioperoauto-organizzato di braccianti stranieri, tutti africani,impiegati nel settore agricolo. Nel cuore dell’estate sa-lentina tra spiagge, concerti e notti tarantolate, alcunecentinaia di braccianti occupati nella raccolta delle an-gurie e del pomodoro sotto la sferza del sistema del ca-poralato «etnico» e di un padronato italiano poco pro-penso alla meccanizzazione hanno incrociato le brac-cia e preso la parola direttamente. Questo volumericostruisce le dinamiche che hanno determinato pri-ma e sostenuto poi allo sciopero. Si tratta di un’espe-rienza che ha costituito per alcune settimane un vero eproprio laboratorio politico.

L’area della Masseria Boncuri a Nardò è adibita al-l’accoglienza dei lavoratori stagionali, tutti originari dal-l’Africa settentrionale e sub-sahariana. I lavoratori mi-granti presenti in parte seguono la stagionalità delle col-ture agricole del Mezzogiorno, in parte sono statiespulsi dalle fabbriche del Settentrione e in parte sonolavoratori generici che cercano qui di guadagnare qual-che soldo. Essi costituiscono una forza lavoro mobile

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sottoposta a un forte livello di emarginazione sociale esfruttamento del lavoro legato alla loro maggiore ricat-tabilità. Il modello portato avanti a Boncuri nasce incontrapposizione alla forme più diffuse di accoglienzacaritatevole. Per le associazioni che hanno gestito laMasseria, la onlus pugliese Finis Terrae e le Brigate disolidarietà attiva, l’accoglienza è uno strumento persensibilizzare i lavoratori migranti in merito all’emer-sione del lavoro nero e per attivare processi di emanci-pazione ed auto-organizzazione dal basso. In questosenso fin dal 2010 è stata organizzata dalle due associa-zioni la campagna «Ingaggiami. Contro il lavoro nero».

I saggi qui presentati esaminano lo sciopero da diver-si punti di vista. Si tratta di analisi proposte da chi ha vis-suto direttamente la Masseria Boncuri e i giorni dellosciopero e che cercano di contestualizzare la protesta deilavoratori nel più ampio ed articolato intreccio tra i temidell’immigrazione e quelli dello sfruttamento del lavoro.Nelle analisi e nelle narrazioni che seguiranno, da quel-la della ricerca sociologica al vissuto personale di unbracciante portavoce dello sciopero, il tema del lavoro as-sume una centralità inedita, divenendo vera e propriachiave di lettura per la comprensione del fenomeno.

Mimmo Perrotta e Devi Sacchetto analizzano il fe-nomeno dello sciopero sottolineando l’eccezionalità diriuscire a essere presenti, seppur in modo discontinuo,durante l’evento, cioè proprio mentre il fenomeno og-getto dello studio si sta verificando. Questo essere pre-senti sul campo, la raccolta di materiale in «presa diret-ta», influisce ovviamente sulla formulazione della ri-cerca stessa. Le interviste ai lavoratori durante losciopero aiutano a ricostruire i percorsi di lavoro e di vi-ta a partire dai paesi di origine fino alle diverse articola-

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zioni dei processi migratori e della loro adesione alla so-spensione del lavoro.

Il saggio di Yvan Sagnet, il giovane camerunensedivenuto nell’arco di poche ore il leader naturale dellalotta dei braccianti, rende evidenti le dinamiche di tra-sformazione della propria soggettività prodotte da unevento sottoposto ai riflettori dei media, dei sindacati epiù in generale delle istituzioni. L’esperienza di Sagnetè importante perché segnala come sia possibile rico-struire forme di lotta che travalicano la divisione «etni-ca» basata su fittizie comunità di migranti, sebbenequeste stesse dinamiche comunitarie siano continua-mente riproposte.

Il tema più ampio della migrazione legato a quellodello sfruttamento del lavoro nero non solo della popola-zione africana, ma della complessa categoria «migran-te» presente in Italia viene affrontato da Gianluca Nigro,operatore di Finis Terrae e responsabile legale del campodella Masseria Boncuri. Egli ritiene che le analisi com-piute negli ultimi quindici anni sul tema della migrazio-ne hanno per lo più visto l’elemento del lavoro nero co-me un aspetto secondario determinato dall’assenza diun’adeguata regolarizzazione dello status giuridico deglistranieri in Italia. Nigro cerca di rovesciare la retoricamostrando come la legislazione relativa all’immigrazio-ne non sia altro che uno degli elementi fondamentalidella gestione del mercato del lavoro. In questo senso laMasseria Boncuri con il suo campo «aperto» rappresen-ta un terreno nuovo e di sperimentazione in cui il feno-meno sul quale si agisce va assunto con tutte le contrad-dizioni che questo comporta.

L’agire pratico dentro queste contraddizioni e le dif-ficoltà nel riuscire a rendere comprensibile all’esterno il

significato profondo di cosa significhi «agire sul feno-meno a partire dal fenomeno» sono il centro dell’ultimosaggio frutto di un lavoro collettivo delle Brigate di soli-darietà attiva. Nell’articolo si alternano analisi e testi-monianze dirette dei circa centoventi volontari-militan-ti che durante i tre mesi di apertura del campo si sonoalternati nella gestione della Masseria.

Lo sciopero dei braccianti di Nardò rappresenta unmomento importante nella storia del movimento ope-raio in Italia dal punto di vista sia delle pratiche sia del-l’analisi. Forse è proprio a partire da chi in una difficilefase economica e politica riesce a riprendere diretta-mente la parola e a imporre una lotta durissima che oc-corre puntare lo sguardo.

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Oggi se Nardò è nella storia è grazie a noi e noi possiamo fare inmodo che le persone sappiano questo. Adesso non sappiamo co-me fare per mangiare, ci siamo sacrificati, ma lo stesso sacrificioche abbiamo fatto possiamo farlo ancora.

Sidiki, burkinabé

Introduzione

È raro che un ricercatore si trovi nel luogo di un eventomentre questo accade. Anche quei ricercatori sociali –e non sono molti in Italia – abituati ad «andare sulcampo», cioè a servirsi di metodologie come l’intervi-sta, l’osservazione, l’inchiesta etnografica, e a incontra-re di persona gli «oggetti» delle loro ricerche, solita-mente osservano le routine giornaliere, i contesti «nor-mali» di vita quotidiana, oppure ricostruiscono aposteriori eventi importanti, attraverso le testimonian-ze e i racconti raccolti.

In questo caso, abbiamo potuto assistere allo sciope-ro di Nardò fin dall’inizio, sebbene non vivessimo all’in-terno del campo. Come sociologi, conduciamo ricerchesui flussi migratori, sul lavoro degli stranieri in Italia,anche in agricoltura, sulle lotte che vedono protagonisti

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«Un piccolo sentimento di vittoria»Note sullo sciopero di Nardò

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto

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i migranti. L’esperienza di accoglienza e di lavoro con ibraccianti stranieri condotta alla Masseria Boncuri ci èda subito sembrata interessante e avevamo già visitato ilcentro nel 2010. Quest’anno, insieme ad alcuni degli at-tivisti di Finis Terrae e delle Brigate di solidarietà attivaimpegnati nella gestione del campo, ci apprestavamo acondurre una serie di interviste con i migranti. Nei gior-ni precedenti lo sciopero avevamo già avuto un collo-quio con un agronomo locale, che ci aveva indicato al-cune caratteristiche dell’organizzazione produttiva del-l’agricoltura neretina, segnalandoci un cambiamentonella struttura proprietaria a favore di commercianti.

Non casualmente, quindi, nel giorno in cui lo sciope-ro inizia, sabato 30 luglio 2011, siamo alla Masseria perraccogliere alcune storie di vita dei migranti presenti nelcampo. Gli eventi ci mettono però di fronte a una realtàche si evolve in fretta e che sentiamo l’esigenza di raccon-tare in presa diretta1. Nei giorni successivi, torneremo so-vente alla Masseria per assistere alle assemblee, per in-tervistare i migranti, in particolare quanti con più forza sispendono per lo sciopero, per scambiare opinioni con ivolontari-militanti italiani, oppure, più semplicemente,per girare nel campo, consapevoli di essere comunqueuna presenza «estranea»: conosciuti, ma né migranti névolontari né giornalisti né membri del sindacato. Al con-tempo, manterremo durante quelle settimane un occhioattento a quanto si muove negli altri territori dell’Italiameridionale nei quali contemporaneamente si svolge laraccolta del pomodoro, in particolare nel foggiano e nel

1. Per alcuni degli articoli si rimanda al sito: http://lavoromigrante.splin-der.com. Per una prima analisi, M. Perrotta e D. Sacchetto, «Lo scioperodei braccianti di Nardò», in Lo straniero, 136, ottobre 2011, pp. 19-25.

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Nord della Basilicata, e nei quali ai braccianti impegnatiarriva l’eco di quanto accade a Nardò.

Nel nostro contributo a questo volume ci proponia-mo tre obiettivi: in primo luogo, cercheremo di inserirequanto accaduto a Nardò nel più ampio contesto dell’I-talia meridionale, tratteggiando brevemente la storia ele caratteristiche dell’impiego di lavoratori migrantinell’agricoltura del Mezzogiorno. In secondo luogo, uti-lizzando i dati fornitici dagli operatori della MasseriaBoncuri e le interviste da noi realizzate, descriveremo leesperienze di lavoro e di vita dei lavoratori migranti cheerano presenti nel campo, oltre che le motivazioni che lihanno spinti a intraprendere questa lotta. In terzo luo-go, rielaborando quanto da noi osservato e ascoltato nel-le assemblee serali a Boncuri, nelle tante discussioni in-formali con i migranti e in alcune interviste ai leaderdello sciopero, ne ripercorreremo alcune fasi salienti,cercando di rievocare il clima di quei giorni, le rivendi-cazioni, le speranze, le delusioni, ma anche la crescita ei mutamenti che i giorni di lotta hanno prodotto nel ba-gaglio di esperienze di questi lavoratori. In conclusio-ne, metteremo in luce come lo sciopero di Nardò possacostituire un momento di trasformazione della situa-zione dei braccianti stranieri impiegati in agricoltura e,più in generale, del settore agricolo del Mezzogiorno edei lavoratori migranti in Italia.

1. La «normale» irregolarità dell’agricolturameridionale

L’impiego di lavoratori stranieri nelle campagne delMezzogiorno è un fenomeno rilevante: iniziato neglianni settanta in Sicilia, con immigrati prevalentemente

2. Inea, Gli immigrati nell’agricoltura italiana, a cura di M. Cicerchia e P.Pallara, Roma 2009.

tunisini, si è progressivamente esteso durante gli anniottanta a molte altre aree. Dapprima immigrati magh-rebini, poi provenienti dall’Africa sub-sahariana, quin-di, soprattutto nel corso degli anni 2000, dall’Europaorientale, hanno popolato i campi dell’Italia meridiona-le. La loro presenza man mano più numerosa ha per-messo alle imprese agricole di scegliere il tipo di mano-dopera più confacente alle loro necessità e di sopperirealla minore propensione degli «autoctoni» a svolgeremansioni faticose e a basso salario. Le pressioni dellaconcorrenza internazionale e i bassi prezzi dei prodottiche commercianti e strutture della grande distribuzio-ne organizzata pagano agli agricoltori si sono riversatecosì sulla composizione della manodopera e sulle con-dizioni salariali e di lavoro.

Secondo l’Istituto nazionale di economia agraria2,nel 2007 hanno trovato impiego nell’agricoltura meri-dionale circa 50.000 lavoratori stranieri, sebbene sitratti di stime che andrebbero probabilmente corrette alrialzo. Il rapporto dell’Inea mostra come, pur in presen-za di realtà in cui il lavoro migrante si va stabilizzando,la stagionalità e l’irregolarità restano caratteristiche do-minanti dell’impiego degli stranieri nell’agricoltura delMezzogiorno: quasi il 90% è occupato stagionalmente(a fronte di una media italiana del 73%); il 57% lavora inoperazioni di raccolta (contro il 35% nel centro-nord); il63% ha un rapporto di lavoro irregolare (con punte del95% nel foggiano e in Calabria); il 77% percepisce unaretribuzione inferiore a quella stabilita dai contratti col-lettivi di lavoro.

D’altro canto, va sottolineato come il lavoro migrante

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3. Cfr. ad esempio Medici senza frontiere, I frutti dell’ipocrisia. Storie di chil’agricoltura la fa. Di nascosto, Sinnos, Roma 2005.4. Cfr. A. Botte, Mannaggia la miserìa. Storie di braccianti stranieri e capo-rali nella Piana del Sele, Roma, Ediesse, 2009; P. Saitta e A. Sbraccia, La-voro, identità e segregazione a Mazara del Vallo, Cespi, Roma 2003.

nell’agricoltura del Sud Italia non rappresenti una realtàomogenea. In alcune aree i lavoratori stranieri trovanoimpiego soprattutto nei periodi delle «grandi raccolte»:il pomodoro da industria nel foggiano e nell’alta Basili-cata da luglio a ottobre, gli agrumi nella Piana di GioiaTauro in inverno, le patate nel siracusano in giugno, lavendemmia e la raccolta delle olive in molte regioni. Inaltri territori, invece, si è sviluppata una ricca agricolturain serra, che offre occasioni di lavoro per quasi tutto l’an-no, come nella Piana del Sele o nel ragusano.

Le diverse nazionalità di migranti coinvolte adotta-no traiettorie migratorie differenti e trovano impieghi econdizioni di alloggio diversificate. Come vedremo an-che in merito alla composizione dei lavoratori presentia Nardò, mentre molti dei migranti provenienti dall’A-frica occidentale (ad esempio i burkinabé, gli ivoriani ei ghanesi) si spostano in maniera circolare tra Campa-nia, Puglia, Basilicata e Calabria seguendo le stagioni diraccolta3, i maghrebini cercano di insediarsi più stabil-mente in alcune aree, come è il caso dei marocchini nel-la Piana del Sele e dei tunisini in Sicilia4.

Le condizioni giuridiche di questi lavoratori sono dif-ferenziate: vi sono migranti neocomunitari, che posso-no essere assunti al pari degli italiani, migranti non co-munitari con permesso di soggiorno per motivi di lavo-ro, di studio o di ricongiungimento familiare, migrantientrati in Italia grazie ai decreti flusso per lavoro stagio-nale, richiedenti asilo e infine migranti privi di permes-

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5. Cfr. S. Potot, «La précarité sous toutes ses formes: concurrence entretravailleurs étrangers dans l’agriculture française», in A. Morice e S. Po-tot (coord.), De l’ouvrier sans-papiers au travailleur détaché: les migrantsdans la «modernisation» du salariat, Karthala, Paris 2010, pp. 201-224.

so di soggiorno. Va tuttavia sottolineato come l’irregola-rità – del soggiorno e del contratto di lavoro – sia fre-quentissima, come mostrano le stime Inea. Un’irregola-rità «abituale» e diffusa nel settore agricolo del Mezzo-giorno dove tassi elevati di lavoro nero sono riscontrabilianche per i lavoratori italiani, ma connessa altresì, per imigranti non comunitari, all’attuale legislazione sul-l’immigrazione, che rende spesso impossibile la regola-rizzazione dei lavoratori. Lo stesso strumento delle quo-te d’ingresso per lavoro stagionale è stato negli anni scor-si spesso inadeguato a coprire il fabbisogno dimanodopera, oltre ad essere foriero di imbrogli ai dannidei migranti. L’irregolarità appare strutturalmente ne-cessaria affinché molte aziende agricole possano «resta-re sul mercato»: se in altri paesi europei, come la Franciae la Germania, l’abbassamento del costo del lavoro è fa-vorito dall’utilizzo di permessi di soggiorno e contrattistagionali5, nel Sud Italia anche questi strumenti legalivengono meno e il disciplinamento della manodoperamigrante è garantito dal lavoro nero o grigio e dall’as-sunzione informale di migranti spesso senza documen-ti, oltre che dalla mediazione assicurata dai caporali.

Negli anni scorsi, molti migranti impiegati in agri-coltura individuavano la prospettiva di un migliora-mento delle proprie condizioni di vita e di lavoro nell’u-scita da questo settore economico e da queste regioni:dopo anni di lavoro irregolare e senza permesso di sog-giorno, una volta ottenuta una regolarizzazione, soven-te attraverso una delle periodiche «sanatorie», essi si

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6. La Puglia è, assieme all’Emilia Romagna, la regione italiana nella qua-le viene prodotta la maggiore quantità di pomodoro da industria: nel2008, su un totale italiano di 89.376 ettari e 4.949.846 tonnellate pro-dotte, in Puglia sono stati coltivati 25.350 ettari, per una produzione di1.616.750 tonnellate e in Emilia Romagna 22.799 ettari, per una produ-zione di 1.359.949 tonnellate (cfr. Istituto Nazionale di Economia Agra-ria, Annuario dell’agricoltura italiana, Napoli, Esi, 2008). La zona pugliese

spostavano in altre zone d’Italia o d’Europa per lavorarenelle costruzioni o nell’industria. Questa possibilità di«fuga», cioè di progressiva sistemazione, si è negli ulti-mi anni fortemente ridotta, sia perché ormai dal 2002non viene varato dal governo italiano un provvedimen-to di regolarizzazione, fatta eccezione per la «sanatoriadelle badanti» del 2009 – una regolarizzazione che si èperaltro rivelata una «truffa» per molti migranti –, siaperché la sopraggiunta crisi economica ha di fatto ridot-to le possibilità di impiego nell’Italia centro-settentrio-nale e ha anzi costretto molti migranti a tornare sui pro-pri passi e quindi cercare lavoro, di nuovo, nell’agricol-tura meridionale.

La crisi economica e le politiche governative trasfor-mano di fatto molte aree rurali del Sud Italia in luoghidi confinamento sia di molti dei migranti arrivati negliultimi anni dall’Africa, compresi quanti sono giunti nelcorso del 2011, provenienti dalla Tunisia o fuggiti dalconflitto libico, sia di quanti hanno perso un impiego inaltre zone d’Italia. Questa situazione acuisce le contrad-dizioni sociali ed economiche in un settore economicoe in aree geografiche già molto fragili. Lo sciopero diNardò ha mostrato appieno queste contraddizioni.

Nel Salento, e in particolare nella zona di Nardò, i la-voratori agricoli migranti sono impiegati dai primi anninovanta soprattutto nella raccolta delle angurie e, in mi-sura minore, dei pomodori6, nei mesi di luglio e agosto.

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di maggiore produzione è però di gran lunga la pianura della Capitanata,in provincia di Foggia. Per la trasformazione, i produttori della zona diNardò possono contare su due industrie conserviere situate in provinciadi Brindisi, anche se buona parte del pomodoro prodotto in Puglia vienetrasformato in Campania.7. Nel 2011 nella zona di Nardò gli ettari coltivati ad angurie sono circa2.000. Secondo le informazioni raccolte vi sarebbero sei-sette grandiaziende, che lavorano diverse centinaia di ettari ciascuna e che talvoltasubappaltano le attività di raccolta, mentre le aziende di minori dimen-sioni sarebbero un centinaio. 8. Per la Calabria si veda ad esempio A. De Bonis, «Processi di sostituzio-ne degli immigrati di diversa origine nel mercato del lavoro agricolo», inG. Sivini (a cura di), Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività, Rubet-tino, Soveria Mannelli (Cz) 2005, pp. 157-178.

Proprio la presenza dei migranti ha rappresentato unodei fattori che hanno consentito alla coltivazione delleangurie di crescere in maniera importante nel corso de-gli anni novanta7. Per anni, l’attività di raccolta è statamonopolizzata da migranti provenienti dalla Tunisia eda altri paesi del Maghreb – molti dei quali risiedonopiuttosto stabilmente in altre regioni del Mezzogiorno,soprattutto in Sicilia –, ai quali si sono aggiunti più re-centemente braccianti originari dell’Africa orientale eoccidentale, impegnati nei mesi restanti in altre campa-gne di raccolta. Nardò costituisce un momento «mino-re» delle campagne di raccolta delle regioni del Sud, inquanto occupa alcune centinaia di lavoratori, a frontedelle migliaia richiamate dal pomodoro nel foggiano odagli agrumi nella Piana di Gioia Tauro. Va rilevato co-me in quest’area non si siano verificate forme di sosti-tuzione della manodopera osservate in altri contesti ita-liani ed europei, dove migranti esteuropei sono suben-trati ad africani in alcune nicchie di lavoro inagricoltura8. Nonostante a Nardò e in alcune cittadinelimitrofe i rumeni costituiscano la nazionalità stranierache conta il maggior numero di residenti, fino ad ora i

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9. Inea, Gli immigrati nell’agricoltura italiana, op. cit. Va sottolineato co-me, nel corso del 2010, grazie alla campagna «Ingaggiami contro il lavo-ro nero» sostenuta dall’Associazione Finis Terrae e dalle Bsa, solo nell’a-rea di Nardò siano stati aperti circa 170 fogli d’ingaggio.

raccoglitori di angurie e pomodori non vengono reclu-tati tra gli stranieri già presenti, ma essi giungono da al-tre zone d’Italia appositamente per la raccolta. Forse losciopero di Nardò può rappresentare il momento disvolta anche per quest’area.

L’Inea stima che nel 2006 i braccianti agricoli noncomunitari occupati in provincia di Lecce fossero3.300, il 91% dei quali con impiego stagionale e il 79%con contratti di lavoro «informali»; in effetti, nel corsodegli anni, gli operai agricoli stranieri titolari di contrat-ti di lavoro a tempo determinato e indeterminato in pro-vincia non sono mai stati più di un centinaio9. A frontedi questi numeri, il decreto flussi del 2011 – emanatocon forte ritardo il 17 febbraio 2011 – ha previsto 1.000arrivi stagionali nel leccese. Tuttavia, la raccolta delleangurie e del pomodoro nella zona di Nardò ha vistoimpiegati pochi di questi stagionali: la gran parte deibraccianti non proveniva dal proprio paese d’origine,bensì era già presente in altre zone d’Italia.

Come in tutto il Mezzogiorno, una delle questioni piùdrammatiche vissute dai migranti occupati in agricoltu-ra riguarda le condizioni abitative. Secondo Lotteria ePerrone, nel corso degli anni novanta i maghrebini im-piegati nella raccolta delle angurie trovavano ripari di for-tuna in edifici abbandonati, in garage e casolari sparsinelle campagne, oppure all’aperto, in un uliveto sullastrada provinciale Gallipoli-Lecce o addirittura nelle stra-de del centro storico di Nardò. Nel 1996 aveva scarsa for-tuna un primo tentativo di realizzare nei pressi di Nardò

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10. K. Lotteria e M. Perrone, «Migranti e lavoro agricolo: la raccolta delleangurie nel Salento», in Transiti e approdi. Studi e ricerche sull’universo mi-gratorio nel Salento, a cura di L. Perrone, Milano, Angeli, 2007, pp. 85-110.L’articolo contiene anche una descrizione dei luoghi di contrattazione dellavoro e dell’organizzazione del caporalato, nonché il racconto di un epi-sodio nel quale un bracciante tunisino, dopo essersi ribellato alle imposi-zioni del caporale, era stato da questi accoltellato in pubblico, nell’area diun distributore di benzina dove si svolgeva usualmente il reclutamentodella manodopera.

un Centro di Accoglienza destinato a migranti regolari egestito da operatori Caritas in accordo con le ammini-strazioni provinciale e comunale. Miglior esito ha avutoinvece un’esperienza di accoglienza gestita da un sacer-dote della vicina Collemeto, durata per circa dieci anni10.A lungo, dunque, a Nardò come in altre zone del Sud Ita-lia, i migranti hanno sperimentato tre tipi di abitazioni: il«ghetto», cioè una grossa concentrazione di migranti inedifici abbandonati o in baraccopoli; una presenza piùdispersa nei casolari abbandonati nelle campagne; il cen-tro di accoglienza, gestito in maniera più o meno «chiu-sa» e «militarizzata». Uno dei motori dello sciopero è sta-to costituito, come vedremo, proprio dall’aver sperimen-tato una nuova forma di centro di accoglienza «aperto».

2. Presenze africane alla Masseria Boncuri

Per comprendere cosa ha reso possibile lo scioperodi Nardò, un primo ordine di riflessioni riguarda lacomposizione sociale dei migranti ospitati nel centro diaccoglienza della Masseria Boncuri. L’analisi che seguesi basa sui dati relativi ai migranti registrati, sia nel 2011sia nel 2010, dalle associazioni che hanno gestito ilcampo, su alcune discussioni con i volontari e sulle in-terviste da noi realizzate nei giorni dello sciopero.

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Nell’arco dei due mesi e mezzo di apertura, i mi-granti passati dal campo, tutti maschi e provenienti dalcontinente africano, sono stati probabilmente 7-800,con punte di 500 nei momenti di massima affluenza,sebbene i posti messi a disposizione dall’amministra-zione comunale fossero poco più di 200. Gli operatoridi Finis Terrae e delle Bsa ne hanno censiti 372, un nu-mero analogo a quello del 2010, quando ne erano staticontati 400. La registrazione per i migranti era facolta-tiva e mirava a ottenere un posto in tenda e una brandi-na, o almeno a essere collocati nella lista d’attesa. Lapriorità nell’assegnazione era riservata a quanti dispo-nevano di un ingaggio regolare: le associazioni avevanoinfatti l’obiettivo di stimolare i braccianti a chiedere uncontratto al datore di lavoro e di favorire la fuoriuscitadall’illegalità. Il «censimento» è quindi largamente in-completo, sia perché il database non è compilato in tut-te le sue parti sia perché una parte di chi era al camponon passava a registrarsi negli uffici sia, infine, perchéla presenza alla Masseria variava quasi quotidianamen-te. Una parte dei tunisini, ad esempio, ha lasciato Nardòdopo aver capito che per la raccolta delle angurie non cisarebbe più stata possibilità di lavoro.

Molti dei migranti privi di permesso di soggiorno,inoltre, non sono stati censiti, poiché la convenzioneper la gestione del campo era riferita solo a persone cheavessero una qualche forma di presenza regolare in Ita-lia. È però possibile stimare che, come nel 2010, abbia-no trovato ospitalità circa 40-50 migranti senza docu-menti. Infine, nella Masseria era presente un’altra ven-tina di persone, tra cui un paio di donne, che gestivano i«ristorantini» ricavati da baracche costruite nel retrodella struttura.

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Il database ci permette di avere un quadro delle pre-senze. Tra le nazionalità presenti al campo nel 2011, inmodo non troppo dissimile rispetto all’anno precedente,tunisini, sudanesi e ghanesi contano per quasi il 70%della popolazione censita (contro circa il 63% nel 2010).In ordine di consistenza troviamo poi: ivoriani, algerini,burkinabé, che sono tra coloro che più si sono spesi nel-lo sciopero, e quindi maliani, marocchini, liberiani, ni-geriani, nigerini, togolesi, somali, eritrei, senegalesi, ca-merunensi, beninesi, ciadiani e congolesi. Gli abitantidella Masseria sono nel pieno dell’età lavorativa: circa il90% delle persone presenti ha tra i 18 e i 40 anni. Ilgruppo più anziano è quello dei tunisini, mentre i suda-nesi presenti si dividono tra trentenni e quarantenni. Ipiù giovani sono sicuramente i ghanesi, che per la mag-gior parte sono sotto i 30 anni.

I migranti tunisini sono stati tra i primi ad arrivarealla Masseria e hanno occupato la maggior parte dei po-sti in tenda: essi fino alla prima decade di luglio costi-tuivano circa la metà dei migranti nel campo. Successi-vamente con la sostanziale chiusura della raccolta delleangurie, in cui i tunisini sono «specializzati», il quadroè mutato. La raccolta dei pomodori è qui infatti appan-naggio prevalentemente di sudanesi che, a partire dallametà di luglio, sono arrivati in forze. Di fronte alle scar-se possibilità di reperire un posto in tenda, molti suda-nesi, e in generale quanti sono arrivati a partire dallametà di luglio, hanno optato per tendine singole o ba-racche di fortuna, senza passare per il vincolo della regi-strazione. Verso la fine di agosto la proporzione fra tu-nisini e sudanesi era pressoché invertita: i sudanesi era-no circa il 40% del campo, i tunisini meno del 15%.

Una parte relativamente consistente di tunisini è ar-

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rivata in Italia nel corso del 2011, dopo la caduta di BenAlì, e conta su un permesso per motivi umanitari. Allostesso tempo la quasi totalità dei sudanesi dispone diun permesso come «protezione sussidiaria» oppure haottenuto l’asilo politico. La terza nazionalità più consi-stente, quella dei ghanesi, è invece presente in Italiacon una maggiore eterogeneità di permessi: lavoro sub-ordinato, motivi umanitari, protezione sussidiaria.Complessivamente il campo nel 2011 è caratterizzatoda una sorta di semplificazione e concentrazione nellatipologia dei permessi di soggiorno: una maggioranza(54%), in decisa crescita rispetto all’anno precedente(42%), dispone di un permesso collocabile all’internodell’area della protezione (motivi umanitari, protezionesussidiaria, richiedenti asilo), mentre in lieve incre-mento (36% nel 2011 contro il 33% del 2010) sono colo-ro che godono di un permesso per lavoro subordinato:metà di questi sono tunisini, a cui si aggiungono quasitutti gli algerini presenti, una parte dei burkinabé e deighanesi. A chi è in possesso di un permesso per lavorosubordinato può essere affiancato chi dispone di unacarta di soggiorno (4% nel 2011, solo l’1% nel 2010): sitratta prevalentemente di tunisini tra i 30 e i 40 anni. Irimanenti sono in attesa di rinnovo, dispongono di unpermesso per assistenza minore o per motivi familiarioppure svolgono attività come lavoratore autonomo.Due migranti censiti, infine, dispongono del permessoper motivi di studio.

Dunque, tra i presenti al campo vi sono da un latomigranti in fuga dai conflitti bellici (in particolare daquelli che hanno caratterizzato il Sudan, la Costa D’A-vorio e più recentemente la Libia) o alla ricerca di unanuova mobilità dopo gli anni di forte controllo delle mi-

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grazioni (come nel caso della Tunisia); dall’altro lato mi-granti presenti da più tempo in Italia, seppur con traiet-torie differenti. Chi proveniva dalla Libia era spesso oc-cupato, almeno fino all’inizio del conflitto, nelle costru-zioni o in altre attività come operaio generico, mentre itunisini arrivati recentemente svolgevano attività sal-tuarie, spesso collegate al turismo. Tra quanti inveceavevano già precedenti esperienze lavorative in Italiapossiamo distinguere tre categorie: tunisini occupati inmodo semi-regolare per diversi mesi all’anno nell’agri-coltura siciliana, per i quali Nardò rappresenta un’occa-sione per arrotondare il salario annuale; africani sub-sahariani che seguono i cicli delle raccolte nelle regionimeridionali (Foggia, Palazzo San Gervasio, Rosarno,Castelvolturno) e che integrano talvolta il lavoro in agri-coltura con altre mansioni nell’industria, in edilizia enella logistica; infine, migranti di diverse nazionalitàcolpiti dalla recente crisi economica e che erano occu-pati nell’Italia centro-settentrionale, spesso in mansio-ni generiche nell’industria, nell’edilizia e nei servizi. Seuna parte di questi lavoratori è stata importante nel so-stenere lo sciopero poiché essi già avevano esperienzedi scioperi e lotte, altri erano profondamente disillusi eritenevano che la situazione di marginalità dei migran-ti in Italia fosse difficilmente modificabile.

3. Storie di vita e di migrazione

Come abbiamo visto, una delle figure più diffuse al-l’interno del campo è quella di tunisini con alle spalleun passato relativamente lungo in Italia. Una parte diquesti lavora per nove, dieci mesi all’anno nelle campa-gne siciliane e si sposta in altre aree per guadagnare

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qualche soldo in più. Yassine, come altri, è alla primaesperienza nell’agricoltura pugliese ed è venuto a Nar-dò guidato dal passaparola dei suoi connazionali.

Vengo dalla Tunisia e sono sei anni che lavoro in agricoltura, pe-

rò in Sicilia, a Ispica, provincia di Ragusa… In Sicilia lavoro dieci

mesi in un anno… raccolgo tutte le verdure: carciofi, pomodori,

pomodorini, zucchine, carote, angurie…. ho una casa mia affitta-

ta… è da sei anni che sono qua, sono stato cinque anni da clande-

stino, senza documenti. Ho iniziato nel 2009, ho fatto i docu-

menti, ho fatto un po’ di soldi, la patente, la macchina… sono di-

ventato un po’ bene diciamo, lì [in Sicilia] c’è una donna che vive

con me da quattro anni.

I tunisini occupati in Sicilia, in particolare nel ragu-sano, ritengono che le condizioni di lavoro a Nardò sianoben peggiori rispetto a quelle a cui sono abituati. Yassinecompara una serie di elementi che ritiene importanti neldefinire la situazione lavorativa: il contratto di lavoro, ilsalario orario, il caporalato, che in Sicilia, contrariamen-te a Nardò, sarebbe assente, sebbene funzioni ancoral’ingaggio in piazza a giornata, l’addruvamentu:

È la prima volta che vengo in questa zona, a Nardò. C’è una gran-

de differenza. In Sicilia è meglio, lavoriamo con le regole, con il

contratto, sono ingaggiato: otto ore di lavoro, 42,50 euro. Qua,

non c’è né lavoro, né l’ingaggio. Non c’è proprio niente… I capo-

rali ci sono da tutte le parti, però [in Sicilia] i soldi te li paga diret-

tamente la ditta, con la busta paga. Qua tu lavori, non la vedi pro-

prio la proprietà, sono i caporali che ti portano al lavoro e ti paga-

no. Tu non sai niente del prezzo per esempio dei pomodorini,

dell’anguria, niente.

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Una delle molle della loro adesione allo sciopero èproprio questa: la delusione per i mancati guadagni ot-tenuti nella campagna delle angurie e la consapevolez-za, maturata durante l’esperienza siciliana, che è possi-bile ottenere condizioni salariali migliori in agricoltura.

È due mesi che sono qua e ho lavorato tre giorni… Ho guadagna-

to 135 euro, nelle angurie. Ero venuto per le angurie, non per i po-

modorini… perché i pomodori è un lavoro più pesante e troppo

schifoso. Troppo schifoso… E fai tutta questa giornata e poi torni

qua [alla Masseria] e fai la doccia con l’acqua fredda, e dormi fuo-

ri sotto la tenda, ci sono gente che dormono fuori. Per esempio io

dormo fuori, non c’ho neanche dove dormire… Avevo sentito [da

altri tunisini in Sicilia] che qua si guadagna qualcosa in più e sic-

come sono sei anni che non ritorno in Tunisia ho pensato che

guadagno qualcosa in più, così vado quest’anno in Tunisia. Inve-

ce, non ho guadagnato niente proprio, [anzi] ho portato un po’ di

soldi, già li ho mangiati. Ora sto aspettando almeno qualche sol-

do per il biglietto per tornare in Sicilia, e basta. Perché qua non ho

potuto fare niente.

Anche Tarek è un tunisino che lavora in Sicilia. Lasua storia è più articolata di quella di Yassine: in Italiadal 1995, egli può contare su alcune esperienze in altrearee italiane. Anche lui è occupato per vari mesi all’an-no nell’agricoltura sicula e per la prima volta quest’annoha deciso di venire a Nardò.

Il mio mestiere è lavorare in agricoltura. Dal 1995 che sto qua in

Italia, ho il permesso di soggiorno dal 1998. Abito in Sicilia, giù a

Marsala. Faccio l’agricoltura: fragole, pomodori, tutte quelle cose

lì. A Marsala è meglio secondo me, troppo meglio. Perché non ci

sono ’sti cazzo di caporali, quelli sono ladri. In Sicilia lavori diret-

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tamente con il proprietario, ti danno la tua busta paga e sto bene

là… Vabbé, la gente se ne va nella piazza e quando uno ha biso-

gno, se ne va a prendere gli operai… Là lavoro da settembre fino a

giugno. Nove mesi di lavoro… Si guadagna più o meno 30, 35 eu-

ro al giorno… Sono in regola 102 giorni all’anno e da giugno a set-

tembre vado a casa… Purtroppo quest’anno è troppo brutto, per

quello sono qua… Ho fatto un po’ di tempo a Udine, ho fatto la

spazzatura, poi sono tornato giù in Sicilia, ho fatto pure il tufo…

Il muratore, ho fatto tre anni, poi sempre in agricoltura in Sicilia.

Tarek individua con lucidità uno dei motivi dellepessime condizioni di lavoro e dei bassi salari in agri-coltura: la concorrenza tra lavoratori, sia di differentinazionalità (i rumeni che avrebbero «ammazzato lapiazza»), sia di quelli di più recente arrivo in Italia e re-gistra un abbassamento, negli anni, del cottimo pagatoper ogni cassone di pomodoro. Diversamente dalla re-torica corrente egli inoltre mostra un forte senso dicomprensione rispetto a chi lavora per un salario piùbasso, individuando piuttosto nel datore di lavoro coluiche sa approfittare di situazioni di debolezza altrui.

Ma l’Italia, che ti posso dire: siamo nella merda, ma veramente.

Perché non si può tirare avanti qua in Italia. Con 30 euro tu fai no-

ve ore di lavoro… io non posso dire per colpa di qualcuno di un al-

tro paese… può darsi che pure loro hanno bisogno, i rumeni, op-

pure quelli che hanno ammazzato la piazza veramente… A Marsa-

la, Trapani, a Ragusa. Lavorano pure notte e giorno… A Marsala ci

sono pure quelli che lavorano per 20 euro, quelli che lavorano a 15

euro e quest’anno mi sa che la gente che è appena arrivata, quelle

ventimila persone che sono state a Lampedusa, hanno lavorato

pure a 5 euro al giorno… Hanno rovinato… vabbé ma loro pure han-

no bisogno perché uno non sa dove deve andare per mangiare, no? La

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gente [i datori di lavoro] ne approfitta di quella gente, li ammazza-

no perché fanno finta che quelli non sanno lavorare e «devi impa-

rare…». Loro non hanno nessuna scelta… A Foggia ho lavorato nel

1997, ero senza documenti quell’anno lì, ho fatto al cassone

14.000 lire, che sarebbero 7 euro adesso… siamo adesso a 4 euro

al cassone perciò figurati… è peggiorata troppo, troppo.

Tra i più convinti sostenitori dello sciopero c’è Has-san, 26 anni, uno dei molti sudanesi presenti nel cam-po. Basso di statura, piuttosto magro, ha un bel sorrisoe continua a smanettare su un laptop dell’ufficio dellaMasseria sulla versione araba di Facebook. Arrivato inItalia da alcuni anni, ha già lavorato in varie regioni, maprevalentemente nell’agricoltura meridionale seguen-do le diverse raccolte.

Sono arrivato a Lampedusa nel 2009. Sono partito dal Sudan sei

anni fa e sono rimasto quattro anni a lavorare in Libia, facevo il

muratore, anche il saldatore in una fabbrica piccola… Quando

sono arrivato in Italia non ho lavorato per quattro, cinque mesi.

Poi ho lavorato in Sicilia, in agricoltura. Fragole, 42 euro [al gior-

no]… con il contratto. Avevo il permesso normale… Dopo la Sici-

lia sono andato a Roma, dove lavoravo in una fabbrica piccola,

quelle che fanno il kebab. Qua a Nardò è il primo anno che vengo,

che lavoro per il pomodoro… Ho lavorato a Palazzo due settima-

ne l’anno scorso, ma meglio qua. È diverso. Qua il cassone quat-

tro euro, a Palazzo tre euro e cinquanta. Anche là c’è il capo nero

[caporale africano], sono sudanesi…… Quando finisco questo la-

voro io prima vado a Foggia, Palazzo, poi torno a Caltanisetta.

Abito lì con altri tre ragazzi sudanesi… Non sono ancora tornato

in Sudan, non ho soldi. I soldi li mando a tutta la famiglia… 500

euro, quando si può.

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Hassan descrive il lavoro nella raccolta del pomodoroe l’attività dei caporali, puntando l’attenzione sull’assen-za di contratti regolari, sui bassi salari, sui lunghi orari dilavoro, sugli intensi ritmi e sul controllo dei caporali.

Qua ci sono capi neri che ti prendono [a lavorare] in campagna, un

altro caporale grande è tunisino… prende [gestisce la raccolta in]

tutte le campagne, le terre lui… Questo sciopero, il lavoro nero, è

questo il problema, perché qui non c’è il contratto, senza busta pa-

ga, senza niente. A noi questo non va bene, prima quattro, adesso

tre euro e cinquanta, noi sentiamo che non va bene niente… Sono

arrivato il dieci di luglio qui a Nardò, ho lavorato una settimana.

Ho guadagnato 400 euro… Lavori dieci, anche quindici ore… dalle

cinque di mattina fino alle sei di sera…La pausa, dieci minuti, e ba-

sta… il capo nero controlla il lavoro, che vai veloce… La squadra nel

pomodoro è mista, sudanesi, ghanesi, anche dalla Tunisia… Tante

persone, anche 50-70. Ti portano con il furgone, anche con la mac-

china piccola. [Bisogna pagare] tre euro alla macchina [per il tra-

sporto]… [Bisogna pagare] il panino, l’acqua, tutto il mangiare.

Daniel è invece ghanese. Come molti altri migrantiprovenienti dall’Africa occidentale è arrivato a Lampe-dusa dopo aver attraversato il deserto ed essersi fermatomolti mesi in Libia. Egli rappresenta bene il lavoratoregenerico che si sposta sulla base delle opportunità e del-le sue necessità. Privo di permesso di soggiorno, Danielnon lavora solo in agricoltura e si definisce innanzituttocome muratore. Dopo aver vissuto i drammatici giornidi gennaio 2010 a Rosarno, si è spostato nel Salento, do-ve per alcuni mesi ha lavorato per Tecnova, un’impresache installava pannelli fotovoltaici in Puglia, salita all’o-nore delle cronache per alcune truffe nei confronti del-la forza lavoro all’inizio del 2011.

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Ho 27 anni. Nel 2006 sono arrivato in Libia attraverso Niger, Ni-

geria, Ciad e nel 2008 sono arrivato a Lampedusa dalla Libia; da

Lampedusa sono stato portato a Brindisi, a Restinco, un campo

di detenzione. Sei mesi. In Italia ho sempre lavorato in agricoltu-

ra, ma il mio lavoro è muratore. Ho lavorato a Napoli, Afragola e a

Rosarno; ero là [a Rosarno] nel 2009 in un posto veramente diffi-

cile, in una vecchia fabbrica che era collassata. Si guadagnavano

22 euro e 50 e pagavo 3,5 euro il trasporto. Lavoravamo dalle sei

del mattino alle sei di sera… Ho lavorato a Rosarno tre mesi e do-

po la polizia ha preso le persone e le ha portate al campo di Croto-

ne, di Bari e in altri campi. Io sono stato portato a Crotone e da lì

sono venuto a Lecce e adesso vivo a Lecce. Ho lavorato tre mesi

con Tecnova, senza documenti, niente… Con Tecnova si lavorava

dalle 7-8 del mattino alle 10 della sera… il salario era 1.000 euro al

mese, dipendeva dal mese.

Nell’intervista a Daniel emerge con forza la questio-ne del permesso di soggiorno: i lavoratori non comuni-tari che ne sono privi sono costretti ad accettare, in agri-coltura come in altri settori economici, condizioni di la-voro e di salario penose e sono ostaggio dellabenevolenza dei datori di lavoro.

Vivo in una casa con nigeriani, ghanesi, senegalesi, camerunen-

si, albanesi, romeni. Alcuni hanno i documenti, altri no… [Ma]

tutti lavorano in nero… Il problema sono i documenti. Gli africa-

ni che arrivano in Europa non hanno i documenti… sono venuto

qui a Nardò perché non avevo da mangiare e non avevo un lavo-

ro… Ero già venuto l’anno scorso per due mesi per i pomodori,

avevo lavorato un mese e una settimana, avevo guadagnato 900

euro. Quest’anno ho lavorato quasi nove giorni, ma non mi han-

no pagato. Ho lavorato con i pomodori piccoli, che dicevano era-

no otto euro a cassone… Il caporale era tunisino. Tu qui hai biso-

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gno dei documenti [del permesso di soggiorno], così un mio ami-

co mi ha fatto una fotocopia di un documento che ho dato al tuni-

sino. Se non hai i documenti non lavori… La protesta è positiva

perché il lavoro è duro e il cassone è pagato troppo poco… Dopo

andrò a Foggia e a Palazzo. Lì è lo stesso che qua.

Moussa, 31 anni, proveniente dalla Guinea Conakry,nell’Africa occidentale, racconta una storia simile aquella di Daniel: dopo un anno in Libia, dove ha lavora-to in edilizia, è arrivato a Lampedusa nel 2008:

Ho fatto tre giorni in mezzo al mare, hanno mandato due navi

per prenderci, di notte; io per salire sulla nave mi sono rotto tutti

e due i piedi. Mi hanno preso dentro un elicottero e mandato a

Palermo, dove ho fatto l’operazione… mi hanno operato due vol-

te. Mi hanno messo i ferri e adesso ho bisogno di togliere questi

ferri, ma non ho i documenti.

Come Daniel, anche Moussa non ha il permesso disoggiorno, perché la richiesta di ottenere lo status di ri-fugiato politico non ha avuto buon esito. Egli è passatoper alcuni dei tanti centri di accoglienza e detenzioneper migranti e, come Daniel, si sposta in vari luoghi del-l’Italia meridionale alla ricerca di qualche giornata di la-voro: era a Nardò anche l’anno scorso, poi è tornato inSicilia, è passato per Rosarno.

Io ho tanti problemi, adesso il mio permesso di soggiorno è sca-

duto perché loro me lo avevano fatto di sei mesi, ma non è possi-

bile rinnovarlo… l’ho rinnovato quattro volte… l’anno scorso sono

venuto qui per fare questo lavoro di pomodori… ci pagavano

quattro euro all’ora… Dopo questo, non c’è nessun lavoro…Sono

ritornato a Catania e a Gela, ma non c’è lavoro, hai capito? Nes-

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sun lavoro. C’è solo questo lavoro di pomodori, hai capito? L’an-

no scorso ho lavorato a Rosarno nelle arance, ma anche là proble-

mi… Questi caporali, io non posso dire niente perché loro voglio-

no il permesso di soggiorno in originale, ma il mio è scaduto e io

non posso guadagnare altro lavoro.

Moussa e Daniel sono due dei tanti migranti che, pri-vi di permesso di soggiorno o in attesa dello status di ri-fugiato politico, non possono far altro che rimanere nel-le regioni del Sud Italia, cercando di sfuggire a un even-tuale rimpatrio e al contempo di inseguire un impiego,naturalmente in nero, laddove c’è richiesta, seguendoper questo le campagne di raccolta nelle varie aree.

Come abbiamo visto, alcuni dei migranti accoltinel campo della Masseria Boncuri arrivano invece dacittà del Nord Italia, dove hanno fatto esperienze di la-voro in altri settori produttivi. Fouad, 44 anni, tunisi-no, è uno di loro. La sua storia migratoria è lunga: arri-vato in Italia nel 1988 per la prima volta e ottenuto unpermesso di soggiorno due anni dopo, lavora nel fog-giano, quindi si sposta a Rimini e poi a Belluno, doverimane per undici anni. Qui lavora in una fabbrica dimateriali nautici e in seguito per la Zanussi, ma poiperde il lavoro e usufruisce per qualche tempo dellacassa integrazione. Per lui venire a Nardò comportatornare indietro di vent’anni. Come tanti suoi conna-zionali, è arrivato a Nardò sperando di poter guada-gnare una discreta somma grazie alla raccolta delle an-gurie, ma anche lui ha subito una grossa delusione: Sono venuto qua per lavorare un po’, siccome ogni giorno fai un

mazzo di culo, hai visto come lavorano sulle angurie, non è faci-

le. Solo i cani lavorano così. È pesante, pesantissimo. Un’anguria

di trenta chili la butti sopra il camion, non è facile, però lavoria-

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mo. E si guadagna diciamo 80, 90, 100 euro [al giorno], dipende.

Uno magari lavora per venti giorni e guadagna 2.000 euro. Io so-

no venuto solo per quello, per questi 2.000 euro… e invece mi

trovo già in debito, mi trovo comunque in una situazione di mer-

da…. avevo sentito i miei amici che c’è un po’ di lavoro qua e là…

sono venuti l’anno scorso che hanno lavorato un po’, quest’anno

è andata male, malissimo.

Nel seguito dell’intervista, Fouad esprime molta rab-bia nei confronti dei caporali, una forte adesione allosciopero in corso e l’obiettivo di ottenere risultati con-creti nell’immediato.

E adesso stavamo cercando di lavorare il pomodoro… E spero che

loro lo prendono ’sto coglione qua [un caporale], mi fa molta rab-

bia, per quello lotto con tutta la mia forza con il ragazzo là [Yvan Sa-

gnet], con altri contro ’sto sistema, perché sono andato a lavorare

anche io, ho fatto 12 cassoni che a quattro euro fanno 48 euro, con

il pacchetto di sigarette saranno 44 euro, il trasporto non lo pago a

loro perché ho la macchina, magari quattro euro di benzina e… un

panino che costa tre euro e un’aranciata che costa quattro euro alla

fine mi sono trovato con 36 euro… e magari il caporale ha guada-

gnato 264 euro per quattro, sono più di 1.000 euro… Cos’ha lui più

di me, per guadagnare 1.000 euro e io guadagno 36 euro, che io ho

lavorato. Solo perché lui prende al cassone, ché ci sono anche co-

glioni e merdacce, scusami il termine, italiani che danno a lui a

sette euro al cassone e lui dà agli schiavi come me a quattro euro,

che lui non fa un cazzo, non tocca neanche un pomodoro. Infatti

mi sono incazzato con lui e ho detto «ci parliamo dopo»!

Le parole di Fouad ci portano nell’atmosfera caldadei giorni dello sciopero, che proveremo a rievocare piùdiffusamente nel prossimo paragrafo.

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4. «Se non si lotta non otteniamo niente»

La sera del 30 luglio, giorno di inizio dello sciopero,alla Masseria Boncuri si svolge la prima assemblea.Yvan Sagnet, uno studente di ingegneria di origine ca-merunense, giunto a Nardò per sostenersi negli studiuniversitari, è tra i braccianti che, al mattino, avevanorifiutato di lavorare alle condizioni imposte dal capora-le, dando inizio alla protesta. Con un vecchio megafonoin mano egli apre l’assemblea con queste parole, cer-cando di gettare le basi del più importante sciopero au-to-organizzato dai braccianti stranieri in Italia:

Con l’accordo di tutti non lavoriamo per 3,5 euro i pomodori

grandi e 7 euro per i pomodori piccoli. Abbiamo deciso di fissare

con l’accordo di tutti un prezzo unico per i pomodori piccoli e

[uno per] quelli grandi: il prezzo dei pomodori grandi a 6 euro al

cassone, per i piccoli pomodori 10 euro. Intanto domani nessuno

va a lavorare. Domani ci alziamo tutti alle quattro e nessuno va a

lavorare fino a che il prezzo del cassone non si è stabilizzato e fi-

no a che il problema del contratto si è risolto. Domani alle quattro

del mattino ci alziamo tutti per dire alla gente che vuole andare a

lavorare che non si va a lavorare, per impedire che la gente vada a

lavorare. Siete d’accordo?

L’atmosfera nel campo è tesa, le telecamere e le altrepresenze esterne provocano una certa agitazione neimigranti, tanto in coloro che partecipano all’assembleaquanto in quelli che non aderiscono. Una tensionepronta a esplodere: i migranti che prendono la parola ri-vendicano con forza la rottura di una gerarchia lavorati-va che li vede estremamente penalizzati.

Il prezzo al cassone, cioè il sistema salariale, e la sti-

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pula di contratti di lavoro «veri», cioè il sistema contrat-tuale, sono gli elementi centrali della protesta che com-pattano inizialmente i migranti. Quasi immediatamen-te, a queste si aggiungono la questione dei capi neri – co-sì i migranti chiamano i caporali africani –, cioèl’organizzazione del lavoro, e l’apertura di un ufficio dicollocamento nel campo, vale a dire la gestione del mer-cato del lavoro. La lotta dei migranti quindi si imponefin dai primi giorni per un’articolazione complessa cheabbraccia le condizioni generali del lavoro. Un elementoproblematico resta, come vedremo, la rivendicazionedell’incremento del cottimo, un sistema di retribuzioneillegale ma che, nelle mansioni in cui sono impegnatiquesti braccianti, è generalizzato: gli scioperanti, alme-no inizialmente, non chiedono di ricevere una paga ora-ria, ma che il prezzo del cassone aumenti.

Lo sciopero non tocca invece le questioni relative al-le condizioni abitative, cioè la dimensione della ripro-duzione. Non che le lamentele rispetto alla situazionedella tendopoli non vi siano, ma esse rimangono soven-te sullo sfondo: la morte improvvisa, sembra per arrestocardiaco dopo una doccia gelata, di un migrante tunisi-no subito dopo l’inizio dello sciopero non produrrà par-ticolari rimostranze, mentre è alla chiusura del campoche la tensione salirà poiché i migranti si troveranno co-stretti a reperire un’altra sistemazione.

A pochi giorni dall’inizio dello sciopero, un incontroinformale ci permette di iniziare a raccogliere del mate-riale importante su quanto sta accadendo. Al colloquiopartecipano sette, otto persone di nazionalità diversa. Iburkinabé sembrano quelli più risoluti. Uno dei motividella loro determinazione nell’aderire allo sciopero ri-siede, ci pare, nel fatto che essi trovano giornate di lavo-

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ro con più difficoltà rispetto a migranti di altre naziona-lità. In un mercato del lavoro controllato dai caporali,infatti, i lavoratori più «fortunati» sono coloro che han-no qualche rapporto (di parentela, di amicizia, di gene-rica connazionalità) con uno o più capi neri e quindi so-no più spesso da questi reclutati; a Nardò non vi sono –contrariamente ad altre zone del Sud Italia, come nelNord della Basilicata – caporali burkinabé, ma per lopiù tunisini, sudanesi e ghanesi. I burkinabé si trovanoquindi in condizioni materiali peggiori rispetto a mi-granti di altre nazionalità e sviluppano un’avversionemaggiore nei confronti dei caporali e della loro gestionedel mercato del lavoro.

Tra i partecipanti a questo incontro, alcuni sono dapoco giunti in Italia dalla Libia, dove hanno sperimen-tato condizioni di lavoro anche peggiori, ma che hannointeso in fretta la possibilità di reclamare un insieme didiritti stabiliti dalla legislazione italiana. La discussionesi focalizza innanzitutto sul salario, sull’organizzazionedel lavoro e quindi sui caporali e sui contratti di lavoro.Nella raccolta del pomodoro le condizioni di lavoro so-no penose, si lavora fianco a fianco seguendo ognuno lasua fila. Quanti hanno già lavorato in Africa in agricol-tura notano la differenza nell’estrema velocità dell’ese-cuzione delle mansioni, mentre coloro con esperienzepregresse in agricoltura in altre aree italiane esprimonola sensazione che Nardò si collochi in una situazione la-vorativa intermedia tra il ragusano e il napoletano da unlato, che sembrano le situazioni «migliori», e il foggia-no, il nord barese e l’alta Lucania, dove le condizioni sa-rebbero ancora più penalizzanti. Il sistema del capora-lato, spiegano questi migranti, è diffuso più in Puglia ein alcune aree della Campania, rispetto a Rosarno e alla

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Sicilia. «Ogni posto ha i suoi capi neri», afferma Yayi,beninese, riferendosi alle esperienze di Nardò, Foggia ePalazzo San Gervasio.

Il congolese Laurent, come altri migranti presenti, haesperienze nel settore industriale nell’Italia settentriona-le, che ha lasciato a causa della crisi; le sue conoscenzesono preziose per l’articolazione dello sciopero e riman-gono un punto di vista importante, quando sbotta: «Quinon è Africa, io non ho mai sentito questa cosa ‘non sipuò fare il contratto a nessuno’… non si può andare avan-ti così in Italia, io ho lavorato a Como, Milano, Lecco, maivisto questa cosa e qui l’ho vista». All’incontro di tanto intanto si aggiungono altre persone; la discussione si sof-ferma quindi sullo sciopero, sul blocco delle strade intor-no alla Masseria attuato da una trentina di migranti perevitare che i caporali raccolgano la loro forza lavoro. Jean-Claude, burkinabé, sottolinea l’importanza della lotta ri-spetto alle generazioni future, sebbene sia consapevoledelle difficoltà connesse alle «aziende che vogliono datanti anni che questo sistema perduri, perché loro guada-gnano». Nella Masseria serpeggia qualche malumoreperché una parte dei migranti, ancora minoritaria, vor-rebbe riprendere il lavoro. Gli scioperanti sono consape-voli anche del fatto che la loro azione sta scardinando gliequilibri locali. La presenza continua delle forze dell’or-dine nel campo e nei dintorni, così come l’arrivo dei mez-zi di comunicazione di massa, sono segnali di come l’at-tenzione verso la loro lotta si stia diffondendo.

Come abbiamo visto, le precarie condizioni di vita al-la Masseria sono oggetto di un interesse minore rispettoai temi legati al lavoro. Diversamente da altre aree dell’I-talia meridionale, i migranti coabitano in un’area delimi-tata: se questo è fonte talvolta di tensioni, quest’anno ha

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invece messo i braccianti in una condizione di aggrega-zione e di forza: «ci troviamo, ci parliamo. È molto più fa-cile», racconta Alaeldin, sudanese. Se il sistema del capo-ralato trae linfa vitale dall’isolamento fisico, sociale e po-litico della manodopera, la Masseria Boncuri, gestita davolontari e militanti solidali con i migranti, rompe que-sta segregazione e permette di costruire un luogo di so-cializzazione, scambio e sostegno. Come in altre occasio-ni, il ghetto può produrre anche relazioni sociali aggre-ganti. D’altra parte, Tarek, tunisino, riconosce comeproprio l’unità tra lavoratori di differenti nazionalità stacontribuendo alla riuscita dello sciopero e traccia un filodiretto tra la rivoluzione tunisina e la lotta di cui è prota-gonista a Nardò. La sua visione non si ferma all’imme-diato, ma cerca di guardare lontano.

Spero che ce la faremo, dobbiamo continuare fino in fondo… Io

voglio sapere magari quanto vale, qual è il prezzo del cassone. Al-

meno devi sapere quello che stai mangiando, stai fregando il mio

sangue. O i nostri paesani, che sono i caporali, o magari voi che

siete i proprietari di qualche zona… io sto facendo la manifestazio-

ne, magari per gli amici miei l’anno prossimo… è la prima volta [che

faccio sciopero] perché ho trovato magari della gente brava, che

mi dà una mano per fare queste cose… Quelli che siamo noi, gli

africani qua, non so… c’è qualcuno di tunisini, però là siamo la

maggior parte ghanesi, sudanesi c’è qualcuno… abbiamo parlato

della Tunisia autonomamente che abbiamo mandato là fuori

ogni dittatura [ride]… e quasi come abbiamo fatto uscire fuori [il

dittatore] possiamo fare pure altre cose qua, è il nostro diritto.

Uno degli effetti più interessanti «prodotti» dallosciopero è la rottura degli schemi «interetnici»: i porta-voce sono stati scelti «per lingua», perché possono co-

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municare con parti importanti dei migranti nel campo,e non per gruppo nazionale. Non a caso Yvan, il leader, èun camerunense, una nazionalità sostanzialmente as-sente nel campo, ed è riconosciuto come portavoce nonsolo per le sue capacità personali, ma anche perché puòrappresentare meglio di altri le diverse componenti pre-senti al campo e attive nella mobilitazione.

La sera del 2 agosto una nuova assemblea auto-orga-nizzata viene introdotta, in presenza di giornalisti e te-lecamere, da Yvan Sagnet, che cerca di spiegare le ragio-ni dello sciopero e la necessità di continuarlo.

Resisteremo fino alla fine… è una lotta difficile, però vi assicuro

che vinceremo… Abbiamo il nostro potere, siamo una forza, do-

vete voi stessi capire che siamo una forza tutti uniti, non dobbia-

mo mollare. So che è difficile questo messaggio perché la mag-

gior parte di voi siete venuti qua per lavorare. Lo sappiamo tutti

che manifestare è difficile, però tutto quello che c’è di bello in

questo mondo si è ottenuto manifestando. So che sono belle pa-

role, alcuni di voi se ne fregano niente, però sono importanti.

Quindi iniziamo tutti, tutti che subiscono le pressioni esterne, di

questi… di queste mani… di continuare la resistenza… Vi lascio

quest’ultimo appello: a tutti quelli che vi hanno chiesto domani

di andare a lavorare, a qualunque prezzo, e di continuare a subire

questo lavoro sporco e far parte di questo sistema sporco, di dire

a loro che voi avete capito il loro sistema sporco. Che voi siete de-

gli uomini. Che voi siete una forza. Che voi avete un’intelligenza.

Che non è più l’epoca della schiavitù. Che volete avere i vostri di-

ritti. Che tutti voi volete avere un contratto vero, come tutti i lavo-

ratori del mondo. Perché tutti quelli che lavorano non sono

schiavi. Che volete avere uno stipendio della giusta misura, pro-

porzionale al rendimento che voi fate sul lavoro. Che volete esse-

re trattati come tutti i lavoratori, che voi non volete più lavorare

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con uno stipendio così basso… Che questo sistema è finito da og-

gi, avete aperto gli occhi, e che siete coscienti di quello che fanno,

che si arricchiscono dietro di voi, vi prendono come gli animali,

quindi… dite loro che avete capito, tutto quello che succede. E che

a partire da oggi noi vogliamo trattare direttamente con le azien-

de, questo è il messaggio che lasciamo ai rappresentanti della

stampa, dei giornalisti che sono qua… Avere i contratti veri, che ci

danno una busta paga e i contributi. A dire che quando arrivere-

mo, quando saremo alla disoccupazione, di avere anche… di po-

tere toccare, di avere i contributi… della disoccupazione, quindi

insomma vogliamo essere trattati come i lavoratori normali…

Questo è il nostro scopo. Questa è la nostra lotta. È per quello che

siamo riuniti stasera. Per non subire più questo sistema falso,

che abbiamo subito da tanti anni. Quindi domani non vogliamo

vedere nessuno andare a lavorare, qualunque sia la mansione.

Mandiamo ancora il messaggio a queste persone: noi siamo de-

cisi a resistere. Vi ringraziamo, grazie mille. [Applausi].

Dopo pochi minuti Yvan Sagnet chiede di nuovo laparola. È visibilmente emozionato, ma sente l’esigenzadi condividere con i presenti, e soprattutto di denuncia-re davanti alle telecamere, le minacce rivoltegli da alcu-ni caporali:

Delle persone mi hanno minacciato di morte, hanno detto che

stasera la mia vita è in pericolo. Io non ho paura di loro, conti-

nuerò a lottare, quindi quelli che vogliono uccidermi, io gli man-

do un messaggio, a tutte quelle persone, a tutte queste forze invi-

sibili che sono nascoste dietro, che io ho Dio con me, ho la mia fe-

de con me e la mia forza con me, io non scapperò davanti a questa

lotta che è giusta, quindi continuerò anche domani, dopodomani

fino a che questa situazione si stabilisce, a lottare, quindi questo

era il messaggio che volevo lanciare a loro.

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Dall’inizio dello sciopero Antonella Cazzato, funzio-naria sindacale della Flai-Cgil, è costantemente presen-te al campo e si riunisce spesso con i migranti più de-terminati. Le associazioni Finis Terrae e Bsa – che attra-verso sia la gestione della Masseria sia la campagna«Ingaggiami. Contro il lavoro nero» hanno dato un con-tributo decisivo affinché i migranti potessero trovare lospazio politico per iniziare la lotta – scelgono invece ditenere un basso profilo e lasciare che i migranti auto-ge-stiscano e auto-organizzino la mobilitazione, sostenen-doli attraverso una «cassa di resistenza».

Dopo una settimana dall’inizio dello sciopero, assi-stiamo a una delle tante discussioni informali organiz-zate dalla Flai-Cgil, che mira a una soluzione istituzio-nale con l’intervento della Prefettura e delle ammini-strazioni locali e regionale. I temi proposti sonol’individuazione delle aziende che si affidano ai capora-li e la definizione dei punti qualificanti dell’incontro chesi avrà di lì a qualche giorno con il Prefetto di Lecce.Molti tra i migranti presenti, invece, ritengono sia im-portante bloccare subito i caporali e sono inoltre inte-ressati ad arginare il numero di quanti hanno ripreso adandare al lavoro. Non mancano migranti che esprimo-no una chiara sfiducia nei confronti dell’azione dell’or-ganizzazione sindacale. Habib, tunisino, afferma:

Sono loro [il sindacato] che hanno lasciato le cose così… La nostra

manifestazione è cominciata da noi, soltanto da noi, siamo noi

che ci siamo auto-organizzati… abbiamo visto i sindacati soltanto

quando abbiamo fatto questa manifestazione generale, per il

momento nessun appoggio. Noi chiediamo l’appoggio della gen-

te… noi vogliamo essere trattati come tutti i lavoratori, con i con-

tratti, con i contributi.

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La situazione nel campo intanto comincia a peggio-rare, perché la mancanza di lavoro si ripercuote sulledisponibilità economiche: un numero relativamenteelevato di migranti dispone solo dei magri guadagni in-cassati giorno dopo giorno, anche perché i risparmivengono inviati nel paese di origine. Il mancato introitodi Nardò incide quindi immediatamente sulle loro ca-pacità di riproduzione. D’altra parte, iniziano ad affio-rare altre questioni, come quelle relative ai permessi disoggiorno in scadenza e quindi alla mobilità, poichémolti necessitano di ritornare nel luogo di residenzaper il rinnovo.

La scarsa speranza riposta da molti migranti nella ri-soluzione istituzionale è connessa alla sfiducia che essihanno nelle istituzioni e nello Stato, da cui hanno avutofinora solo guai. Tuttavia, essi sembrano stretti dentroun percorso dal quale non riescono a uscire: da un latole difficoltà economiche e l’assenza di qualsiasi inter-vento da parte del padronato, dall’altro l’unico sindacatoche li appoggia cerca una soluzione «dall’alto», annun-ciando anche possibili aiuti economici. Antonella Caz-zato durante questo incontro informale afferma:

Le amministrazioni territoriali, ma anche la Regione possono

prelevare delle risorse dai propri bilanci, quelle destinate ai servi-

zi sociali… si chiamano contributi assistenziali straordinari… E

quindi è una cosa che si può tranquillamente fare. La Regione ri-

spetto ad una convenzione può porre il problema con le Ferrovie

dello stato… voglio dire, prevedere un trasporto straordinario.

Yvan Sagnet, contrariamente ad altri suoi compagnidi lotta, ripone molte speranze nell’incontro presso laPrefettura:

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Diciamo che le cose vanno crescendo, non nel modo in cui c’a-

spettavamo, ma vanno crescendo… già ieri abbiamo avuto un in-

contro con il Prefetto, roba che non è facile, che non succede tutti

i giorni. E questo è stato un punto di vittoria e… ha convocato un

incontro per questo lunedì 8 [agosto] con tutte le aziende e tutti i

datori di lavoro. Noi lavoratori e le associazioni sindacali e le altre

istituzioni per decidere, per parlare dei nostri punti e prendere

qualche decisione se è possibile… E noi andremo lì lunedì con i

nostri punti e siamo decisi ed ottenere già qualche fatto… come

tutti i lavoratori, vogliamo avere i nostri diritti… e poi vogliamo

estendere anche la nostra lotta a tutte le zone, alla Puglia, anche se

possibile nel sud Italia di parlare di questo fenomeno di sfrutta-

mento e di discriminazione del lavoratore, soprattutto immigrato.

Intanto, i quattro-cinque migranti più in vista ven-gono ospitati all’interno della Masseria e non più nelletende con gli altri, per garantire loro maggiore sicurez-za. Questa separazione fisica tra i portavoce e gli altrimigranti, per proteggere i primi dalle minacce dei capo-rali, si trasforma in un elemento di indebolimento poi-ché la separatezza insinua dubbi, fa parlare di privilegi.

I migranti continuano a chiedere un aumento delcottimo, cioè del prezzo a cassone. Moussa, guineano,ritiene che la principale ragione per scioperare sia pro-prio contrastare il costante abbassamento, nel corsodegli anni, dei salari a cottimo corrisposti ai braccianti:

Questa protesta è giusta, perché noi siamo qui a lavorare con po-

chi soldi… ogni anno loro fanno un euro in meno, perché le pri-

me persone che sono venute qui nel 2009 il cassone [di pomodo-

rini] era a nove euro, l’anno scorso otto euro, quest’anno sette eu-

ro, forse l’anno futuro due euro, quindi noi restiamo qui senza

lavorare… ogni anno sempre… peggio.

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11. Cfr. A. Cazzato e A. Gagliardi, Il caporalato delle angurie, «Il tacco d’Ita-lia, quotidiano ondine del Salento», 30 giugno 2011, http://www.iltacco-ditalia.info/sito/index-a.asp?id=17370.

Grazie alla loro forza fisica, questi braccianti spera-no di ottenere, riempiendo un gran numero di cassonidi pomodoro, una paga giornaliera superiore a quellaprevista dal contratto provinciale: nel breve tempo dellaraccolta essi cercano di massimizzare lo sforzo. In real-tà, il cottimo conviene al padronato, che ha la certezzadel costo del lavoro per la raccolta, mentre per il lavora-tore significa soprattutto un aumento dei ritmi di lavoroe spesso una dilatazione della giornata lavorativa, macerto non un aumento del salario complessivo. Non acaso il cottimo prevede un elevato turnover della forzalavoro, che solitamente è piuttosto giovane. Come tantialtri, Yassine, tunisino, in modo contradditorio reclamaun incremento del cottimo e un «vero» contratto di la-voro, che però prevede il salario orario:

Questo sciopero lo abbiamo fatto per alzare un po’ il prezzo [il sa-

lario a cottimo]… Almeno usciamo per una cosa buona, almeno

si alza il prezzo. Si fa il contratto e si alza il prezzo, e si fanno que-

ste due cose… quando ti scadono i documenti, lo sai per gli extra-

comunitari, di più gli arabi, ci vuole il contratto di lavoro per cam-

biare il permesso di soggiorno.

Va rilevato come nei giorni dello sciopero una postain gioco importante, dal punto di vista simbolico e ma-teriale, riguardi il calcolo dei «guadagni» dei caporali.Sono Antonella Cazzato e Antonio Gagliardo della Flai-Cgil11 ad affermare, forse per primi, che le aziende delpomodoro pagherebbero al caporale dai 12 ai 15 europer ogni cassone da 300 chili raccolto dai braccianti,

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laddove a questi ultimi il caporale darebbe soltanto 3 o 4euro a cassone, oltre a detrarre le spese per il trasporto,il cibo e le bevande. Queste cifre si diffondono in frettatra i lavoratori in lotta e fanno parlare i mass media di«schiavitù». A partire dalle nostre diverse esperienze diricerca anche in altre aree di raccolta, ci pare che, reali-sticamente, il guadagno dei caporali sia nettamente in-feriore, sebbene queste considerazioni non tolganonulla alla gravità dell’azione dei caporali. Ci pare diffici-le che le aziende agricole possano permettersi tariffe co-sì elevate a fronte di un prodotto, i pomodori, venduto aiconservifici a pochi centesimi al chilo. Le imprese, cosìcome il caporale, basano le loro tariffe sul costo delleforme alternative di raccolta del prodotto: se in questazona la raccolta meccanizzata, praticata spesso da terzi-sti, è praticamente assente, poche centinaia di chilome-tri più a Nord, nel foggiano o in Basilicata, arriva a co-stare non più di 5-6 euro a cassone: a questi prezzi, e incondizioni meteorologiche e del terreno «normali», aun’impresa converrebbe di gran lunga ingaggiare uncontoterzista dotato di una macchina raccoglitrice dipomodori piuttosto che una squadra di braccianti con lamediazione di un caporale.

Il 5 agosto intervistiamo nuovamente Yvan Sagnet.La sua preoccupazione principale è il ritorno al lavoro dicirca un centinaio di persone, che inizia a indebolire losciopero. D’altra parte, i blocchi stradali dissuasivi nonvengono più effettuati dagli scioperanti, mentre i capo-rali dopo un momento di sbandamento hanno ripreso ilcontrollo della situazione.

Vengono i caporali alla mattina… senza paura vengono qua. Pri-

ma si nascondevano, ora che si sono messi regolari, loro sanno

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che [possono subire solo] un’azione amministrativa, quindi non

hanno più paura. Gli hanno dato una forza incredibile. Perché al-

l’inizio pensavano che questa campagna li fermerà invece… è sol-

tanto delle multe che ricevono… Tu ricevi una multa di 40, 50 eu-

ro… [ma] guadagni quasi 20.000, 25.000 euro alla fine della sta-

gione… vengono qua in tutta libertà, si vantano anche, dicendo

che non serve a niente: «vedete che le forze dell’ordine non rie-

scono a… fermarci quindi venite, venite a lavorare, ci sono soldi».

Tutte queste cose qui. Non si nascondono più.

Sagnet si sofferma poi su come sono cambiati i rap-porti sociali e la stessa atmosfera all’interno del campo.La presa di parola diretta ha permesso di sviluppare for-me di soggettività che si esprimono anche su elementiche travalicano l’oggetto della mobilitazione. Lo stessoYvan Sagnet, che nei mesi precedenti aveva partecipato aTorino alle proteste studentesche contro la legge Gelmi-ni, si sente profondamente trasformato dallo sciopero:

Non ho mai vissuto nella mia vita… una campagna mediatica,

essere chiamato dai giornalisti, come il fatto che ieri sono anda-

to a Lecce, c’erano più giornalisti che volevano parlare con me e

i miei compagni, sì. C’è una campagna mediatica, una tensione

mediatica. Quella è una forma di motivazione, di continuare a

lottare per quello che è giusto, è un’esperienza in più, delle cose,

di certe situazioni, la vita, è una forma di motivazione, di dire.

Diciamo di premio dell’azione che è stata fatta in una giusta ma-

niera… Improvvisamente mi sono trovato a trattare con la Cgil,

improvvisamente sono venuti qua e abbiamo parlato… tutti as-

sieme con gli altri gruppi, con le Brigate che qua… e con il Pre-

fetto è una cosa… che mi è piaciuta molto e straordinaria… La

popolazione che ci mandano da mangiare, che ci sostiene qua,

volevo ringraziare veramente tutti… il loro supporto… [Nel cam-

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po] è cambiata l’atmosfera… Dal punto di vista relazionale c’è il

conflitto perpetuo d’idee, tra i lavoratori: quelli che sostengono

lo sciopero e quelli che non lo sostengono. E organizziamo le as-

semblee quotidiane per spiegare alla gente lo scopo dello scio-

pero, lo scopo delle azioni che stiamo facendo… c’è più comuni-

cazione. Prima ognuno faceva quello che voleva, andava a lavo-

rare, poi tornava e dormiva. Non si sapeva nemmeno cosa

succedeva nel campo. Da quando è iniziato lo sciopero, c’è più

non diciamo unità, però c’è più comunicazione.

I riflettori puntati sul campo di Nardò, tuttavia, ini-ziano a erodere la compattezza degli scioperanti.Fouad, tunisino, è assai critico rispetto a questa presen-za e ritiene che essa venga strumentalizzata dall’orga-nizzazione sindacale e da alcune persone nel Campo:

Il nostro obiettivo di questa manifestazione è di trovare il lavoro,

non di fare pubblicità… non mi piace mettermi in mostra, non

me ne frega un cazzo. Io voglio solo lavorare, non voglio altro. In-

vece questa manifestazione contro il sistema del lavoro è diven-

tata più pubblicità, è diventata interesse per l’associazione tizia,

l’associazione caio, Cgil non so cosa… Non sono mai stato iscritto

a un sindacato… [lo sciopero] è una cosa nuova. Ma non per [otte-

nere] il risultato per l’anno prossimo, chissà se muori stasera… Ci so-

no minacce contro di noi, contro di me contro quel ragazzo [Yvan

Sagnet]… e hanno detto «dovete stare attenti». Non me ne frega

delle minacce… Sono convinto di questa cosa e vado avanti… se

uno mangia il sudore di un altro, Dio non lo perdona. Adesso la gen-

te non pensa a Dio, crede ai soldi più di Dio, più di qualsiasi al-

tro… C’è stato un appoggio di questi ragazzi qua, come si chia-

mano…[Finis Terrae e Bsa]. Hanno fatto bene, hanno aiutato pe-

rò non bastano loro, non possono dare lo stipendio e non

possono neanche trovare il lavoro.

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Nel frattempo emergono altre tensioni che, rimastesopite nei primi giorni, iniziano a riemergere grazie al-l’azione disgregante che i caporali portano avanti per re-cuperare un «controllo» sui rispettivi connazionali.Sempre il 5 agosto Yvan Sagnet racconta:

Ci sono tensioni tra nazionalità: per esempio, la maggior parte

dei lavoratori qua è di origine sudanese e sono loro che detengo-

no, insieme ai tunisini, il più gran numero di caporali… Quindi

questa comunità si sente un po’ tradita da noi, gli organizzatori

dello sciopero. Dicendo che noi l’abbiamo fatto apposta per to-

gliergli questo business, quindi questa ha generato più tensio-

ne… Poi i tunisini si lamentano nello stesso modo.

Gli incontri istituzionali non sembrano sortire gli ef-fetti sperati da molti dei migranti in lotta perché non mo-dificano, nei fatti, la situazione. Le liste di prenotazioneaperte all’ufficio del lavoro di Nardò dopo l’incontro inRegione iniziano a funzionare, ma non sembrano in gra-do di scardinare l’organizzazione complessiva del lavoro,anche perché la raccolta del pomodoro nel neretino si av-via verso la conclusione. Dopo i due incontri istituziona-li, l’11 agosto conversiamo ancora con Yvan Sagnet, cheesprime una forte delusione. Il fattore tempo non ha gio-cato a favore dei migranti e l’avvicinarsi della fine dellaraccolta implica la dispersione di questa manodopera inaltre aree e la perdita della forza accumulata.

All’inizio volevamo il nuovo salario, no? Poi abbiamo pensato che

potevamo ottenere di più, che effettivamente la lotta era partita

sulla sola rivendicazione, quella di alzare il prezzo del cassone,

non di abolire il sistema del caporalato. Poi ci siamo sentiti un po’

più forti con lo sciopero, con l’attenzione che i media hanno avu-

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to nei nostri confronti e quello ci ha un po’ illuso, pensando di es-

sere più forti, di ottenere qualcosa in più, di abolire i caporali; e

poi adesso ci rendiamo conto che non è così facile… C’è un senti-

mento di amarezza perché visto tutto quello che abbiamo dato,

come cuore, abbiamo dato tutta una parte di noi a questa batta-

glia, pensavamo che il risultato doveva essere visto da subito però

non è successo nulla. E questo ci dà quell’amarezza… alcuni un

po’ lo scoraggiamento, ed è quello che viviamo oggi… però sap-

piamo dall’altra parte che le vittorie sono difficili da ottenere e

che bisogna sempre continuare a lottare. Perché se non si lotta

non otteniamo niente… E dall’altra parte c’è un piccolo sentimento

di vittoria, nella misura in cui abbiamo diciamo ottenuto qualco-

sa, qualcosa si è mosso comunque sul piano politico. Abbiamo

visto le istituzioni muoversi su questa cosa… e poi la stampa ne

ha parlato e dopo comunque qualcosa si è mosso, nonostante il

fatto che nessuno dei lavoratori ne approfitta direttamente.

Sagnet ritiene che la lotta abbia comunque fattoemergere nei migranti coinvolti una maggiore consa-pevolezza delle proprie capacità. La sua analisi è lucida:egli è consapevole di quanto sia difficile per lavoratorimigranti, che «hanno fame» e sono abituati a pensareesclusivamente «al presente», porsi in una prospettivadi lotta che abbia degli effetti «dopodomani». Tuttavia, èimportante aver dimostrato che «si può scioperare», an-che se «non abbiamo vinto».

Conosciamo le nostre forze… sappiamo che anche noi possiamo

un po’ fare… giocarsela alla pari con loro [le imprese] su questo

piano… e però c’è una parte di noi lavoratori… che ha fame che

non hanno mai fatto lotta… Siamo una classe di lavoratori un po’

deboli. Diciamo la classe più debole, su queste cose… è una classe

di lavoratori che pensa subito al presente, che non pensa al futuro, al-

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la lotta di dopodomani… pensa a subito e andare a fare una lotta di-

rettamente con le aziende è difficile, loro non capiscono questa

cosa. Quindi è un po’ la difficoltà nostra… Abbiamo dimostrato

che si può scioperare, però non abbiamo vinto… quelli che hanno

fatto l’esperienza qua diranno ai loro colleghi di Foggia che «ho

perso tutta la settimana a scioperare qua e non ho ottenuto nulla.

Io sono arrivato qua per lavorare…». Questo è un fattore psicolo-

gico per scoraggiare gli altri a scioperare… a condurre la lotta…

Più della metà qui dentro ti diranno che lo sciopero non è servito

a nulla, che il sistema è un sistema che esiste da tanti anni e non

è questo sciopero che potrà far cambiare le cose e… ti diranno che

loro sono i migranti neri, quindi non c’è attenzione verso di loro.

Non si mettono più dalla parte del lavoratore normale, come un

lavoratore italiano, come un lavoratore africano… un lavoratore

insomma. Fanno la distinzione adesso… dicono che dato che so-

no migranti, e siccome l’Italia è un paese in cui la differenza è

marginalizzata, quindi loro dicono che dato che sono migranti i

risultati non potevano essere diversi.

A questo punto dello sciopero, sembra concludereYvan Sagnet, si può riporre speranza quasi esclusiva-mente nell’azione istituzionale, per ottenere un Decre-to legge contro il caporalato e per individuare meccani-smi per «convincere» le aziende ad assumere i proprioperai dalle liste del Centro per l’impiego. In questosenso, le sue parole esprimono una speranza nell’azio-ne che sta conducendo la Cgil.

Dall’altra parte c’è chi pensa che bisogna giocarsela politicamente,

andando fino a Roma, fino a diciamo… sotto Palazzo Chigi, cioè

cercare di ottenere direttamente qualcosa di tangibile, soprattutto

questo decreto legge contro il caporalato finché diventi reato… e

anche quella battaglia lì è difficile secondo me… La Cgil per il mo-

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mento sta cercando di individuare le diverse aziende per costrin-

gerli ad andare a prendere i lavoratori che sono iscritti al Centro

per l’impiego e anche mettendo… facendo le minacce con le prove

che alcuni lavoratori hanno… gli hanno dato… Ed è quello e… spe-

riamo che produca un effetto anche sapendo che è difficile.

D’altro canto, e siamo ormai all’11 agosto, lo scioperosembra avviarsi verso una conclusione. Il numero discioperanti è diminuito ancora, mentre le fila dei cru-miri si sono ingrossate:

Adesso… più della metà dei lavoratori… vanno a lavorare… quasi

200… Alcuni caporali hanno fatto aumentare il prezzo del casso-

ne, alcuni mantengono lo stesso prezzo di prima. A volte altri

scendono… Siamo in una cinquantina quelli che scioperano… Il

nodo duro che è convinto che quello che facciamo è necessario.

Gli altri scioperano perché oramai non hanno trovato lavoro, non

perché sono convinti di scioperare perché già i caporali li cono-

scono e non li vogliono assumere. Sono andati a fare le domande

dai caporali e i caporali hanno detto: «noi sappiamo che avete fat-

to sciopero».

Nei giorni seguenti si acuiscono le tensioni, i sospet-ti, le accuse tra gli stessi scioperanti; Yvan Sagnet lascia ilcampo di Nardò per qualche giorno. Nonostante alcunirisultati importanti siano stati raggiunti – in particolareil decreto del governo che, il 13 agosto, rende il caporala-to un reato penale – nella Masseria sembra che tutto con-tinui come prima, che il potere dei caporali sia intatto. Lasensazione di molti dei migranti in sciopero è quella diuna sconfitta e questo esaspera gli animi. Buona partedei pomodori di Nardò è già stata raccolta e molti brac-cianti si spostano in altri territori, soprattutto nel foggia-

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no e nel Nord della Basilicata. Ma gli effetti dello sciope-ro condotto dai migranti continuano a farsi sentire.

5. Cosa cambia dopo lo sciopero di Nardò?

Le condizioni di vita e di lavoro dei migranti nell’a-gricoltura del Mezzogiorno d’Italia costituiscono un fe-nomeno noto almeno dal 1989, quando fu denunciatodavanti alle telecamere della televisione pubblica daJerry Essan Masslo, attivista sudafricano fuggito dal re-gime dell’apartheid e impiegato nelle campagne di VillaLiterno, nel casertano. Pochi giorni dopo quella denun-cia, Masslo venne assassinato, apparentemente duran-te un tentativo di rapina operato da alcuni balordi. L’im-pressione nell’opinione pubblica italiana fu grande, ibraccianti africani del casertano organizzarono unagiornata di sciopero e il movimento antirazzista diedeuna risposta importante a quei fatti. Nello stesso anno,Michele Placido girò il film Pummarò, che raccontaval’esperienza dei raccoglitori africani di pomodoro inCampania.

Da allora, la presenza di braccianti immigrati nelMezzogiorno è enormemente aumentata – e si sono di-versificate le nazionalità straniere interessate – ma ledrammatiche condizioni in cui essi vivono e lavoranosono rimaste analoghe. Le leggi nazionali sull’immigra-zione che si sono succedute hanno contribuito a inde-bolire la posizione dei migranti e disseminato la peni-sola di centri di detenzione; il mercato del lavoro in agri-coltura ha subito ulteriori liberalizzazioni; leamministrazioni locali poco hanno fatto per l’acco-glienza dei braccianti stagionali nei vari territori e, an-che nei casi in cui sono stati allestiti Centri di accoglien-

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12. MSF, I frutti dell’ipocrisia, cit. 13. F. Gatti, Io schiavo in Puglia, «L’espresso», 7 settembre 2006.14. A. Botte, Mannaggia la miserìa, cit.

za, a trarne maggiore vantaggio sono state spesso le as-sociazioni che li hanno gestiti, piuttosto che i migrantiin essi ospitati.

È a partire dalla metà degli anni 2000 che sembrafarsi più attento lo sguardo dei media e dell’opinionepubblica sul fenomeno e si intravede una certa conflit-tualità da parte dei braccianti impiegati nel settore. So-no il lavoro sul campo e un’inchiesta pubblicata dall’ongMedici senza frontiere12 a denunciare con forza la situa-zione dei braccianti immigrati, soprattutto africani.Nell’autunno 2006 uno dei più importanti settimanaliitaliani dedica un’inchiesta ai raccoglitori del pomodoronel foggiano13. Il principale sindacato italiano, la Cgil,organizza una manifestazione di protesta a Foggia, il 21ottobre dello stesso anno. Alla manifestazione parteci-pano anche alcuni braccianti marocchini del ghetto diSan Nicola Varco, nella Piana del Sele, che avevano scio-perato e manifestato a Salerno poche settimane prima,il 25 settembre, sostenuti dalla locale Flai-Cgil guidatada Anselmo Botte14. La giunta regionale pugliese, pre-sieduta da Nichi Vendola, approva in ottobre una legge,la più avanzata in Italia, che intende favorire l’emersio-ne del lavoro nero in agricoltura, fissando il principiosecondo cui possono attingere ai fondi comunitari, na-zionali e regionali, solo gli imprenditori agricoli che di-mostrano di applicare i contratti collettivi del settore. Inrealtà, l’applicazione della legge si arena sulla mancatadefinizione degli «indici di congruità», cioè del rappor-to tra ettari coltivati e numero di giornate lavorative ne-

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15. Cfr. C. Sunna (a cura di), La lotta al lavoro nero nell’esperienza legislativae amministrativa della Regione Puglia, Cacucci, Bari 2008; G. De Vito (acura di), Tutti giù per terre. Il lavoro in campagna. Ingaggio grigio e fabbrichedi clandestinità, Levante, Bari 2009.16. Tra i documentari segnaliamo Sangue verde (2010) del regista AndreaSegre. Scarsa è invece l’attenzione finora dedicata a questo tema dallescienze sociali italiane; in parte ovvierà a questa lacuna il volume La glo-balizzazione nelle campagne curato da C. Colloca e A. Corrado (in corso dipubblicazione).

cessarie. L’azione della Regione si concentrerà così sualtre misure, come l’apertura, in provincia di Foggia, di«alberghi diffusi» per i braccianti15.

Negli anni successivi diventano più frequenti lemanifestazioni di protesta dei migranti impiegati inagricoltura, soprattutto africani: nel dicembre 2008 ibraccianti impegnati nella raccolta degli agrumi insce-nano una manifestazione a Rosarno; nel gennaio 2010sempre a Rosarno scoppia la rabbiosa rivolta degli stes-si africani dopo l’ennesimo atto di violenza subito; l’8ottobre 2010, con il sostegno della rete di attivisti delcentro sociale ex-Canapificio di Caserta, viene organiz-zato uno «sciopero delle rotonde» a Castelvolturno enei comuni limitrofi, dove già nel settembre del 2008si era registrata la protesta seguita all’uccisione di seiafricani da parte di un gruppo di fuoco camorrista. Enon va dimenticato il lavoro dell’Assemblea dei lavora-tori africani di Rosarno a Roma, che ha espresso le ri-vendicazioni di molti dei «reduci» dalla rivolta del pae-se calabro del 2010.

In questi anni altre inchieste e documentari16 raccon-tano lo sfruttamento in agricoltura; la Direzione distret-tuale antimafia di Bari esegue estese indagini che porta-no al primo processo contro un’organizzazione transna-zionale di caporali (polacchi, ucraini, algerini) attiva tra

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17. Cfr. A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nellecampagne del Sud, Mondadori, Milano 2008.

la Polonia e il foggiano, arrivando nel febbraio 2008 allacondanna in primo grado di molti dei caporali indagatiper «riduzione e mantenimento in schiavitù»17; com-missioni internazionali sui diritti umani visitano i luo-ghi più a rischio; la Flai-Cgil continua a dedicare atten-zione al fenomeno, ad esempio con la campagna «Ororosso. Dal reality alla realtà. La raccolta del pomodoronella pianura della Capitanata», realizzata nell’agosto2009, o con la campagna «Stop al caporalato». E, tutta-via, poco pare cambiare nelle campagne meridionali do-po quelle che restano spesso semplici denunce e non sitrasformano in mobilitazioni reali e durature che affron-tino alla radice le questioni in gioco. Solo associazioni eorganizzazioni locali, in alcuni territori, seguono e assi-stono con continuità i migranti, spesso senza che vi siaun coordinamento (anzi talvolta in aperta sfiducia) conle organizzazioni sindacali. Anche in Puglia, regioneguidata dalla «giunta più a sinistra d’Italia», i rapporti diforza sembrano sfavorevoli ai braccianti immigrati.

In questo quadro, ci sembra che lo sciopero di Nardòpossa avere nei prossimi mesi effetti più duraturi. Anzi-tutto, si è trattato di uno sciopero davvero auto-organiz-zato da migranti impiegati in agricoltura, che hannopreso la parola autonomamente, dimostrando, soprat-tutto a se stessi, che «si può fare», il che ha accresciutola consapevolezza della loro forza politica. In secondoluogo, abbiamo assistito a un «vero» sciopero, teso cioèa migliorare le condizioni di lavoro nell’immediato: ibraccianti affermavano di non voler tornare a lavorarefinché le loro richieste non fossero state riconosciute.

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In terzo luogo, la mobilitazione, almeno in una primafase, ha travalicato le differenze nazionali e ha visto im-pegnati migranti provenienti dal Maghreb, dall’Africaoccidentale, dall’Africa orientale, e che parlavano linguediverse, laddove questi gruppi sono solitamente separa-ti e in concorrenza tra loro sul mercato del lavoro agri-colo. In quarto luogo, la lotta al caporalato ha mostratodi poter mettere in crisi il sistema di mediazione tra la-voratori e aziende, che sovente trae la propria forza dairapporti «comunitari» (di parentela, di amicizia, di con-nazionalità, di rispetto) che i caporali costruiscono conle proprie squadre di braccianti, mascherando i rappor-ti di sfruttamento.

Infine, anche se l’esito dello sciopero ha deluso moltidei migranti più impegnati, esso ha prodotto alcuni im-portanti mutamenti legislativi: anzitutto, un decreto go-vernativo ha reso il caporalato un reato penale; in secon-do luogo, la Regione Puglia si è impegnata ad attivare neiCentri per l’impiego delle liste di prenotazione per il re-clutamento della manodopera in agricoltura e ad incen-tivare le aziende ad assumere attraverso queste liste. Co-me sempre, questi mutamenti normativi non basteran-no a cambiare nella sostanza le condizioni di lavoro deibraccianti; tuttavia, essi potranno contribuire a renderepiù forti quanti, tra loro, cercheranno di ricominciare amobilitarsi nelle prossime stagioni di raccolta.

Certo, ci sono molte incertezze ed è necessario porsialcuni interrogativi in merito a cosa potrà accadere neiprossimi mesi. Sarà difficile per i migranti e per i grup-pi che li appoggiano organizzare e sostenere scioperi emobilitazioni efficaci in territori di raccolta molto piùestesi e che coinvolgono una quantità di lavoratori benpiù consistente, come il foggiano o la Piana di Gioia

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Tauro; territori, peraltro, nei quali sono presenti in grannumero anche braccianti provenienti dall’Europaorientale, rispetto ai quali non c’è solo la questione dicome coinvolgerli in eventuali mobilitazioni, ma anchequella di evitare possibili conflitti tra differenti naziona-lità. Inoltre, qualora i braccianti ripresentino richiestecome quelle che hanno portato allo sciopero di Nardò,c’è da aspettarsi il sorgere di conflitti sociali importantinelle campagne del Sud Italia: proteste che potrebberoassumere la forma dello sciopero e della richiesta di unalegittimità politica, come a Nardò, ma anche quella del-lo scoppio violento di rabbia tra migranti e parte dellapopolazione locale, come a Rosarno nel gennaio 2010.Bisognerà allora capire come reagiranno gli agricoltori– magari optando, ove possibile, per una maggioremeccanizzazione delle attività di raccolta –, le forze del-l’ordine, le istituzioni locali e se avrà successo il tentati-vo di creare nelle città italiane reti di sostegno ai brac-cianti, facendo leva, ad esempio, sui gruppi del «consu-mo critico», che nei mesi successivi allo sciopero hannomostrato particolare attenzione agli eventi salentini.

L’esperienza di Nardò segnala un momento impor-tante sia per la costruzione di forme auto-organizzate dilotta, sia per il superamento di tensioni tra le diverse na-zionalità sia infine per la solidarietà espressa dai lavora-tori italiani. L’auspicio è che questa mobilitazione sia ingrado di far cambiare il vento nei rapporti di forza, nonsolo in agricoltura.

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Introduzione

La mia attrazione per l’Italia è iniziata nel 1990 in occa-sione dei campionati mondiali di calcio a cui il mio pae-se, il Camerun, prendeva parte: è lì che ho cominciato ainteressarmi della storia, della politica, dell’arte e dell’al-ta moda italiana. Il miracolo italiano e la figura di Enri-co Mattei, la Divina Commedia di Dante Alighieri, maanche le collezioni di Versace, Ferré e Gucci. Ricordoche nelle discussioni con i miei amici sui paesi in cuiemigrare alcuni sognavano gli Stati Uniti, altri la Fran-cia, altri l’Inghilterra e la Germania. Io ero tra i pochi adambire all’Italia. Come dissi a mio padre: «il mio primopaese all’estero sarà l’Italia», in particolare Torino, per-ché lì giocava Roberto Baggio. È nell’agosto del 2007che atterro a Torino e mi iscrivo al Politecnico per stu-diare: mi sembrava di aver esaudito un sogno. Pur delu-so dalla città grigia e fredda, sono comunque riuscito ainserirmi. Il mio primo lavoro come cassiere in un su-permercato l’ho trovato tramite un’agenzia interinale al-la quale avevo lasciato il mio curriculum. L’agenzia michiama descrivendomi il tipo di lavoro e chiedendomi

Tutte le cose bellesi ottengono lottando

Yvan Sagnet

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le disponibilità: firmo un contratto part-time giornalie-ro o settimanale.

Quest’anno, a causa della crisi economica che ha col-pito Torino, come molte altre aree italiane, e per l’esi-genza di reperire ulteriore denaro per potermi pagare letasse universitarie, mi ritrovo, su consiglio di un amico,in Puglia, in particolare a Nardò, paesino di quasi30.000 abitanti nel Salento vicino a Lecce, per la raccol-ta delle angurie e dei pomodori. È proprio lì che scoproil caporalato: non avevo mai sentito, fino ad allora, par-lare di caporale, quella persona che svolge la funzionedi intermediario tra le aziende e i lavoratori.

1. Un altro mondo, un’altra Africa, un’altra Italia

Sono arrivato a Nardò il 10 luglio 2011 nella Masse-ria Boncuri, un centro di accoglienza che il Comune hamesso a disposizione per alloggiare gratuitamente i la-voratori. Un inferno per me. Era come essere ritornatiin Africa, anzi peggio: l’alloggio nelle tende, cinquecen-to persone di diverse culture originarie dall’Africa sub-sahariana e magrebina (in particolare tunisini e suda-nesi, i più numerosi, e poi ghanesi, burkinabe, maliani,egiziani, algerini, ivoriani, togolesi e nigeriani) che par-lano lingue diverse, dal francese all’arabo passando perl’inglese e diversi dialetti africani. Tutto intorno sporci-zia e rifiuti abbandonati.

Il primo giorno ho dormito all’aria aperta, per terra,perché non c’erano più posti disponibili in tenda. Erotra gli ultimi arrivati, per far la doccia dovevo fare la co-da. Mangiavamo nei «ristoranti» dentro la Masseria ge-stiti quasi tutti dai caporali o dai loro amici; non c’era unmenù, il piatto era unico e tradizionale, sudanese o tu-

nisino, a seconda del ristorante. Si mangiava con le ma-ni, in gruppi di quattro o sei persone per risparmiaresul prezzo. Le cose positive che ho notato erano la luce el’acqua gratuiti forniti dal Comune di Nardò. Tra di noic’erano persone che non cercavano lavoro nei campi,ma che erano lì per fare affari, è così che si trovavanoparrucchieri, meccanici, commercianti, prostituite, chequi avevano trovato il loro spazio economico. La Masse-ria Boncuri con i suoi lavoratori stagionali era un altromondo, un’altra Africa, un’altra Italia.

Avrei voluto subito tornare a casa, a Torino, dove eroin possesso di una borsa di studio che mi garantiva unastanza e da mangiare gratuitamente in mensa; in brevecondizioni di vita migliori e totalmente diverse, ma quel-lo che mi manteneva lì era la voglia di guadagnarmi i sol-di per il pagamento delle tasse universitarie. Dopo tregiorni di attesa del lavoro vedo un caporale arrivare nellaMasseria, una persona imponente, grassa, alta di statu-ra, di origine sudanese. Tutti si avvicinavano per lasciar-gli i documenti originali (carta d’identità, permesso disoggiorno, codice fiscale) per un eventuale ingaggio;una pratica che ho trovato inusuale, quella di richiederedocumenti originali invece delle fotocopie. Poi, alcuniamici mi hanno presentato ad altri caporali tutti ovvia-mente stranieri, in particolari tunisini specializzati nellaraccolta delle angurie; oppure sudanesi, ghanesi e nige-riani per la raccolta dei pomodori. Le modalità erano lestesse, come se ci fosse un tacito accordo tra loro; un’or-ganizzazione estesa, quella dei caporali. Sembrano qua-si agenzie interinali o cooperative mobili, ma con prati-che schiaviste. Dopo una settima di lunga trattativa tra ilmio amico sudanese – che mi aveva parlato del lavoro – eil suo connazionale caporale, il mio «vero-falso» contrat-

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to di lavoro era pronto, anche se non ho potuto tenerlo:dopo avermelo mostrato il mio caporale se lo tiene, men-tre mi restituisce i documenti. Devo ritenermi fortunatoperché i documenti di alcuni miei compagni sono statismarriti nelle mani dei caporali; nessuno protestava per-ché i caporali promettevano di ritrovarli e gli immigratiavevano paura di non essere più ingaggiati. I lavoratoridi origini tunisine lavoravano con caporali tunisini,mentre gli appartenenti alle altre comunità lavoravanocon i caporali sudanesi, come nel mio caso. C’era un rap-porto di forza, una concorrenza tra le due principali co-munità, cioè sudanesi e tunisini, che si disputavano lagestione del lavoro e in parte anche del campo.

L’organizzazione lavorativa è la stessa per la raccoltasia dei pomodori sia delle angurie. La gestione del tra-sporto è completamente a carico dei caporali, o megliodei lavoratori. I caporali entrano nella Masseria con i lo-ro furgoncini verso le tre di notte per trasportare i lavo-ratori nei diversi campi di raccolta. Alcuni caporali par-cheggiano i loro pullmini dentro la masseria e affidanola guida ad alcuni braccianti che dormono con noi den-tro il campo. Altri caporali invece dormono in albergonella zona di Nardò o nei casolari abbandonati che sitrovano intorno alla Masseria. Ogni lavoratore è costret-to a pagare cinque euro di trasporto al caporale per unadistanza che varia tra i due e i quattro chilometri: un la-voratore non può usare un altro mezzo di trasporto perraggiungere il luogo di lavoro, pena il licenziamento. Icaporali procedono all’appello prima di salire nelle mac-chine e nei furgoni per spegnere in anticipo le velleità ditutti quelli che vorrebbero lavorare.

Quando arriviamo nei campi è il caporale che orga-nizza il lavoro: ogni lavoratore ha «diritto» a tre file di

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piante di pomodori che sono lunghe ciascuna circa 500metri; egli deve strappare le piante dalla terra prima discuoterle nei cassoni, portati dai camion delle aziende.Andiamo a lavorare così presto, prima che il sole si alzi,perché il lavoro è molto faticoso e richiede aria fresca.La seconda parte del lavoro consiste nel riempire i cas-soni di pomodori sapendo che un cassone vuoto pesacirca 70 chili e pieno raggiunge circa 450 chili. I capora-li mettono in campo forti pressioni psicologiche in ter-mini di velocità perché l’azienda vuole caricare il ca-mion nel più breve tempo possibile.

La paga di un lavoratore è calcolata a cassone, cioè acottimo: il caporale paga il lavoratore tre euro e cin-quanta per ogni cassone. È ovvio che un lavoratore perincrementare il suo guadagno dovrebbe riempire piùcassoni possibile. Il numero medio di cassoni riempitida un singolo lavoratore è stimato a circa sette, quindiun lavoratore guadagna in media 24,50 euro, a cui biso-gna sottrarre i cinque euro di trasporto e i tre euro e cin-quanta del panino che il caporale ci costringe a pagare.Mediamente ogni lavoratore ottiene un guadagno com-plessivo giornaliero di circa sedici euro, mentre i guada-gni dei caporali sono avvolti nel mistero.

2. Antefatti

Non potrò mai dimenticare il mio primo giorno di la-voro, anche perché diversamente da molti miei colleghinon avevo alcuna esperienza del lavoro in agricoltura.Quando i camion arrivano con i cassoni da caricare, l’au-tista li sistema in un posto in cui ognuno li raccoglie. Giàsolo per portare un cassone vuoto verso il posto assegna-tomi dal caporale per raccogliere i pomodori, sono in dif-

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ficoltà. Quando inizio a caricare, mentre sto ancora almio primo cassone i miei colleghi più vicini sono già a trecassoni pieni. Psicologicamente e fisicamente sonoesausto. Quando cerco il mio settimo cassone scopro chesono finiti, e così riesco a riempirne solo sei in una gior-nata iniziata alle tre di notte e finita verso le sei di sera.Guadagno 21 euro da cui occorre togliere il trasporto e ilpanino: rimango con dodici euro e cinquanta. Vorrei tor-nare subito a Torino, ma mi trattiene la sfida al mio colle-ga che quel giorno aveva riempito diciassette cassoni.

Le pressioni psicologiche da parte del caporale sonomolte: ci chiede di essere veloci, mettendoci in concor-renza, per non parlare della stanchezza, delle malattiegenerate dal lavoro. Ogni giorno almeno una cinquanti-na di lavoratori andava dal medico che l’Asl aveva avutola gentilezza di metterci a disposizione dentro la Masse-ria. Sempre meglio che rivolgersi al caporale perchéquando a un lavoratore capita di ammalarsi mentre la-vora, il caporale gli chiede dieci euro per accompagnar-lo all’ospedale e lui è costretto ad accettare perché nonconosce neppure l’indirizzo del luogo in cui sta lavoran-do e non potrebbe chiamare il pronto soccorso. A causadel sole e delle temperature tra i 40 e i 45 gradi e dellecondizioni in cui lavorano, i braccianti soffrono di maldi testa, di stomaco, di schiena, ma anche di febbri, do-lori alle spalle, alle mani e ai piedi, rovinati perché lavo-rano senza guanti e senza scarpe anti-infortunistica.Quando tornavamo alla Masseria dopo il lavoro l’incubocontinuava perché occorreva mettersi in coda per ladoccia, mentre i litigi e le risse erano frequenti, alzandole tensioni sociali.

Una decina di giorni prima dell’inizio dello scioperoera nata una protesta da parte dei lavoratori originari

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dell’Africa sub-sahariana, in particolare dei sudanesi,convinti che la parte «nera» del campo fosse discrimi-nata rispetto a quella «bianca», ossia quella magrebina.Questo era in parte dovuto dalla presenza di due media-tori culturali di origine nord-africana, mentre non c’eraalcun mediatore sub-sahariano. Sapremo solo in segui-to che non si trattava di una scelta voluta da parte delleassociazioni, ma che è semplicemente molto complica-to trovare mediatori culturali sub-sahariani.

L’atteggiamento delle comunità nord-africane, inparticolare di quella tunisina, era quello di sentirsi pa-droni del campo, forse anche perché specializzati da an-ni nella raccolta delle angurie, attività molto più remu-nerativa rispetto alla raccolta dei pomodori. Essi si per-cepivano come lavoratori più capaci e quindiconsideravano di livello inferiore il lavoro svolto dai la-voratori sub-sahariani. Anche questo ha influito nell’a-limentare la protesta dei sudanesi che reclamavano unmediatore «nero» che portasse avanti le loro istanze enecessità all’interno della Masseria. È in questa fase chevengo scelto come rappresentante, forse perché già daqualche giorno mi ero esposto discutendo con i mieicompagni di politica e di diritti dei lavoratori, incorag-giato dallo striscione calato da Finis Terrae e Brigate disolidarietà attiva dal terrazzo della Masseria che recita-va: «Ingaggiami. Contro il lavoro nero». Uno striscioneche non piaceva a chi lavorava senza documenti, ma checi permetteva di discutere sulla figura dei caporali, maanche contro i dittatori africani.

Mi ha profondamente colpito essere accolto da unacomunità diversa dalla mia, nonostante il nazionalismomolto forte delle dinamiche sociali del campo. Sono sta-to scelto senza distinzione di origine. Ho notato subito

la differenza tra la parte «nera» e quella «bianca» delcampo: gli africani sub-sahariani sembravano più pre-parati psicologicamente a soffrire e più disposti alla ri-bellione, rispetto ai magrebini. Forse perché essi si sen-tivano meno integrati, nonostante fossero numerica-mente superiori. A partire da queste discussioni si èsviluppata la mia relazione non solo con i sudanesi maanche con i burkinabé, i ghanesi e successivamente, ecomunque prima dello sciopero, anche con i magrebini.

3. La scintilla della protesta

Il giorno dello sciopero, sabato 30 luglio, c’erano piùdi dodici gruppi di lavoratori mandati a lavorare neicampi di raccolta delle angurie e dei pomodori. La com-posizione del gruppo con cui lavoravo e che raccoglievai pomodori era composta da 28 sudanesi, 11 ghanesi, 5burkinabé e 1 camerunese, io. D’altra parte, ero l’unicocamerunense in tutta la Masseria. Nel mio gruppo già ilprimo giorno mi ricordo della discussione che ebbi conil caporale che mi aveva rimproverato di non aver lavo-rato adeguatamente, cioè di non aver raccolto i pomo-dori caduti per terra. Quello fu un momento particolareperché si creò un elemento psicologico nuovo che diedela forza ad alcuni miei compagni di discutere anche lo-ro con il caporale, molto esigente e aggressivo, che si fa-ceva chiamare M., di nazionalità sudanese. Durante lepause con i colleghi non sudanesi si criticavano le prati-che e i metodi di questo caporale; i braccianti sudanesinon prendevano parte alle discussioni per paura e inparte per «rispetto» di M., che veniva considerato damolti come il capo della comunità, nonostante si ren-dessero conto di quanto ingiusto fosse il suo comporta-

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mento. In seguito una buona parte di lavoratori sudane-si iniziarono a partecipare alle discussioni e a prenderecoraggio rivendicando singolarmente i propri diritti epretendendo maggiore rispetto dal caporale.

Il primo giorno dello sciopero era la mia quinta gior-nata di lavoro e si percepiva una sorta di nuova unità tradi noi che, finalmente, non era legata alla nazionalità.Anche nel campo si respirava una tensione condivisapronta a esplodere. I lavoratori avevano cominciato aparlare delle condizioni di lavoro e M. iniziava a temer-mi forse perché ero uno studente universitario ed ero ri-conosciuto, anche per questo, come punto di riferimen-to tra i lavoratori.

Sabato 30 luglio c’era un datore di lavoro italiano neicampi: egli chiese a M. di farci raccogliere solo i pomo-dori migliori, un’ulteriore operazione di selezione cheavrebbe rallentato enormemente il nostro lavoro e di-minuito la nostra paga. M. voleva fare bella figura e mo-strare al suo capo italiano come governava il suo gruppodi lavoratori. Si avvicinò a un mio collega ghanese e glidisse che stava lavorando male, minacciandolo di cac-ciarlo dal campo. Il ragazzo ghanese non si lasciò inti-midire e lo accusò di privilegiare i sudanesi; la discus-sione continuò finché io e un altro lavoratore di origineghanese ci avvicinammo per cercare di mediare, chie-dendo a M. di alzare il prezzo del cassone da tre e cin-quanta a sei euro. Quel faticoso lavoro di selezione do-veva essere pagato in modo adeguato. M. si rifiutò, manoi insistemmo, forti del fatto che tutti gli altri brac-cianti che fino a quel momento non erano intervenuti sierano fermati e uniti alla protesta. A quel punto le no-stre differenze nazionali si dissolsero e anche i sudane-si si unirono alla contrattazione. Davanti all’ostinazione

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del caporale abbandonammo tutti insieme il campo etornammo alla Masseria.

Di solito a quell’ora della giornata il campo è quasideserto perché la maggior parte dei lavoratori sono neicampi; in effetti c’erano solo quanti non avevano trova-to occupazione. Spiegammo a loro e ai volontari delleassociazioni Brigate di solidarietà attiva e Finis Terraeche si occupano della gestione e dei servizi dentro ilcampo perché eravamo tornati così presto e insiemeagli altri migranti andammo a fare il primo blocco stra-dale sulla provinciale Nardò-Lecce; eravamo una trenti-na. Le forze dell’ordine, intervenute quasi subito, ciconsigliarono di non continuare a bloccare la stradaperché era contro la legge. Così ritornammo all’internodella Masseria e due ore dopo facemmo la nostra primariunione tra il commissario di polizia di Nardò, la Cgil ele associazioni Finis Terrae e Bsa, che sostenevano lenostre rivendicazioni. La sera, dopo che i nostri colleghierano tornati dai campi, abbiamo fatto la nostra primaassemblea auto-convocata sotto gli occhi dei mediaspiegando perché scioperavamo e quali erano le nostrerivendicazioni: volevamo i contratti regolari, la fine delcaporalato, contatti diretti tra aziende e lavoratori, l’a-pertura di un centro per l’impiego dentro la masseria,un aumento del salario, più medici, miglioramento del-l’accoglienza e delle condizioni di vita dentro il campo.Eravamo pronti a non ritornare al lavoro fino a quandole nostre rivendicazioni non fossero state accolte.

Quella sera la «parola d’ordine» era che nessuno do-veva andare a lavorare; per assicurarci che tutti rispet-tassero la decisione e per agire in anticipo sui caporali cisiamo svegliati un’ora prima della partenza abituale deilavoratori, verso le due di notte, per fare i picchetti in

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tutti i punti d’ingresso e uscita della Masseria. È statoun successo totale. Di solito a quell’ora ci sono un saccodi persone che si preparano per andare a lavorare e i fur-goncini dei caporali riscaldano i motori per trasportare ilavoratori, ma quel giorno quasi il 90% di loro dormivaancora e i pulmini dei caporali erano fermi. Solo versol’alba qualche persona e alcuni veicoli si avvicinarono,ma con fermezza ricordammo e spiegammo loro la ne-cessità di scioperare. Eravamo determinati e abbiamoevitato le risse e gli scontri; anche se non sono mancateingiurie e minacce da parte di caporali arrabbiati di per-dere una giornata di lavoro. Non volevamo correre il ri-schio che lo sciopero si impantanasse in una descrizio-ne mediatica di scontri tra stranieri, una strumentaliz-zazione che siamo riusciti a evitare. Volevamo che lagente sapesse che il nostro sciopero era una rivendica-zione sociale, volevamo essere considerati come lavora-tori che meritano tutti i diritti: un contratto regolare,l’indennità di disoccupazione, gli strumenti di lavorocome i guanti, le scarpe anti-infortunistica.

Le difficoltà culturali e linguistiche erano molte,non era facile trasmettere il messaggio ad altri colleghi.C’erano quelli che parlavano francese come i burkina-bé, gli ivoriani, i togolesi, i beninesi; altri parlavano l’in-glese come i ghanesi, i nigeriani, gli etiopi, i somali; al-tri parlavano l’arabo, come i sudanesi, i tunisini, i ma-rocchini, gli egiziani, gli algerini. Abbiamo pensato dicreare una «direzione» composta da membri di ogni co-munità, e così si è creato un gruppo di tre tunisini, duesudanesi, due burkinabé, un ghanese e io. Andavamo atrasmettere i messaggi alla nostra comunità linguistica,facevamo le assemblee ogni sera con l’obbiettivo di dis-cutere con i lavoratori la situazione e per cercare di te-

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nere duro fino a quando le aziende non fossero venute afarci contratti regolari e non avessero smesso di farci la-vorare con i caporali.

I primi due giorni furono un successo: il 95% di la-voratori scioperavano. Si trattava del primo grandesciopero auto-organizzato a livello bracciantile in agri-coltura dai lavoratori stranieri, dato che le altre prote-ste si limitavano ai piccoli imprenditori agricoli. E noieravamo orgogliosi di quanto stavamo facendo. Tantigiornalisti cominciavano ad affluire, sia quelli dellastampa sia quelli della tv che facevano riprese. E poi ri-cercatori, sindacati, forze dell’ordine, autorità politi-che e persone comuni che volevano saperne di più sul-lo sciopero e che venivano da tutte le parti del paese.Così dopo due giorni abbiamo ottenuto un incontrocon il Prefetto di Lecce, con l’obbiettivo di organizzareun tavolo con la parte datoriale per poter esporre a tut-ti le nostre richieste, cosa che abbiamo ottenuto la set-timana successiva. Intanto i caporali hanno iniziatosia ad alzare i prezzi dei cassoni da tre e cinquanta aquattro euro sia ad assumere regolarmente i lavorato-ri. Su ordine delle aziende i caporali dicevano ai lavo-ratori che nel caso in cui ci fossero stati dei controllinei campi, essi avrebbero dovuto dire di essere pagatiall’ora e non a cottimo poiché esso è vietato dal contrat-to provinciale. Inoltre, abbiamo notato la presenza dialcuni datori di lavoro della zona che volevano assu-mere le persone direttamente, rispettando le normati-ve italiane senza passare per i caporali. Questo non èdurato a lungo perché i caporali hanno cominciato adorganizzarsi rispetto alla nuova situazione.

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4. Lo sciopero tra autorganizzazione e istituzioni

La costruzione dello sciopero è stata determinata daun forte sentimento di condivisione: ogni lavoratore siinformava quotidianamente di cosa succedeva, in mo-do attivo, e io mi sono trovato non solo a diffondere leinformazioni, ma anche a rassicurarli. La presenza ditante persone esterne al loro ambiente, non solo li rassi-curava che le cose stavano proseguendo nella giusta di-rezione, ma produceva anche uno spazio per il loro ri-conoscimento come lavoratori con dei diritti. Quandola Cgil o le Bsa e Finis Terrae mi chiedevano delle coseche coinvolgevano i lavoratori, tutti mi ascoltavano at-tentamente e facevano delle domande importanti qualiad esempio: cosa hanno deciso le istituzioni oggi rispet-to al nostro futuro? Lo sciopero continua? Cosa voglio-no i giornalisti?

Durante le molte riunioni che con gli altri portavo-ce facevamo fino a tarda notte negli uffici della Masse-ria, magari prima di una manifestazione o prima di re-carci ai tavoli istituzionali, scrivendo cartelli e striscio-ni con le nostre rivendicazioni insieme ai volontari, gliobbiettivi per cui lottavamo erano: avere un contatto di-retto con le aziende, la fine del caporalato, l’aumentodel prezzo del cassone. Queste richieste miravano amigliorare le condizioni di vita e di lavoro non solo no-stre, ma di tutti i braccianti. Il rapporto con i volontari èstato molto importante perché durante lo sciopero sa-pevamo di poter contare sul loro appoggio. La presenzadi molte volontarie delle Bsa era particolarmente ap-prezzata e, diversamente da come si potrebbe pensare,non ci sono mai stati problemi sebbene il campo fossepopolato esclusivamente da migranti maschi. L’atteg-

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giamento era di reciproco rispetto e collaborazione.Una delle nostre figure di riferimento era sicuramenteValeria Sallustio di Finis Terrae, che si prendeva sem-pre a cuore i bisogni dei lavoratori, con attenzione e de-licatezza; proprio per questo moltissimi ospiti del cam-po si confidavano con lei. La presenza della Cgil, e inparticolare di Antonella Cazzato, era un fattore psicolo-gicamente molto importante: il riconoscimento del no-stro sciopero da parte del sindacato indicava che le isti-tuzioni si sarebbero mosse e che ci avrebbero ascoltato.La presenza di Antonella era percepita come sinonimodi risoluzione dei problemi più disparati. Le aspettati-ve erano elevatissime.

Nonostante le difficoltà con uno sforzo collettivonostro e dei volontari siamo riusciti a conservare la co-esione sociale tra i diversi gruppi comunitari nel cam-po. Mantenere salde le nostre posizioni e sentire la so-lidarietà degli altri lavoratori, ha creato un forte ele-mento di resistenza, anche da parte dei lavoratoriirregolari che speravano di vedere normalizzata la lorosituazione. Per me è stato difficile fare da ponte tra la-voratori e il mondo esterno; certo non ero da solo, maho sentito forti pressioni e responsabilità sulla miapersona. In generale cercavo di mantenere buoni rap-porti con tutte le comunità del campo, anche se duran-te le assemblee non sono mancate accese discussioni.Qualcuno in modo cinico mi canzonava, chiedendomiperché mi impegnassi tanto.

Lo sciopero ha generato una forma di unità tra i la-voratori nonostante le difficoltà culturali e linguistiche.Esso era percepito come una forma di liberazione ri-spetto a questo sistema di sfruttamento. Per questo ini-zialmente vi erano molte aspettative e un diffuso otti-

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mismo soprattutto nei primi giorni, quando dentro laMasseria si viveva un momento di eccitazione. Quandoandavamo a manifestare con la Cgil e le associazioni al-la prefettura di Lecce o in Regione a Bari quello che miemozionava è che all’interno dell’automobile o del pull-man tutti cantavano, un canto di gioia, di speranza, di li-bertà. Era straordinario, eravamo tutti uniti ed eravamoottimisti, sicuri di ottenere risultati concreti e nono-stante i risultati tardassero ad arrivare, la nostra convin-zione superava la delusione del momento.

5. Complicanze e disgregazione

Dopo qualche giorno ad alta tensione e di successoperò, le cose hanno cominciato a complicarsi. I lavora-tori hanno iniziato a scoraggiarsi e a lamentarsi del fat-to che la protesta non serviva. A loro interessavano isoldi e non la protesta, perché ritenevano che quelle«sono cose politiche» e i politici da tanti anni se ne fre-gavano di loro. Poi c’era la fame che si faceva sentire,dato che non lavoravano. Così le associazioni Finis Ter-rae e Bsa hanno lanciato una cassa di resistenza per ilavoratori in sciopero per comprare beni di prima ne-cessità, un segnale di solidarietà a chi portava avanti laprotesta. Ma a lungo andare anche il fattore cibo non èbastato a convincere una parte dei lavoratori a conti-nuare lo sciopero; essi affermavano che: «non siamoqui per mangiare, ma per lavorare». Un’ulteriore cate-goria problematica era quella dei lavoratori senza per-messo di soggiorno che non partecipavano allo sciope-ro per timore di rimanere esclusi quando la situazionesi sarebbe normalizzata.

Dopo una decina di giorni sono cominciati a venire a

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galla vari problemi. Innanzitutto si sono riaffacciati iconflitti intercomunitari che erano stati sopiti, in parti-colare tra sudanesi e tunisini; questi ultimi accusavano iprimi di aver rubato loro il mercato del lavoro, mentre isudanesi insinuavano che i tunisini fossero coccolatidalle associazioni di volontariato, visto che occupavanomolti posti in tenda, e si lamentavano di essere discri-minati nella distribuzione dell’acqua, nell’accoglienza enell’accesso allo sportello sanitario. I tunisini dalla pellequasi bianca, come gli italiani, sarebbero stati quindi fa-voriti dai volontari delle associazioni, mentre i sudanesine subivano il razzismo. D’altra parte, per i sudanesi losciopero era ulteriormente svantaggioso perché essi po-tevano contare su caporali che «gestivano» una parteconsistente della raccolta del pomodoro. Un’altra com-ponente di lavoratori che ha giocato a sfavore dello scio-pero era quella di chi era appena arrivato in Italia e avevatrovato condizioni di vita ben peggiori di quelle che im-maginava; una parte di questi era propenso a ritornarenel paese di origine solo dopo però aver guadagnato unpo’ di denaro per il viaggio e magari per iniziare un pic-colo business. A questi bastavano 600-700 euro e nongli importava certo di scioperare. D’altro canto, quellaparte di lavoratori immigrati da più tempo presenti inItalia affermava di conoscere bene la situazione e ritene-va che la presenza della Lega Nord e una normativa co-me la legge Bossi-Fini fossero sufficienti a definire l’Ita-lia un paese ostile agli immigrati. Essi sostenevano chele condizioni di sfruttamento e di lavoro in nero sonopresenti da tanti anni e che sono ben conosciute da tuttia partire dalle forze dell’ordine che chiudono gli occhi,dagli ispettori del lavoro che non eseguono adeguaticontrolli o sono corrotti, dalle istituzioni regionali che

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stanno dalla parte delle aziende poiché queste dispon-gono del potere economico e politico e finanziano le lo-ro campagne elettorali. In breve, essi affermavano che ilavoratori immigrati erano considerati elementi margi-nali di un sistema corrotto che li sfruttava a piacimento.

Progressivamente stava crescendo una guerra trapoveri sulla quale i caporali buttavano quotidianamentebenzina. In effetti un fattore che ha avuto un ruolo cen-trale nel creare una frattura tra gli scioperanti sono statii caporali, che cercavano di manipolare i lavoratori, con-trapponendo scioperanti e non scioperanti. Essi minac-ciavano i lavoratori, in particolare il nucleo duro degliscioperanti e utilizzavano l’arma del denaro per com-prare la coscienza degli altri. La loro impunità costituivaun forte freno per molti lavoratori, convinti che i capo-rali fossero sostanzialmente «coperti» dalle aziende.

Le difficoltà materiali hanno contribuito a dividere ilavoratori nonostante il cibo distribuito durante lo scio-pero, mentre la gestione della cassa di resistenza è statamolto complicata. I caporali hanno cercato in tutti i mo-di di dividere i lavoratori insinuando sospetti o minac-ciandoci direttamente. Però sono stato contento che siastato l’aspetto materiale piuttosto che quelli organizza-tivo e rivendicativo a creare problemi. Questo significache comunque condividevamo le stesse idee e voleva-mo ottenere le stesse cose. Lo sciopero ha sviluppato trai lavoratori il coraggio di denunciare i caporali, un’azio-ne questa che non succedeva da molto tempo. Soprat-tutto credo sia importante rilevare come, quando anda-vano a denunciare i caporali, i lavoratori mostravano unsentimento di rabbia verso questi che evidentemente siera accumulato dentro di loro e che aspettava il mo-mento migliore per affiorare.

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Il fattore tempo ha giocato contro gli scioperanti per-ché non è semplice tenere uno sciopero a lungo: i lavo-ratori migranti avevano il bisogno imperativo di guada-gnare denaro, mentre le istituzioni hanno risposto inmodo assai lento alle nostre richieste. L’unità e la perse-veranza del nucleo duro degli scioperanti, cioè di quan-ti avevano la sensibilità politica e che hanno resistito al-la manipolazione, sono riuscite a ottenere che il capora-lato diventasse un reato penale, che vi siano liste diprenotazione presso il centro per l’impiego, che il tra-sporto venga garantito dal Comune e che la Regioneemani una direttiva sui cosiddetti indici di congruità.Essere riusciti a rendere reato penale il caporalato cirende fieri di quello che abbiamo fatto, non solo per noima per tutti i braccianti, che siano italiani o immigrati.

La presenza di giornalisti e televisioni è stata da unlato importante e accolta con entusiasmo poiché ci davail modo di raccontare la nostra battaglia all’esterno, madall’altro lato ha reso più difficile mantenere gli equili-bri sociali dentro il campo. Non tutti amavano infatti es-sere ripresi e si sentivano invasi in quello che riteneva-no uno spazio privato nonostante le precarie condizioniabitative. La stampa ha dovuto mostrare un’altra facciadegli «extracomunitari», non più dipinti come delin-quenti o truffatori, ma come lavoratori. Questo aspettoha sicuramente aiutato a motivare i lavoratori e a pre-miarli nella loro lotta per la rivendicazione dei loro di-ritti. La nostra presenza al festival «La notte della Taran-ta» è stato un altro elemento che ha permesso di darepiù visibilità alla lotta, così come il concerto «NO CAP»,contro il caporalato, organizzato per sostenere lo scio-pero, è servito in particolare per sensibilizzare i cittadi-ni di tutto il neretino.

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5. Conclusioni

Nonostante le difficoltà affrontate lo sciopero diNardò segna un punto importante per tutti i lavoratoristranieri e italiani nella battaglia contro lo sfruttamentoe il lavoro nero. L’atteggiamento di molte aziende checontinuano a servirsi dei caporali i quali a loro volta cisfruttano mostra chiaramente come questa lotta sia an-cora lunga e complicata. Noi siamo consapevoli chel’applicazione del decreto legge sul reato penale del ca-poralato sarà difficile da applicare, perché individuare ilsingolo caporale e dimostrare che egli ha commesso unreato non è facile. Ma siamo altrettanto determinati aproseguire questa lotta: i veri e principali responsabiliin questa battaglia non sono i caporali, ma le aziende esoprattutto la grande distribuzione che determina iprezzi alle stesse imprese, che scaricano sui braccianti,gli ultimi nella catena, le loro difficoltà. Il percorso èquindi lungo e la lotta per la legalità e l’ottenimento deinostri diritti sarà dura, ma ci proveremo. Durante la no-stra lotta abbiamo notato la differenza tra la manifesta-zione e lo sciopero: manifestare serve a sensibilizzareun pubblico più o meno ampio od ottenere un incontrotra i diversi attori in gioco. Contemporaneamente peròio credo debba essere usata l’arma dello sciopero, per-ché questa lotta si vincerà nei campi di raccolta: blocca-re le produzioni, organizzando presidi permanenti finquando queste aziende non sottoscriveranno contrattiregolari e contribuiranno alle spese di accoglienza, ren-deranno sicuri i luoghi di lavoro. Lo strumento del boi-cottaggio di tutti i prodotti che arrivano dallo sfrutta-mento dei lavoratori e non rispettano i diritti del lavoropotrebbe poi rivelarsi importante.

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Questa lotta passa anche per la sensibilizzazione deilavoratori stessi in quanto ogni lavoratore migrante met-te in campo comportamenti e considerazioni basati sul-la sua situazione di emarginazione sociale. Occorrereb-be quindi avviare, come si è fatto a Nardò, una campagnaintensiva di sensibilizzazione verso questi soggetti al fi-ne di renderli consapevoli dei diritti di cui sono titolari eche è possibile lottare, come un sol uomo, contro questosistema. Subiremo delle minacce da parte dei caporali.Le province di Foggia, Potenza, Brindisi sono diverse daNardò in termini di grandezza e di complessità, quindiavremo bisogno di mezzi di trasporto, di cibo per gliscioperanti, di medici, avvocati, uffici e strutture. Noipensiamo di portare la stessa mobilitazione di Nardò nelresto della Puglia, ma anche in Calabria a Rosarno, inCampania a Castel Volturno e in tutti quei luoghi in cui èdiffusa la pratica dello sfruttamento della manodoperabracciantile.

Siamo tutti cittadini dello stesso paese e abbiamoanaloghi obbiettivi: i nostri diritti e il nostro benessere.Le aziende dovranno capire che la loro forza è costituitadai lavoratori e che esse non potranno fare a meno di re-golarizzarli. È il momento di porre fine a questi cento-cinquant’anni di caporalato in Italia.

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1. Come nasce l’esperienza di Nardò

Nel 2008 l’associazione Finis Terrae, a seguito di un mo-nitoraggio sui lavoratori migranti impiegati nell’agricol-tura pugliese, giunge a Nardò e, presa visione delle pes-sime condizioni di lavoro, propone al Comune di inter-venire per realizzare un primissimo intervento, chevedrà la luce solo nella fase finale della raccolta del po-modoro e dell’anguria. L’accoglienza, realizzata sempreall’interno della Masseria Boncuri, nella zona industria-le di Nardò, viene organizzata per cinquanta lavoratori.Dalla prima relazione depositata al Comune di Nardòemerge che il fabbisogno di manodopera anche nel2008 si aggira intorno alle 400 unità. Lo scoglio mag-giore è lo status giuridico dei lavoratori: la quasi totalitàinfatti è senza documenti. Da questa prima esperienzadi accoglienza nasce una riflessione da parte dell’asso-ciazione circa le possibilità di modifica di un quadro,quello del lavoro migrante in agricoltura, che vedrà,sempre in stretta collaborazione con il Comune di Nar-dò, lo svilupparsi di una esperienza atipica nel panora-ma italiano. D’altra parte la Puglia è una regione che è si-

Lavori in corsoPratiche e idee per la liberazione

del lavoro migrante

Gianluca Nigro

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18. A. Sayad, La doppia assenza, Cortina, Milano, 2002.

curamente un laboratorio per i lavoratori migranti: dal-l’arrivo degli albanesi nel 1991 alla realizzazione e diffu-sione sul territorio di centri di detenzione e per richie-denti asilo.

L’associazione Finis Terrae interviene in modo co-stante da più di un decennio sulla questione migrato-ria tenendo insieme l’intreccio fra lavoro migrante inagricoltura e percorso migratorio, che è riconducibileall’idea mirabilmente sintetizzata da Abdelmalek Sa-yad che l’immigrazione è «un fatto sociale totale»18. Inquest’ottica abbiamo iniziato a intravedere, secondouno schema progressivo, in ogni intervento la bozza diquello successivo, giungendo così ad occuparci di que-stioni, come la tutela del lavoro, apparentemente mol-to lontane dal punto di partenza, ma come vedremopiù avanti strettamente collegate se non addirittura in-dissolubili da esso.

L’intervento alla Masseria Boncuri di Nardò è il ten-tativo di ricomporre un puzzle articolato di azioni chel’associazione ha svolto nel corso dei dieci anni prece-denti. Non si tratta della sommatoria delle esperienzepassate, quanto piuttosto della presa d’atto dell’insie-me delle necessità dei migranti, dentro un quadro nor-mativo altamente repressivo, per quanto inefficace,che spesso elude i più fondamentali diritti. All’internodi questa cornice Finis Terrae, insieme agli enti locali,e a partire dal 2010 in collaborazione con le Bsa ed ilTribunale dei Diritti del Malato di Nardò, ha provato aintervenire su una questione, quella del lavoro, spessoelusa anche dal movimento antirazzista. L’interventomira quindi a una sorta di «sindacalizzazione» dei la-

voratori migranti all’interno però di un percorso chetiene in considerazione la dimensione sociale del lavo-ro migrante.

Uno dei primi interventi di Finis Terrae nel 2002era stato nella zona del foggiano a ridosso e dentro ilcampo di Borgo Mezzanone, luogo di smistamento dimigranti in arrivo sulle coste pugliesi ed in altre zonedel paese. Seguendo le tracce e l’evoluzione dei percorsi«sociali» dei migranti in arrivo in quel centro, come neicentri del leccese e del brindisino, si è diffusa la consa-pevolezza che l’aspetto eluso da queste azioni rimanevasempre il lavoro. I migranti, privi di sostegno e in as-senza di vere e proprie politiche dell’accoglienza, finiva-no per rimpinguare le fila del lavoro nero, in specie nelsettore agricolo. Il sistema dei centri (Cie, Cara, Cai), in-fatti, ha costituito il serbatoio di manodopera stranieraproprio nei luoghi ad alta concentrazione di attivitàagricola. Non è difficile scorgere, ad esempio, come nelMezzogiorno i luoghi ad alta concentrazione di mano-dopera straniera, quindi di sfruttamento e caporalato,siano sovrapponibili alla geografia dei centri per mi-granti diffusi sul territorio. Naturalmente il fenomenosi è espanso, ma questi luoghi continuano ad essereproduttori di manodopera occupata irregolarmente. Larecente gestione dell’emergenza nord-africana, tra gen-naio e agosto 2011, sembra rientrare esattamente nellamedesima logica.

Alla fine del 2009, dopo la chiusura del campo del-la Masseria Boncuri, abbiamo compreso che l’inter-vento a tutela dei lavoratori stranieri in agricoltura inquell’area o cercava di cogliere i diversi elementi del fe-nomeno o poteva dirsi inefficace. Da qui Finis Terrae,attraverso anche una dettagliata relazione tecnica al

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Comune di Nardò, particolarmente sensibile alla te-matica, si è proposto il passaggio alla dimensione di«campo», cioè di allestire uno spazio con delle tende edi disporre di servizi essenziali per una accoglienzache toccasse i vari elementi dell’esperienza migratoria,compresa l’attivazione di un ambulatorio medico al-l’interno dei locali della Masseria, grazie all’ausilio del-la locale Asl.

In questa seconda fase dell’esperienza della MasseriaBoncuri si è aperto un nuovo modello di intervento che,oltre ad essere originale sul piano delle pratiche, ha pro-vato anche a rompere dei nodi culturali e teorici dell’agi-re sociale e politico. Oltre alla collaborazione delle istitu-zioni, partner insostituibili in interventi di questa porta-ta, è stato chiesto il sostegno delle Brigate di solidarietàattiva, una delle associazioni più «inclassificabili» delpanorama sociale italiano. L’esperienza pregressa delleBsa nella tutela dei terremotati di L’Aquila era, infatti, lagaranzia della capacità di intervenire anche a Nardò, co-me in Abruzzo, evitando forme organizzative del campogerarchiche e paramilitari.

2. La Masseria Boncuri:«Ingaggiami. Contro il lavoro nero»

Dal giugno 2010, grazie all’apporto delle diverseistituzioni locali (Prefettura di Lecce, Comune di Nar-dò, Asl di Lecce, Provincia di Lecce e forze dell’ordine),si è arrivati, non senza difficoltà, ad aprire il campo del-la Masseria Boncuri di Nardò, istituzionalmente defi-nito come Progetto A.M.I.C.I., ma ribattezzato infor-malmente campo Giuseppe Di Vittorio; un riferimen-to ideale che incarnasse allo stesso tempo l’umiltà dei

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costumi da un lato e la convinzione della necessità ditrasformazione dall’altro. In accordo con tutti i sogget-ti si è promosso, anche per segnare una rottura cultu-rale con le esperienze pregresse, un meccanismo discambio fra i lavoratori ed il campo: si offre accoglien-za in cambio di un percorso di emersione dal lavoro ne-ro, da affrontare ovviamente in modo volontario. Al la-voratore migrante che giungeva a Boncuri, oltre alla re-golarità del soggiorno, veniva richiesta la regolaritàdella posizione lavorativa, che in agricoltura viene de-codificata con l’ingaggio, cioè l’apertura di una posizio-ne amministrativa, che tuttavia non corrisponde anco-ra a un contratto. L’efficacia di questa esperienza è con-nessa, inoltre, alla stretta collaborazione istituzionaleed in particolare all’impegno profuso dalla Prefetturadi Lecce nel lavoro di rete e, soprattutto nel 2010, atti-vare controlli frequenti nelle aziende della zona. Talecollaborazione, invece, è stata molto più debole nellastagione 2011, mostrando come l’uso ideologico del te-ma della crisi da parte delle istituzioni abbia ridottol’incisività della lotta al lavoro nero.

Questo meccanismo, unito al lancio della campagna«Ingaggiami. Contro il lavoro nero», che utilizzava ma-gliette e strumenti informativi ha prodotto nel 2010 l’e-mersione di circa 200 lavoratori, su una platea com-plessiva di 400, a fronte della decina degli anni prece-denti. Questa prima esperienza, apprezzata anche alivello nazionale, ha avuto il plauso di organizzazioniinternazionali come l’Unhcr (Alto Commissariato delleNazioni Unite per i Rifugiati). Come in passato rimane-va largamente assente, nonostante i numerosi tentatividi interlocuzione da parte delle istituzioni, il mondodell’impresa agricola. Un’assenza non casuale che con-

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tinua a produrre pesanti conseguenze sull’organizza-zione stessa del campo e sulla risposta allo sfruttamen-to del lavoro nero e che ha reso manifesta anche agli os-servatori più distratti la polarizzazione delle posizioni:di là l’impresa, di qui la forza lavoro.

Nell’autunno del 2010 la Giunta Comunale di Nardòentra in crisi e sono convocate elezioni anticipate, tenutenella primavera del 2011. Il commissario Prefettizio, inaccordo con la Prefettura di Lecce, poco tempo primadelle nuove elezioni promuove un bando per la gestionedel centro di Masseria Boncuri che prevede la gestione ditutti i servizi per una capienza massima di 400 lavorato-ri. La cifra messa a Bando corrisponde a 19.500 euro coneventuale ribasso. Finis Terrae partecipa al bando e si ag-giudica la gestione per la modesta cifra di 18.500 euro. Èdel tutto evidente che l’intenzione di Finis Terrae e delleBsa non è tanto quella di vincere un «appalto», quanto dicontinuare a promuovere un’esperienza che ha certa-mente introdotto degli elementi di novità e aperto unapartita importante nella lotta allo sfruttamento dei lavo-ratori migranti e al caporalato. Il tema del finanziamen-to del campo è stato, a sproposito, trattato dal sistema deimedia in modo leggero e privo di approfondimento. Nelmomento in cui scriviamo non si sono ancora ricevuti irimborsi dei soldi del bando 2011, mentre le due associa-zioni hanno speso per la gestione complessiva del cam-po quasi il doppio del denaro previsto dal bando. Per es-sere precisi si sono spesi, in proprio e non rendicontabi-li nel budget del bando previsto dal Comune, ulteriori17.000 euro, di cui 3.000 in capo a Finis Terrae e 14.000in capo alle Bsa. Tali somme sono il frutto di attività diautofinanziamento delle stesse associazioni e in larghis-sima misura di sottoscrizioni degli aderenti alle associa-

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zioni stesse, oltre che di contributi volontari erogati alleBsa dalla chiesa Valdese provenienti dai fondi dell’ottoper mille. In molti casi, i media che si sono interessati al-lo sciopero hanno diffuso cifre esorbitanti in capo aglienti locali. In realtà la gran parte della spesa per la ge-stione del campo è stata effettuata dal Comune di Nardò,mentre la Provincia di Lecce ha partecipato finanziaria-mente in modo esiguo. La Regione Puglia, invece, a suotempo mise a disposizione i fondi, attraverso un bando,per la ristrutturazione della Masseria Boncuri. Tuttaviala quasi totalità delle risorse messe a disposizione daglienti locali per gli interventi strutturali sulla Masseria esull’area annessa erano vincolate dal patto di stabilità acui questi enti sono costretti da leggi statali.

Il campo si è aperto il 20 giugno 2011 fra mille diffi-coltà. Fra le più importanti vi era l’insufficiente dotazio-ne di tende e brandine per il numero elevato di ospiti, ilmodo di erogazione dell’acqua potabile ai lavoratori el’acqua delle docce che era quasi permanentementefredda. Dal punto di vista della raccolta, durante la sta-gione le aziende produttrici di angurie hanno dichiara-to lo stato di crisi a causa dell’abbassamento dei prezziderivante dalla concorrenza dei produttori di altri paesieuropei e africani. A questo fenomeno è corrispostauna decisa diminuzione di manodopera impiegata, afronte di presenze sul territorio che risentivano di feno-meni esogeni al «normale» arrivo di braccianti sul terri-torio, come i flussi di migranti tunisini e di altri fuggitidal conflitto bellico, da poco usciti dal centro di Mandu-ria, distante solo una trentina di chilometri da Nardò.

Il 30 di luglio, a seguito di una contrattazione fra ungruppo di lavoratori e un caporale, un gruppo di lavora-tori migranti abbandona i campi e, dopo un blocco stra-

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dale e la prima assemblea dei lavoratori, proclama losciopero modificando molti aspetti dell’immagine co-struita negli ultimi venti anni sui migranti. Lo scioperoprotrattosi per quasi due settimane ha modificato, inol-tre, gli assetti culturali di associazioni e sindacati sul te-ma del lavoro migrante. Se lo sciopero ha avuto un’ecopiuttosto ampia sui media locali, nazionali ed europei,poco si è analizzato il percorso che lo ha sostenuto e lecontraddizioni che esso ha aperto. Da questo punto divista crediamo che per comprendere fino in fondo l’e-sperienza della Masseria Boncuri a Nardò sia necessa-rio confrontarla con le altre realtà come Foggia, Rosar-no, Cerignola dove vivono i lavoratori braccianti in agri-coltura. Sono questi i luoghi dove è maggiore lapresenza di lavoratori e minore, se non addirittura ine-sistente, l’accoglienza e i servizi ai braccianti stranieri.

3. Una teoria antica e una pratica à la page:il mutualismo

3.1 Il rovesciamento del modello Finis Terrae e le Brigate di solidarietà attiva sono una

Onlus e una Associazione di promozione sociale. Agliocchi degli addetti ai lavori si possono rappresentare co-me parte integrante del cosiddetto Terzo settore. Unadizione, quella di Terzo settore, che a entrambe rimanestretta forse perché, per un lungo periodo, con questadefinizione si è voluto intendere uno status giuridicoche definiva una miscela di cittadinanza attiva e di vo-lontariato. Oggi ci pare che, nonostante la debolezza in-trinseca di queste due caratteristiche, esse siano fonda-mentalmente disattese. Nel Terzo settore si trova, infat-ti, l’intreccio fra imprenditoria minore, sovente

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giudicata «di seconda categoria», e il parastato. In que-sto senso la nostra collocazione giuridica è fuorvianterispetto alle pratiche perseguite: la professionalità nonè declinata nel senso di diventare professionisti. Ogniintervento messo in campo cercando di mantenere unrapporto fra pari ha una sua temporalità: estinto il biso-gno finisce anche l’intervento. Da questo punto di vista,pur nel rispetto di chi opera con altri modelli, riteniamoche l’elemento della carità sia fuorviante nella definizio-ne di queste pratiche.

In queste pratiche si producono, ovviamente, moltecontraddizioni: la dizione di privato sociale, ad esempio,spesso viene declinata più sul livello del privato che suquello del sociale; l’idea che dietro ogni intervento diquesta natura vi sia sempre l’elemento economico per isoggetti che lo realizzano; il rischio di sostituirsi al pub-blico in settori di intervento che necessitano, invece, diuna attenzione specifica da parte dello stato e delle suearticolazioni. Questi elementi producono, molto spesso,due sentimenti distinti e contrastanti fra loro, ma nonmeno fuorvianti sul piano dell’approccio culturale: daun lato si può essere interpretati come gli speculatori suibisogni altrui, dall’altro, come quelli sempre buoni per-ché, appunto, fanno la carità. Da entrambi questi ap-procci cerchiamo di tenerci a debita distanza.

Piuttosto quanto si è tentato di mettere in campo so-no sperimentazioni che si propongono come obiettivofinale la modifica del senso comune e delle modalità diintendere i rapporti sociali. Nell’intervenire nel conte-sto specifico della Masseria Boncuri di Nardò si è strut-turato un progetto fra le due associazioni che contem-plasse alcuni tratti culturali: il recupero e la riattualizza-zione di forme di mutualismo. A partire dal 2010, quasi

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19. G. Nigro, Il neocafone all’inferno postmoderno. Precari e sovrapproduzio-

ogni decisione che riguardasse il campo è stata presa informa assembleare ed orizzontale, evitando rapportigerarchici. Si è cercato così di introdurre anche fra glistessi braccianti, seppur di diverse nazionalità, forme disolidarietà a partire dalla condizione che essi vivevano.Durante il nostro peregrinare per campagne ci siamoresi conto che nessuna delle agenzie sociali classiche siera occupata di questo fenomeno a partire dall’ottica dichi la condizione di bracciante la vive sulla propria pel-le. Solo di recente, ad esempio, le organizzazioni sinda-cali stanno provando ad intervenire su questo terreno.

Sia nell’organizzazione del campo sia nelle relazionifra operatori, volontari e lavoratori abbiamo provato ainvertire il modello. Nell’organizzazione del campo ilrovesciamento si connotava rispetto all’impianto pro-dotto dalla legge Bossi-Fini, cioè prima si offriva l’acco-glienza e poi si strutturava il percorso di emersione dallavoro nero, attraverso la richiesta dell’ingaggio. La legi-slazione italiana, invece, richiede almeno formalmenteche l’ingresso in Italia avvenga solo dopo aver firmatoun regolare contratto di lavoro. Quanto ai rapporti fra ilavoratori e le persone che, a vario titolo, partecipavanoal progetto l’impostazione non è mai stata caritatevole,ma orientata ad un mutuo aiuto e a introdurre elementiche consentissero l’autonomizzazione delle persone ri-spetto, ad esempio, all’accesso ai servizi del territorio.

Nelle stagioni del 2010 e del 2011, abbiamo verifica-to che una parte relativamente consistente dei lavorato-ri in arrivo a Nardò era stata espulsa dalle fabbriche delNord a causa della crisi. Questo ci ha posto davanti a unfenomeno che, altrove, avevamo già descritto19, ma con

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ne, in G. De Vito (a cura di), Tutti giù per terre. Il lavoro in campagna.Ingag-gio grigio e fabbriche di clandestinità, Levante, Bari 2009, pp. 59-65.20. Pino Ferraris, Nuovo mutualismo come democrazia radicale, «ProgettoLavoro», n. 4/2011.

il quale non avevamo fatto i conti operativi. Come ab-biamo visto, la scarsa sensibilità dei soggetti sociali(partiti, sindacati, istituzioni e anche associazionismoclassico) rispetto a questi fenomeni ci ha indotto a im-maginare di ricercare nel passato alcune delle modalitàcon le quali dovevamo agire, sebbene nella nostra espe-rienza pregressa non vi fossero tracce di queste attivitàdi tutela dei diritti dei lavoratori. Le organizzazioni sin-dacali più per inadeguatezza culturale che per volontànon sembrano avere ancora sviluppato una dimensio-ne d’insieme delle forme di sfruttamento della mano-dopera migrante e delle sue intrinseche specificità. Inogni caso, a prescindere dalle responsabilità, purtropponon ci si è accorti di due mercati del lavoro distinti e di-stanti, comunque paralleli, sempre in conflitto fra loro:quello degli italiani e quello degli stranieri.

Come mette in luce Pino Ferraris «La mutualità èespressione di un associazionismo orientato a fronteg-giare i problemi emergenti nella sfera della riproduzio-ne più che quelli che si generano nella produzione, es-sa produce un’associazione per, più che un’associazio-nismo contro… Essa non tende a rivendicare unobiettivo quanto piuttosto a praticare l’obiettivo. Lo spi-rito di cooperazione e le pratiche di autogestione fun-zionano da contrappeso alle culture del conflitto e allepratiche di delega che prevalgono nelle associazionicontro»20. Tuttavia, nel caso di Nardò la mutualità è ser-vita anche ad alimentare, in forme indirette, la conflit-tualità nella produzione, dimostrando che nella crisi

delle organizzazioni sociali e politiche possono aprirsi-spazi di agibilità.

3.2 La cassa di resistenzaFin dall’inizio dello sciopero i volontari colgono im-

mediatamente che la sua «specificità» ha delle conse-guenze sulle persone che lo agiscono, cioè sui migranti,completamente differenti rispetto a uno sciopero dioperai o lavoratori italiani. I lavoratori migranti possie-dono reti sociali rarefatte che possano sostenerli neimomenti di massima difficoltà. Per un lavoratore mi-grante in agricoltura una giornata di sciopero significaoggettivamente un’auto-espulsione dal ciclo produttivoe la mancanza, quasi immediata, di risorse per il suo so-stentamento. A Nardò questo meccanismo ha portatoalla veloce decisione di lanciare una «cassa di resisten-za» tenendo sempre presente l’orizzonte del mutuali-smo. Gli scarsi mezzi mediatici a disposizione (reti in-formatiche e relazioni sociali delle associazioni) per-mettono di lanciare la raccolta di cibo e di denaro.

Le difficoltà che nascono dalla creazione di una «cas-sa di resistenza» sono però altrettanto immediate e nonprive di conseguenze per la gestione del campo: l’ideache l’aiuto, peraltro modesto, sia orientato principal-mente a chi ha sostenuto lo sciopero non è condivisa dauna parte dei migranti. In questo senso non è da di-menticare che una parte consistente dei lavoratori pre-senti al campo aveva già risentito della ridotta capacitàdelle aziende di assorbire il normale carico di manodo-pera, a causa dalla dichiarazione dello stato di crisi dellaproduzione di angurie.

Sulla vicenda della «cassa di resistenza» ha poi in-fluito la campagna diffamante, volta a insinuare dubbi

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sulla reale entità delle risorse raccolte, messa in atto daalcuni soggetti, esterni al campo. In effetti, per qualchegiorno, si verifica uno straordinario processo di solida-rietà nei confronti dei lavoratori: a più riprese molti cit-tadini di Nardò si recano al campo con buste piene di ci-bo e di generi di prima necessità che distribuiamo allasera ai migranti scesi in sciopero. Intanto iniziano adarrivare anche i primi, esigui, contributi in denaro. Lapresa di parola diretta dei migranti ha contribuito a co-struire atteggiamenti di affetto nella popolazione localee anche nelle organizzazioni sociali, sebbene più sulpiano simbolico che su quello materiale. D’altra parte,le risorse monetarie che affluiscono nella «cassa di resi-stenza» ci mostrano come la larga condivisione dellosciopero va di pari passo con le limitate disponibilitàeconomiche di chi manda dieci, venti euro per volta.

L’attivazione della «cassa di resistenza» sconta un li-mite proprio nel rapporto con i lavoratori migrante: icirca 2000 euro raccolti che sono stati destinati a chi losciopero lo aveva sostenuto hanno creato non poche dif-ficoltà nel ristabilire, cosa che poi è avvenuta con la qua-si totalità dei lavoratori, un clima disteso. Nelle sue con-traddizioni l’esperienza della «cassa di resistenza» haaperto una serie di questioni che rimangono ancora sulpiatto: chi si occupa e come della tutela dei migranti, inquanto lavoratori in un contesto che, come vedremo piùavanti, non è canonico? Come si può contrastare in ma-niera efficace la subalternità dei migranti nel lavoro pri-ma ancora che sul campo dei diritti di cittadinanza?

Per noi rimane l’obiettivo di «creare le condizioni per-ché le persone delle classi subalterne diventino capaci disollevarsi e di camminare sulle proprie gambe: questaantica missione del mutuo soccorso torna oggi a far parte

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21. Ferraris, cit. Per maggiori approfondimenti sulla rinascita del mutua-lismo si veda Pino Ferraris, Ieri e domani, Edizioni dell’Asino, Roma 2011.

dell’azione per la libertà e la giustizia sociale»21. In questosenso siamo associazioni, ma non siamo Terzo settore.

4. Autonomia e relazione: l’esperienza di Nardòcome paradigma di rapporto fra politico e sociale

La storia della Masseria Boncuri a Nardò dal 2008 al2011 è segnata da un confronto molto serrato fra il livel-lo associativo e quello istituzionale. Tuttavia in questoconfronto l’autonomia reciproca, pur nel rispetto degliaccordi e delle convenzioni, è il tratto distintivo di que-sta lunga collaborazione orientata al confronto. Si trattadi una modalità diversa da quella più usuale, quando ilmondo del sociale diventa collaterale a quello politico,producendo nei fatti una subalternità che nuoce, in ulti-ma analisi, agli eventuali soggetti che dovrebbero esse-re i referenti ultimi degli interventi. La logica economi-ca produce quasi sempre questo collateralismo. Unodei tratti problematici, infatti, della logica dei piani dizona, previsti dalla normativa vigente sui servizi sociali,è che la gran parte del sociale è piegato alle esigenze diquesta o quella amministrazione, eludendo il fatto chegli interventi sono finalizzati alle persone che esprimo-no un bisogno. A Nardò, pur con due diverse ammini-strazioni, tutto questo non è avvenuto. L’interlocuzionefra istituzioni e associazioni è stata priva di condiziona-menti e, quando è occorso, si è messo in campo ancheun confronto stringente, come nel caso delle posizioniquasi giustificative del fenomeno del sottosalario, pro-dotto dalla crisi, assunte dal Sindaco nei confronti delle

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22. Ferraris, Nuovo mutualismo…, cit.

aziende. Forse questo reciproco riconoscimento basatosui contenuti è stato uno degli elementi fondamentaliperché la sperimentazione di Boncuri prendesse corpo.

L’intreccio fra politico e sociale è avvenuto, per scel-ta, dentro la dimensione culturale ed organizzativa del-le stesse associazioni presenti alla Masseria Boncuri.Questa scelta nasce da una riflessione che tiene dentrodi sé la crisi sia delle organizzazioni politiche (partiti esindacati) sia dei modelli di organizzazioni sociali (as-sociazioni, Terzo settore). I campi del politico e del so-ciale oggi devono rimescolarsi ed essere più interdipen-denti poiché la condizione dei migranti è legata a dop-pio filo alla politica. La condizione dei bracciantistranieri e il loro grado di sfruttamento dipendono inbuona misura dalla politica. Di contro, oggi, partiti esindacati non sarebbero in grado di affrontare in pro-prio un intervento risolutivo di questi problemi. In que-sto senso l’esperienza alla Masseria Boncuri contiene insé un ampio intervento politico, nonostante non fossequesto l’obiettivo di Ft e Bsa che giungono da percorsidifferenti a sviluppare un intervento fuori dallo sche-matismo tradizionale. Potremmo dire che oggi il socia-le si deve «politicizzare» e la politica si deve «socializza-re». Solo così possiamo superare alcuni scogli nel riatti-vare la società. Come nota Pino Ferraris: «È nella crisi diquesto paradigma che riemerge il mutualismo con lesue pratiche di solidarietà per la sua volontà di costruireun presente non rinviando tutto al futuro, il suo sforzodi crescita delle capacità di realizzare in proprio, infineil suo rifiuto della passività assistita»22.

Nardò ci ha insegnato che l’auto-organizzazione è

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23. Sul tema mi permetto di rimandare a G. Nigro, Il cafone del villaggioglobale, in Milena Rizzo (a cura di), L’agricoltura pugliese fra occupazione ir-regolare e immigrazione, Manni editori, Lecce 2011.

una forma di agire contemporaneamente il sociale e ilpolitico per provare a rompere i vizi di entrambi. Senzalo sciopero la lotta ai caporali e il varo di una legge cherende il caporalato un reato penale non sarebbero statepossibili. Tirare per la giacchetta questa o quella inizia-tiva è dannoso: non ne emergono le contraddizioni piùstringenti, utili a comprendere davvero in profondità ifenomeni e a stabilire delle azioni che possano produr-re una trasformazione dell’esistente. Dalla pratica delmutualismo rinasce anche la possibilità di costruire al-leanze sociali trasversali alle appartenenze nazionali, ingrado di prendere in carico la questione dell’uguaglian-za e della precarietà in Italia ed in Europa.

5. Il caporalato degli stranieri: uno scempio lungoventi anni. Masseria Boncuri un tentativo di risposta

Il fenomeno del caporalato rientra in una delle nu-merose forme dell’organizzazione del lavoro nero diffu-se in Italia23. Il caporalato rivolto agli stranieri nasce neiprimissimi anni Novanta, e si fonda sull’intreccio frauna concezione «premoderna» del lavoro e l’esposizio-ne agli effetti di precarizzazione del lavoro prodotti dal-la globalizzazione. Il mercato del lavoro è sostanzial-mente il precipitato delle norme che regolano l’ingressoe la permanenza dei cittadini non comunitari nel siste-ma Schengen. In Italia l’impianto normativo delle leggisull’immigrazione segna e condiziona la possibilità diessere regolari sul livello sia della cittadinanza sia del la-voro. Per effetto di tale impianto normativo si sono for-

mate in Italia delle zone franche di lavoro nero in agri-coltura, proprio in corrispondenza dei centri governati-vi che avevano la funzione di gestire i flussi migratori.

In queste zone, anche come retaggio di pratiche lavo-rative già presenti, si è sviluppato il caporalato rivoltoagli stranieri. Il caporalato migrante si basa su due ele-menti fondamentali: l’illegalità del soggiorno e l’assenzadi controlli sulla regolarità dei contratti o degli ingagginei luoghi di lavoro. Se questi due aspetti sono gli ele-menti normativi su quali si fonda il caporalato agli stra-nieri, vi è un tratto fenomenologico particolarmente du-ro a farvi da corollario. Nelle citate zone franche il brac-ciante straniero vive in una condizione di invisibilità,poiché lo spazio di vita e quello di lavoro spesso si so-vrappongono e il mancato contatto con i centri urbani ela sua forte dipendenza materiale dal caporale è un ele-mento centrale del rapporto di sfruttamento. Un brac-ciante che vive nel «ghetto» di Rignano Garganico, inprovincia di Foggia, luogo molto isolato dal centro abita-to dove dimorano numerosi lavoratori, per accedere a unambulatorio medico o per soddisfare qualsiasi altro bi-sogno, così come per trovare lavoro, è costretto a rivol-gersi al caporale. Questa dipendenza dal caporale è stret-tamente legata alla condizione di ricattabilità del lavora-tore e al fatto che il lavoratore straniero è «esterno» allospazio pubblico, che non riconosce la sua funzione nésociale né lavorativa. Egli non ha particolari legami con ilterritorio, anzi si può dire che il territorio in molti casi lorespinge, pur traendo beneficio dalla sua presenza.

Il fatto che il caporale sia un migrante implica chel’intero sistema d’impresa che si appoggia a queste mo-dalità organizzative ha sviluppato particolare attenzio-ne a due elementi su cui poi strutturare la propria attivi-

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tà di messa al lavoro della manodopera: l’evoluzionedelle norme che regolano l’immigrazione e la disponi-bilità massiccia di lavoratori in quelle condizioni di ri-cattabilità. In molte inchieste giornalistiche si sonomesse in evidenza le pessime condizioni di vita e di al-loggio dei braccianti stranieri in Italia. In pochi casi, tut-tavia, è stato sottolineato come queste situazioni rap-presentano la condizione generale e non l’eccezione. Èa partire da situazioni di isolamento fisico e sociale chei caporali possono imporre una sorta di tassa di cinqueeuro per accompagnare i braccianti sul posto di lavorooppure un euro e mezzo per una bottiglia d’acqua men-tre questi sono sui campi.

Fra il caporalato italiano e straniero esistono delleanalogie, ma quello straniero ha una sua ferinità e mal-vagità che trascende quanto abbiamo conosciuto nellecampagne italiane prima dell’inizio del processo migra-torio: lo sfruttamento dei braccianti stranieri è rafforzatodal loro essere estranei ai luoghi e alla cultura dei luoghidove esso prende forma. L’esperienza della MasseriaBoncuri è stata quindi costruita a partire proprio da que-sti elementi, cioè rendere visibile la condizione di brac-ciante e di organizzare, con le scarse risorse a disposizio-ne, i servizi essenziali che potessero intaccare, almenosul livello delle condizioni di vita, la stretta dei caporali.Per agire, invece, sul livello del lavoro abbiamo costruitola campagna «Ingaggiami. Contro il lavoro nero».

Il nostro intervento è quindi partito mettendo nellecondizioni le istituzioni di conoscere il fenomeno per«costringere» le stesse a prendere atto delle proprie re-sponsabilità rispetto ai fenomeni di degrado e sfrutta-mento lavorativo. Dentro questa logica abbiamo lavora-to per disporre dei servizi pubblici nel campo, come

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24. Y. Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, Manifestolibri,Roma, 2002, p. 13.

l’ambulatorio medico della Asl. Gli altri servizi quali latutela legale, i corsi di lingua e il tentativo di emersionedal lavoro nero miravano a rompere l’isolamento e a co-struire spazi di tutela e di autonomia che incrinassero lasudditanza al caporale. In questo senso non è casuale ilfatto che lo sciopero sia avvenuto a Nardò. Lì per un mi-grante incontrare al campo un volontario o un delegatodell’ente locale, o parlare di ingaggio, era sicuramentemolto più semplice e probabile che altrove.

6. Il migrante lavoratore: questo sconosciuto

La debolezza dei migranti nel mercato del lavoro inEuropa, ed in particolare in Italia, è connessa a un siste-ma normativo, sia europeo sia italiano, che strategica-mente cerca di renderli subalterni, oltre che alle diverseconcezioni del lavoro, in particolare fra lavoratori africa-ni ed europei. Il concetto di esternalità proposto da YannMoulier Boutang, specifica nel dettaglio quali sono lestrategie degli stati più industrializzati per regolare laforza lavoro migrante. Egli sostiene infatti che «I mi-granti internazionali appartengono ad un mercato dellavoro che abbiamo chiamato mercato esogeno. Ne con-segue una specificità giuridica e istituzionale: si tratta diuna convenzione di cui occorre rendere ragione. Dallascomparsa del libretto di lavoro, il lavoratore salariatonon è soggetto ad alcuna autorizzazione di lavoro e sog-giorno. Nello stato nazione, questa non è la situazionedel lavoratore straniero»24. In questo senso anche le poli-tiche governative dei flussi migratori italiani non si dis-

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25. F. Viti, Lavoro e apprendistato in Africa Occidentale, in S. Vignato (a cu-

costano da questa logica. Da molti anni sosteniamo chele leggi che regolano l’immigrazione in Italia si possonodefinire leggi sul mercato del lavoro. In esse è contenutala filosofia del rapporto fra mercato del lavoro e popola-zione migrante. Di fatto l’idea del contratto di soggiornoe, prima ancora, dell’ingresso col meccanismo dellosponsor, sono strumenti normativi che regolano e ren-dono il lavoratore migrante subalterno e dipendente dal-la sua condizione giuridica di «ospite». La strategia mes-sa in atto dai vari governi, a partire dai primi ani novanta,prevede e si sostanzia con una massiccia opera di clan-destinizzazione, funzionale a rendere disponibile e ri-cattabile il lavoratore straniero che giunge in Italia. Inagricoltura il processo di sostituzione della manodoperaitaliana a favore di quella straniera è iniziato da circa ven-ti anni e, fuori dai contesti ufficiali, ha prodotto un siste-ma che oggi si riproduce con buona pace delle istituzio-ni, e con l’avallo, forse anche involontario, di partiti e sin-dacati, che non hanno saputo leggere ed agire questatrasformazione in modo adeguato.

Collateralmente a questo processo è necessariocomprendere anche come le differenti pratiche lavora-tive dei migranti presenti nelle campagne italiane agi-scano la loro influenza. Come ha notato Fabio Viti:«una nozione di lavoro tutta incentrata sulla forma sto-rica del lavoro salariato e sui suoi correlati – il valore la-voro, il mercato del lavoro, il lavoro alienato – non corri-sponderebbe, se non molto parzialmente, all’ampiezzadelle modalità di esercizio delle attività produttive ri-scontrabili oggi in Africa»25. In questo senso l’adatta-mento sul piano della condizione lavorativa proposta

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ra di), Soggetti al lavoro. Un’etnografia della vita nel mondo globalizzato,Utet, Torino 2010, pp. 63-92.26. Ibidem.

dal mondo agricolo italiano, e del Mezzogiorno in parti-colare, ai lavoratori stranieri si interseca bene con lacondizione di provenienza. La diffusione del lavoro tra-dizionale e comunitario in molte delle zone rurali del-l’Africa occidentale può aiutare a comprendere comemai alcuni dei lavoratori stranieri siano disposti ad ac-cettare quelle condizioni di lavoro anche in Europa. Lacontinuità spazio-temporale fra vita e lavoro costituiscel’elemento caratterizzante del lavoro comunitario e tra-dizionale in Africa occidentale26. Questo tipo di culturacontiene in sé anche la collocazione sociale, o meglio illavoro che un uomo svolge è figlio dello status socialeche si ritrova alla nascita: non è il lavoro a determinarelo status della persona, ma è la persona che svolge il la-voro in base al suo status. Certamente questa caratteri-stica non è estensibile a tutti i casi, tuttavia il fatto cheuna quota importante di lavoratori stranieri nell’agri-coltura italiana provenga da zone dove è diffuso questotipo di approccio può aiutarci a comprendere l’elevato li-vello di sopportazione di condizioni lavorative forte-mente penalizzanti. Come abbiamo verificato a Nardò ein altri luoghi ad alta presenza di lavoro migrante inagricoltura e di caporalato è importante inoltre conside-rare che spesso molti caporali vivono volontariamentenegli stessi casolari abbandonati, senza energia elettri-ca ed acqua corrente, nonostante siano nelle condizionieconomiche per permettersi un alloggio ed una vita piùdignitosa. Questo aspetto può essere riconducibile an-che alla costruzione di una credibilità personale rispet-to agli altri lavoratori e ad avere un maggior controllo

sulle persone alle proprie «dipendenze». Tuttavia lecondizioni di vita nei casolari abbandonati e nei ghettinelle campagne non sarebbero sopportabili se non den-tro un quadro di condizioni di lavoro ri-conosciute.Questa differente impostazione ha offerto il fianco all’o-pera di precarizzazione del lavoro messa in campo apartire dalla seconda metà degli anni novanta e agevola-to lo smantellamento delle garanzie conquistate dai si-stemi socialdemocratici europei a partire dal secondodopoguerra fino alla fine degli anni settanta.

Il corollario di elementi discorsivi legati alla sicurezzae a sfondo razzista è a nostro avviso funzionale alla ripro-duzione del modello economico basato sulla subalterni-tà dei lavoratori migranti. La centralità della sicurezzanelle politiche governative, che non a caso viene utilizza-ta in modo bipartisan esattamente dalla metà degli anninovanta, crea il substrato propagandistico per giustifica-re le scelte sui provvedimenti che determinano le politi-che sul mercato del lavoro. La condizione di sospensionegiuridica, o meglio di sottomissione a un sottosistemagiuridico, fa dei migranti stessi una classe in sé. Seppur ilconcetto di classe è oggi considerato desueto, nella fatti-specie si può ritenere applicabile il concetto di «classe insé e non ancora classe per sé», dove la percezione di esse-re una classe da parte dei migranti è disgiunta dalla per-cezione di sé che hanno i migranti stessi. Tuttavia essi,come spiega Abdelmalek Sayad, vivono in una sorta dilimbo dove si costruisce lo spazio di ricattabilità.

In questo senso l’esperienza di Nardò rompe moltischemi. Innanzitutto riporta la condizione dei brac-cianti alla visibilità, riproponendo il richiamo ad unavolontà di essere lavoratori salariati. È importante, a talproposito, ricordare che le richieste degli scioperanti

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27. Per un approfondimento si veda la ricostruzione di G. Gramegna, Brac-cianti e popolo in Puglia. Cronache di un protagonista, De Donato, Bari 1976.

contenevano, fra l’altro, la volontà di eliminare il capo-rale per avere rapporti diretti con le aziende. Come ab-biamo visto, infatti, l’informalità delle relazioni di lavo-ro li poneva in una condizione di lavoro comunitario,non afferente agli standard normativi europei. Oltre aquesto vi è la rottura, seppur incompleta, con la condi-zione di limbo poiché i progetti migratori dei lavoratorisono molto differenti fra loro e la dipendenza con i pae-si d’origine in molti casi è fortissima.

L’esperienza dello sciopero della Masseria Boncuri aNardò ha riproposto un vecchio problema: il rapportofra lavoro dipendente in agricoltura e piccola impresaagricola. Nell’esprimere solidarietà, molti addetti ai la-vori e una parte dell’opinione pubblica si sono chiesti ehanno posto la questione della sostenibilità economicadel sistema produttivo agricolo. In molti hanno utiliz-zato il tema della crisi come sfondo giustificativo dellecondizioni materiali e salariali dei lavoratori agricolistranieri. A riguardare un po’ di letteratura sul tema faspecie ritrovare diverse analogie con le discussioni del-la sinistra italiana del primo dopoguerra. In particolarele somiglianze riguardano la differente condizione trapiccoli proprietari e braccianti27 e lo scontro fra essi. Og-gi, come allora, il mantenimento nella condizione di ri-catto dei braccianti è uno dei terreni che ha prodotto laprecarizzazione e lo sfruttamento del lavoro nero. Perquanto riguarda i lavoratori migranti stranieri in agri-coltura il loro mancato riconoscimento in quanto sala-riati, e quindi come categoria sottoposta a tutele, e il lo-ro inserimento nella logica del lavoro «accessorio», ha

avuto come effetto che i sindacati e gli enti di difesa deilavoratori avessero come referenti quasi esclusivi i pic-coli proprietari terrieri. Questo, in particolare nell’Italiameridionale, nonostante una tendenza generale di ri-torno al latifondo in nuove forme, si è prodotto anchegrazie alla estrema parcellizzazione delle proprietà. Daquesto punto di vista l’esperienza di Nardò segna unpunto importante: dopo tanti anni un gruppo di brac-cianti, ancorché stranieri, rende visibile a tutti che ibraccianti esistono ancora.

7. Uno sciopero, molti scioperi

Il più lungo e importante sciopero di braccianti stra-nieri in Italia nasce dentro un contesto in cui il capora-lato è radicato da circa trenta anni. Numerose sono sta-te le letture dell’evento: quello vissuto e partecipato dailavoratori; quello visto dai sindacati; quello interpretatodalla popolazione locale; quello rappresentato dai me-dia e infine lo sciopero visto dall’interno delle associa-zioni che sostenevano i lavoratori. Queste interpreta-zioni in molti casi non corrispondono l’una con l’altra.

Sulla base della nostra esperienza diretta con i lavo-ratori fin dal primissimo blocco stradale, abbiamo deci-so che lo sciopero sarebbe stato quello dei lavoratori,non il nostro. In questo senso abbiamo accompagnato ilavoratori nelle loro istanze, anche quando alle tre delmattino decidevano di presidiare gli ingressi alla Mas-seria Boncuri di Nardò per evitare che i caporali vi fa-cessero ingresso. È lì che abbiamo capito che ogni cate-goria indotta, oltre ad essere una forma di strumentaliz-zazione, sarebbe stata inefficace ed avrebbe risucchiatol’importanza di una vicenda di questa portata. Per que-

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sto non abbiamo voluto «spingere» gli scioperanti ver-so questa o quella scelta. Chi lo ha fatto oggi risente del-le conseguenze di dover fornire delle risposte che non èin grado di dare.

Le altre interpretazioni, per quanto costruite anchein buona fede, non hanno consentito di comprendere lacomplessità di una situazione che ancora oggi non haterminato di dispiegare i suoi effetti. Nel caso dei media,ad esempio, che pure generalmente hanno reso un granservizio facendo emergere la questione, essi hanno ri-cercato i leader ed hanno provato ad inseguire la logicadello scoop, dimenticando le dinamiche dello sciopero enon cogliendo le forze determinanti che lo hanno soste-nuto. Molte delle narrazioni costruite, infatti, non corri-spondono alla realtà, e hanno intaccato quel processo diprotagonismo messo in atto dai lavoratori migranti.

Nelle contraddizioni prodotte dallo sciopero vi è an-che il fatto che alcuni dei protagonisti sono rimasti isola-ti dal mondo agricolo che, in ultima analisi, è l’unico cheriesce a fornirgli un reddito; essi in assenza di vere tute-le e sostegno vivono oggi in una condizione di paura e di-sagio. Lo sciopero visto e analizzato dai soggetti esternial campo ha comunque rappresentato l’apertura di unampio spazio di dibattito e la possibilità di conoscere unmondo parallelo del tutto sconosciuto alla pubblica opi-nione. Oggi, per noi, l’obiettivo è di costruire un’ampiarete di intervento in questo settore che possa rafforzareciò da cui siamo partiti quando abbiamo pensato di rea-lizzare l’esperienza di Boncuri: la lotta all’isolamento so-ciale e fisico dei lavoratori migranti e l’attivazione di pra-tiche che abbiano come effetto che ognuno dei soggetticoinvolti faccia al meglio quanto che gli spetta per ruoloe competenze. Fino ad oggi questo non è avvenuto.

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Questo capitolo è frutto della scrittura collettiva di di-versi volontari che hanno partecipato alla gestione delcampo di Nardò. Alcuni facevano già parte delle Bsa, al-tri hanno voluto contribuire al progetto pur provenendoda esperienze e realtà differenti. L’apparente collage diimpressioni e stili narrativi diversi nasce dalla volontàdi rendere la complessità dell’intervento attraverso l’ete-rogeneità dei punti di vista che l’hanno attraversato.

1. Zona industriale, provinciale per Lecce. Arrivareal campo, oltrepassare un confine

Uliveti, terra rossa, capannoni e benzinai; campi diangurie e pomodori, biciclette sbilenche sul ciglio dellastrada, un vento che sa di Africa. Masseria Boncuri, ten-de blu nel piazzale di fronte, su uno striscione di cinquemetri la scritta:«Ingaggiami contro il lavoro nero». Afri-cani di ogni nazionalità popolano il campo di accoglien-za per braccianti, chi cammina lungo la strada portandoun’anguria, chi riempie una bottiglia dalla cisterna del-l’acqua potabile, chi trascina un materasso cercando

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Masseria Boncuri: sciopero e contraddizioni

Brigate di solidarietà attiva(a cura di Maria Desiderio e Nives Sacchi)

l’ombra degli alberi. Un impatto surreale, la sensazionedi varcare i confini di un microcosmo, un piccolo para-digma di marginalità e compromesso, di essere cata-pultati dentro una realtà parallela – a pochi chilometridalle più belle spiagge pugliesi gremite di turisti – fattadi pantaloni sporchi di terra, mani rovinate dal lavoro,sguardi di attesa.

Braccianti stranieri, tunisini, marocchini, sudanesi,costretti a vivere in condizioni di estrema emarginazio-ne sociale, sottoposti a un capillare sfruttamento sedi-mentato da ormai vent’anni. La maggior parte di loroconosce questo posto grazie al passaparola tra amici eparenti: «a Nardò c’è lavoro». Ma non tutti sanno davve-ro cosa li aspetta una volta arrivati. Scoprono in frettache prima di lavorare dovranno aspettare a lungo, cono-scere i capisquadra, attendere l’arrivo dei furgoncini deicaporali. Scoprono che dovranno essere loro a pagare icaporali, per essere portati dalla Masseria nei campi eper mangiare, per bere. Scoprono che non ci sono postiletto per tutti dentro quelle tende blu, che dovranno farela doccia con l’acqua fredda e che per mangiare, la sera,dovranno indebitarsi con i connazionali che gestisconole cucine.

Vivere, vedere con i propri occhi giorno dopo giornocosa voglia dire essere un bracciante straniero in Italiacrea fratture interne, mette in crisi il senso comune, ob-bliga a riscrivere l’equilibrio di ogni singolo «volonta-rio» che si divide tra turni di gestione del campo edemergenze. La violenza delle condizioni di vita dei mi-granti e l’essere lì, immersi in una comunità così lonta-na, tra polvere, tende, giacigli di fortuna, imprevisti,

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troppo spesso disperata rassegnazione per un destinoche semplicemente si accetta perché non si ha scelta, favacillare il senso di giustizia.

I militanti che si alternano di settimana in settimanaarrivano al campo e si trovano in una condizione di im-mersione, ventiquattro ore su ventiquattro, dentro unfenomeno complesso, difficile da vivere e ancora piùdifficile da raccontare, da portare fuori dalla Masseria,da testimoniare nelle proprie realtà di appartenenza.Vivere Nardò vuol dire sospendere la propria concezio-ne di tempo, vuol dire adattarsi ad un tempo altro, fattodi lunghe attese alternate ad ore frenetiche e piene diimprevisti. Ma Nardò non rappresenta solo Nardò, siconfigura come paradigma e specchio di un sistema piùampio sia dal punto di vista della produzione e distribu-zione delocalizzata dell’agricoltura italiana, sia rispettoallo sfruttamento e alla precarietà del lavoro nel conte-sto generale della crisi economica globale.

Si arriva e si parte cambiati. Si arriva con il propriobagaglio di esperienze, di libri letti, con la personaleconcezione di militanza e volontariato. Si riparte con ilcaos dentro, ma con la consapevolezza che la logica del-la militanza «ordinaria» è stata stravolta e messa in di-scussione. Si arriva con un’idea vaga di quello che sarà esi riparte sapendo che quelli vissuti non sono stati gior-ni di volontariato ma di pratiche politiche, i cui risultativisibili non saranno immediati. Nel mezzo, si lavoranella speranza di poter fare la differenza, sapendo dicontribuire individualmente ad un progetto collettivocomplesso, articolato, sperimentale e difficile.

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2. Scardinare l’antirazzismo etico: accoglienzaper lavoratori stagionali

L’impatto con la dimensione della miseria e dello sfruttamento è

forte, negli occhi di questi uomini la sofferenza è come sospesa

in una condizione asfittica, l’impressione è quella di uno scatto

che rimane immobile tra domanda di dignità e cronicità della

condizione. Il sud Italia è la trincea, è il punto più esposto ai bom-

bardamenti della crisi di una vasta zona euro-mediterranea. Le

macerie prodotte dall’aggressione neoliberista degli ultimi venti

anni qui sono più visibili perché le fondamenta dello stato socia-

le, dei servizi e della cultura e pratica diffusa dei diritti sono sem-

pre state più fragili. Lo spettro ampio che descrive la cosiddetta

zona grigia che sta tra lavoro atipico, parasubordinato e lavoro

nero qui assume le sembianze mostruose della schiavitù più fe-

roce, non è esagerato affermare che la condizione di un braccian-

te pugliese coevo di Giuseppe Di Vittorio fosse nettamente mi-

gliore della condizione dei braccianti migranti. Sono sceso a Nar-

dò con la convinzione di poter costruire un pezzo di società

migliore a partire da azioni pratiche, credo che l’alternativa ad

una società malata non possano essere solo declinate, ma vadano

agite nel quotidiano.

(Oscar Monaco, Bsa Perugia)

L’idea di un campo di accoglienza per lavoratori sta-gionali stranieri, in cui portare avanti il tentativo scivo-loso di emersione del lavoro nero, trova la sua originenell’approcciarsi al tema della migrazione partendo dallavoro. Il lavoro diventa il nodo nevralgico, teorico e pra-tico di un mondo sommerso, con le sue leggi non scrit-te sociali ed economiche, che costringe a rimettere indiscussione i propri punti fermi, le proprie convinzio-ni. A partire dall’interpretazione della legge Bossi-Fini

come una normativa organica sul lavoro – che di fattoistituisce il reato di disoccupazione – e non tanto unalegge sulle politiche migratorie, la costruzione di un in-tervento pratico che coniughi accoglienza degna edemersione del lavoro nero porta ad inserirsi alla basedelle contraddizioni del fenomeno stesso, superando laconcezione dei migranti come categoria di per sé biso-gnosa di assistenza. Proprio a causa dell’istituzionaliz-zazione del legame tra permesso di soggiorno e contrat-to di lavoro, pensare un intervento pratico concreto sultema dell’immigrazione costringe a ragionare sul pianodel lavoro prima che su quello del diritto di cittadinan-za. Così facendo l’intervento alla Masseria Boncuri si le-ga alle lotte degli operai in cassa integrazione, aspetti di-versi di uno stesso contesto generale di sfruttamento edemarginazione sociale dentro cui attivare pratiche diautorganizzazione dal basso.

Nardò, Gennaio 2010. Ha inizio una sfida durissima: accettia-

mo come Bsa la collaborazione con Finis Terrae, ha inizio la

campagna «Ingaggiami contro il lavoro nero». Nessuno di noi

ha avuto mai il dubbio di tirarsi indietro. Tante preoccupazioni,

molta consapevolezza di aver dato inizio ad un progetto più

grande di noi, ma sulla paura di non essere all’altezza ha vinto

l’incoscienza dell’entusiasmo di chi non ha voglia di arrendersi,

di chi ci crede veramente. Nessuno di noi poteva immaginare

cosa si sarebbe riusciti a fare; si ipotizzavano collaborazioni, si

contavano mezzi, competenze e disponibilità; si ascoltavano i

racconti dei compagni del luogo, si supponevano ostacoli; si

parlava dei rischi che avremmo corso, di sfruttamento e di gran-

de distribuzione, di lavoro nero e di diritti, di Libertà e di bagni

da costruire, materiali da reperire e di una coscienza di classe da

far emergere, fianco a fianco… Ogni giorno abbiamo costruito

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un pezzetto di questo progetto, ogni giorno abbiamo fatto un

passo avanti per l’unica lotta possibile contro il lavoro nero e lo

sfruttamento nel nostro Paese.

(Maddalena Benanchi, Bsa Toscana)

In netta contrapposizione non solo organizzativama anche strutturale con le tradizionali forme di acco-glienza più o meno istituzionali, prima di tutto quellodella Masseria Boncuri è un «campo aperto». Altrestrutture, che prevedono una netta delimitazione deglispazi interni ed esterni, funzionale alla regolamenta-zione degli accessi, stabiliscono in questo modo un cri-terio di demarcazione tra aventi e non aventi diritto e sicostituiscono come servizio specifico rivolto ad un seg-mento isolato di potenziali utenti. Così facendo si pre-determinano categorie, alimentando la disgregazionedel fenomeno migratorio in fasce o aree che risultanomeglio gestibili e controllabili ma che restano scollatetra loro entro un quadro complessivo frammentato eschizofrenico. Intorno ai confini non delineati dellaMasseria Boncuri il cielo non è tagliato a metà dal filospinato, non ci sono stanzoni adibiti a mensa in cui ven-gono somministrati pasti preconfezionati e asettici,nessuno controlla le entrate e le uscite, al campo entra-no ed escono persone libere. Questo crea contraddizio-ni, confusione, aggregazione, autorganizzazione.

Le cucine autogestite dai migranti dietro la masseriasono in parte il modo per ricreare comunità, un luogodove la propria cultura di appartenenza trova spazio, siinserisce nella condizione caleidoscopica della commi-stione culturale e allo stesso tempo sono il simbolo dicosa voglia dire agire sul fenomeno dall’interno del fe-nomeno stesso. All’autogestione delle cucine è legata le

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ricerca delle giornate di lavoro, i caporali le controllano,quasi mai direttamente, per farlo si servono degli «affa-risti del cibo», uno dei tanti tasselli che si aggiunge alcapillare meccanismo attraverso il quale il sistema delcaporalato agisce. Le cucine sono anche scenario di di-namiche sociali, legate alle diverse culture, sono il filosottile di equilibri tra gruppi di migranti, divisi spessoper nazionalità o religione. Sono anche punti di contat-to con l’esterno, sono i luoghi di ritrovo dove oltre al ci-bo si condividono informazioni (seguitissimi erano i te-legiornali in lingua araba).

Il legame tra cibo-lavoro-sfruttamento è lì, in eviden-te contraddizione con lo striscione che troneggia all’in-gresso di Boncuri «Ingaggiami contro il lavoro nero».Eppure questa contraddizione ci permetteva di capire di-namiche che altrimenti sarebbero rimaste incomprensi-bili, comprendere l’ampiezza e l’articolazione del feno-meno ha significato assumere il concetto stesso di con-traddizione. La scelta di non recintare lo spaziocircostante la masseria e di non effettuare controlli all’in-gresso nasce anche per includere il più possibile le dina-miche sulle quali cercavamo di intervenire, oltre che daltentativo di evitare di definire criteri di privilegio per l’u-sufrutto dei servizi presenti, che rimangono così a dispo-sizione di tutti, ma anche dall’esigenza di predisporrespazi congeniali all’autorganizzazione e all’autogestionedel campo, limitando il più possibile meccanismi di con-trollo e regolamentazione passivizzanti e impositivi.

La volontà di essere altro da un campo comunemen-te inteso, ha inevitabilmente comportato l’assunzionedi contraddizioni interne e difficoltà di gestione, dovuteanzitutto all’eterogeneità culturale, religiosa e socialedel gruppo di braccianti presenti. Spesso le tende veni-

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vano occupate da squadre già consolidate di sei lavora-tori della stessa nazionalità; molte altre invece, sovraf-follate, erano occupate da gruppi misti improvvisati emeno organizzati. Nonostante l’accoglienza fosse rivol-ta ai lavoratori, al campo stazionavano anche migrantidisoccupati – quest’anno più dell’anno scorso, effettodiretto della crisi economica. Così, tra i braccianti vi era-no stagionali con esperienza, lavoratori di altri settoriche si reinventavano operai agricoli, richiedenti asilo,tunisini col permesso umanitario provenienti dal vici-no campo di Manduria. Quale commistione di aspetta-tive, obiettivi e condizioni si creava dentro un mosaicodel genere? Accadeva che il bracciante abituato ad altricontesti nel sud Italia fosse sorpreso e grato dei servizi,seppur limitati, di cui poteva usufruire a Boncuri, men-tre chi si approcciava per la prima volta ad una situazio-ne del genere, incredulo e ferito dalle condizioni in cuisi trovava a vivere e lavorare, trovasse in noi la contro-parte di sfogo a cui rivolgere la propria rabbia e indigna-zione. Oppure, accadeva che chi era arrivato da poco inItalia, la mente ancora intrisa di immagini paradisiachedel fantomatico benessere occidentale, si aggirasse dis-orientato nel campo senza trovarvi senso. Altri, prove-nienti dalle fabbriche in crisi del nord, venuti al campoconvinti di trovare lavoro, riuscivano a dar forma allapropria frustrazione confrontandosi con noi su contrat-ti e disoccupazione, con una consapevolezza più lucidache assumerà un ruolo significativo e fondamentale du-rante lo sciopero. Infine differenze occupazionali im-portanti si registravano in base alla nazionalità di prove-nienza: da un lato i braccianti tunisini e nordafricanimaggiormente impiegati nella raccolta delle angurie(attività più redditizia ma in grave crisi e con poche ri-

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chieste), dall’altro lato braccianti sub-sahariani in attesadella raccolta dei pomodori, che offriva più posti di lavo-ro ma anche maggior sfruttamento e salari più bassi.

Scendendo a Nardò già dal pullman vedevo campi di pomodori

con in mezzo i braccianti e dall’altra parte della strada distese di

pannelli solari. Quando al campo poi ho saputo che quelle stesse

braccia che sollevavano i cassoni dei pomodori avevano piantato

i pannelli, quell’immagine iniziale mi è sembrata la sintesi per-

fetta del sistema Vendola, di quel green capitalism che dà una

mano di bianco allo sfruttamento mediante forme retoriche vuo-

te. (…) Il punto di forza del progetto è stato l’essere fisicamente al

centro della mobilitazione; la creazione del campo ha creato

quella possibilità di ricomposizione e di unificazione di cui si

sente la mancanza in tanti altri posti (dalle fabbriche, alle scuole,

etc.) e che ha portato allo sciopero.

(Claudio Ceruti, centro sociale Pacì Paciana Bergamo)

Dentro la complessità di un contesto del genere, lepratiche diventano il modo di costruire un linguaggiopolitico nuovo e in perenne evoluzione, che si scontracon un quotidiano totalizzante. Quasi non si trova iltempo per l’empatia, per le conflittuali emozioni che at-traversano un luogo che è anche un non luogo, in cuiconvergono esperienze eterogenee. Si investe di re-sponsabilità il concetto stesso di solidarietà, attiva, poi-ché volta ad attivare processi di autocoscienza ed eman-cipazione. Così a Boncuri non ci si limita a fornire ser-vizi ma ci si occupa di diritti, si fa politica a partire dallamaterialità dei bisogni fondamentali delle fasce più de-boli, a partire dall’esserci fisicamente, sul campo, den-tro un’emergenza che negli anni ha assunto un caratte-re ordinario, quasi «normale», in cui invece si vuole av-

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viare un processo di trasformazione radicale. Se è lacondizione che fa l’uomo, allora per quanto difficilequella condizione deve essere esteriorizzata, resa co-sciente e spogliata dal buonismo caritatevole di chicompatisce e supplisce senza comprendere quantoquesto possa essere dannoso.

Ho sempre osservato i vari progetti che normalmente vengono

fatti nei vari territori da altre realtà partecipandone attivamente,

ma mi sono sempre reso conto che oltre all’assistenzialismo so-

ciale non si è mai andati. Preferirei chiamare «costruzione reale

di cambiamento tra pari» le attività delle Bsa dal momento che il

nostro punto di forza è il voler cambiare le cose in maniera intel-

ligente e partecipata, questo spiega perché negli interventi che

fanno le Bsa la partecipazione esterna di altre realtà di movimen-

to è massiccia. Proporzioniamo le problematiche dello sfrutta-

mento sul lavoro e del declassamento dei diritti a noi stessi in

maniera da comprendere ed esprimere le risoluzioni politiche in

condizioni di partecipazione auto-organizzata.

(Giuseppe Grimolizzi, Bsa Abruzzo)

Siamo scesi al campo con le nostre forze, mettendoinsieme i frutti di pratiche di autofinanziamento e rac-colte di materiali attivate a Nardò e nei territori dellesingole BSA, strumenti di un’autorganizzazione che èprima di tutto interna alla struttura stessa delle BSA eche si rifletteva di conseguenza nella gestione logisticadel campo. I mezzi a disposizione sono tuttavia limitatirispetto alla drammatica complessità del contesto in cuici siamo trovati ad operare, a partire dalla disponibilitàdi posti letto di gran lunga insufficiente rispetto alla ri-chiesta, che rende difficoltoso affrontare la situazionedi sovraffollamento del campo.

110

Un giorno ero di turno all’ufficio accoglienza ed entra un ragazzo

africano. «Mi hanno detto che qui assicurate una branda e un po-

sto in tenda se vi consegno una copia del mio permesso e della let-

tera d’ingaggio, è vero?» chiede il giovane africano. «È vero, ma

purtroppo per il momento siamo al completo, abbiamo più perso-

ne di quelle che potrebbe ospitare il campo», gli rispondo con un

sorriso amaro. «Ci hanno promesso altre tende, se vuoi aspettare

qualche giorno magari qualcosa si potrà fare, che ne dici?» ag-

giungo. «Siete poco preparati» afferma il giovane, «se lo avessi sa-

puto prima di venire, mi sarei organizzato diversamente» mi dice

uscendo dal piccolo ufficio portando con sé i propri documenti.

Sono rimasto di sasso, ma la cosa mi ha fatto riflettere non poco.

Tanto per cominciare, il campo c’è e i braccianti sanno dove anda-

re per chiedere aiuto. Il posto in tenda per 280 persone era garan-

tito, le docce, i servizi igienici, l’ambulatorio, l’acqua potabile, la

scuola di italiano e persino la moschea servivano concretamente

tutti i 500 presenti. Per non parlare dei vari aiuti, trasporti agli

ospedali, consulenze di tipo legale, amministrativo, sociale e

quando serve traduzioni e mediazioni culturali. Insomma, rispet-

to al nulla degli anni passati qualcosa si è mosso e si sta muoven-

do nella giusta direzione. Allora perché quel giovane non apprez-

zava lo sforzo di tanti volontari che lavorano per dare un minimo

di sollievo a lui e ai suoi compagni? Potrebbe essere che siamo tut-

ti abituati a vedere subito le cose negative e quindi pretendere la

perfezione sempre dagli altri? O forse perché c’erano cose che si

potevano fare diversamente perché il campo funzionasse meglio?

Non credo di poter dare una risposta, forse è un po’ tutte e due le

ipotesi. Questo episodio mi ha insegnato che tutto dipende da

quale punto si guardano le cose. Basta mettersi nei panni degli al-

tri per vederle da altre prospettive. Nulla è scontato.

(Alaa Nasser, Bsa Pavia)

Un progetto di emancipazione e autorganizzazione

111

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dei braccianti dal nostro punto di vista si pone l’obietti-vo a lungo termine di rendersi in futuro non più neces-sari. Partendo dal presupposto che la questione dell’ac-coglienza perderebbe di rilevanza se il salario previstodal contratto provinciale fosse adeguatamente corrispo-sto, a fronte dell’inottemperanza da parte delle aziendee del conseguente disagio sociale fortissimo, il coinvol-gimento delle istituzioni locali consentiva di uscire an-cora una volta dalla logica dell’ente di assistenza privatoche non incide sul problema in un’ottica trasformativa.L’ambulatorio medico rappresenta un esempio concre-to in questo senso: da un lato un servizio pubblico che siadegua alla specificità della richiesta territoriale con l’i-stallazione di un presidio dell’Asl direttamente dentrola Masseria; dall’altro lato le nostre attività di accompa-gnamento in ospedale e avvio delle pratiche per librettie tessere sanitarie, che facilitano l’accesso al servizio sa-nitario nazionale garantito per legge. I mezzi disponibi-li di Comune, Provincia e Regione, pur rappresentandoun importante punto di partenza, si sono rivelati limita-ti (mancanza di acqua calda nelle docce, disponibilità ri-dotta di posti letto, difficoltà di accesso allo stesso am-bulatorio medico per via di lunghissime liste d’attesa).Conseguenti tensioni interne al campo andavano a fo-mentare una guerra tra poveri già fortemente in attorendendo il nostro intervento complesso e faticoso.

Ho pensato da subito che bisognava essere il più umile possibile

realizzando costantemente attimo per attimo quello che succe-

deva, per poi proporre delle risposte-risoluzioni responsabili,

utilizzando tutto il bagaglio appreso negli anni di attivismo so-

ciale e politico.

(Giuseppe Grimolizzi, Bsa Abruzzo)

Agire sul fenomeno partendo dal fenomeno, nel ca-so della Masseria Boncuri comporta immergere le pro-prie pratiche in un contesto materiale specifico, signifi-ca mettere a disposizione la militanza di ogni singoloindividuo che pur mantenendo la propria individualitàsi scioglie in un agire collettivo. Un agire condiviso chepartendo dalla stessa chiave di lettura, costruisce unpercorso politico e allo stesso tempo lo decostruisce,per costruirlo di nuovo, giorno dopo giorno, mettendocostantemente in relazione i principi ispiratori alla basedell’essere presenti sul campo e nel campo, con la mu-tevole e sfaccettata contingenza del reale. Cercare di ap-plicare categorie politiche pure in un contesto così pro-fondamente sporcato di materialità, porterebbe ad uninevitabile scollamento dalla realtà stessa che si cerca dicambiare. Il tentativo di sperimentare un linguaggionuovo porta a vivere contraddizioni interne; il contesto,lo sfondo socio-economico in cui ci si trova ad operare,incide a volte determinando le modalità di azione nellagestione dei fenomeni. Calarsi in questa materialitàpiena di sfumature, a volte così difficili da cogliere, ridàsenso alla politica. La decostruzione e la ricostruzionecostante del quotidiano diventa così duplice: interna achi si mette in discussione in prima persona e lo faagendo da singolo in una collettività alla quale il suo agi-re appartiene; esterna verso le comunità con cui ci si re-laziona, i braccianti che a loro volta rispondono alle pro-prie comunità di appartenenza.

La mia prima impressione quando sono arrivato al campo è stata

che regnasse la completa disorganizzazione. Un impatto iniziale

che poi ho messo in parte in discussione, quando ho capito co-

m’era la realtà, ho capito che c’era un livello di imprevedibilità

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quotidiana che rendeva difficile l’organizzazione. Era una disor-

ganizzazione connaturata al tipo di realtà. L’altro aspetto che mi

ha colpito era la dimensione fortemente umana: per chi non si

occupa costantemente di immigrazione c’è l’impatto di avere a

che fare con la vita delle persone nei loro aspetti più crudi e mate-

riali, cosa che solitamente non hai. In ultimo la situazione forte-

mente contraddittoria nell’accezione più pura della parola: la

condizione sociale drammatica determinava esplosioni di irra-

zionalità, rabbia e sopraffazione fortissima, così come a volte si

verificavano episodi di forte umanità, solidarietà, intelligenza.

Alternanze che rappresentavano due estremi.

(Francesco Purpura, centro sociale Z.A.M. Milano)

Singole isole fatte di persone che convivono, condi-videndo gli stessi spazi, le stesse condizioni di sfrutta-mento e di indigenza, creano inevitabilmente una co-munità più allargata, una «società» in scala ridotta. So-cietà fantasma, messa fuori, esclusa ed emarginatadall’ordinaria società civile poiché considerata menoavente diritto. L’equilibrio precario nel mantenere pacesociale e conflitto sociale è la cornice delle pratiche svi-luppate alla Masseria Boncuri. L’essere considerati stra-nieri dagli stranieri in una dualità complessa di senti-menti e rivendicazioni, la diffidenza che il tuo esserecittadino italiano, occidentale e di conseguenza privile-giato, suscita in chi vive costantemente in una condizio-ne di emarginazione ed esclusione, è forse la contraddi-zione più profonda e totalizzante che si vive e al tempostesso è la difficoltà che maggiormente stimola l’azione,la propulsione volta al cambiamento.

Essere di nuovo presente al Campo dopo aver conosciuto le di-

namiche di una degna accoglienza e aver lavorato per la costru-

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zione di uno stato di consapevolezza dei braccianti ha significa-

to per me una forte spinta motivazionale… rara in questo mo-

mento sociale e storico; l’unica in grado di stimolare un lavoro di

aggregazione tra compagni e lavoratori sfruttati. Nessuno dei

volontari della Brigata ha una vita senza precarietà, senza il pro-

blema di fare i conti alla fine del mese. Se centinaia di volontari

decidono di spendere il loro tempo al fianco di migranti sfrutta-

ti, mal pagati, e in fine lasciati senza la possibilità di lavarsi e dis-

setarsi, è perché credono non solo nella sbandierata Solidarietà,

ma piuttosto in una lotta di classe che deve tornare a ripartire dal

basso, dagli ultimi della scala sociale del nostro Paese. La pre-

senza di tanti volontari mossi dalle stesse motivazioni di eman-

cipazione dei migranti lavoratori, significa creare una rete di

unione e di scambio nelle lotte tra pari. La dimostrazione che in

un Paese fortemente in difficoltà si riesca comunque a creare

momenti di forte mobilitazione come alla Masseria, è una delle

azioni cardini che consente di pensare e di credere che la crisi si

può combattere anche così. Forse, solo così.

(Anna Maria Sambuci, Bsa Tuscia)

3. La crisi delle angurie, il tempo dell’attesa

La stagione si è aperta con la crisi delle angurie lacui raccolta è quella che maggiormente occupa gli sta-gionali nel territorio di Nardò, oltre a quella dei pomo-dori che inizia a luglio. Le aziende hanno protestato agran voce chiedendo fondi all’Unione europea: la con-correnza di Spagna e Grecia, unita ad una ipoteticapaura del batterio killer, ha messo quest’anno fuorigioco le aziende italiane assoggettate ai prezzi delmercato internazionale. Quanto la crisi fosse reale oalmeno in parte costruita è sicuramente un piano d’a-nalisi scivoloso, sta di fatto che le angurie per la gran

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parte sono rimaste a marcire nei campi, sta di fatto chela maggior parte dei lavoratori migranti tunisini pre-senti alla masseria Boncuri sono rimasti disoccupati.Si è parlato poco di loro, tuttavia, ponendo invece l’ac-cento sulle difficoltà dei produttori e sulla crisi econo-mica, al punto di arrivare ad un’interrogazione parla-mentare – la prima – per «scongiurare una ulteriorepenalizzazione del comparto agricolo salentino e Pu-gliese». Quei duemila ettari di angurie che rischiava-no di esser lasciate a marcire nei campi, dal nostropunto di vista equivalevano prima di tutto a cinquanta-mila giornate lavorative perdute, ossia a centinaia dibraccianti che sarebbero rimasti senza lavoro e ad im-portanti ripercussioni sia sul versante del disagio so-ciale sia rispetto all’incremento della ricattabilità e del-lo sfruttamento del lavoro nero.

La disoccupazione ha infatti causato una serie diproblematiche che si sono intersecate tra di loro. In pri-mo luogo la crisi ha alimentato fortemente il fenomenodel caporalato rendendolo più feroce: soprattutto in unprimo momento, i braccianti trovavano molta più diffi-coltà a chiedere i contratti rispetto all’anno precedente;inoltre la diminuita richiesta di impiego, a fronte di unaeguale se non maggiore disponibilità di forza lavoro, haprodotto un ulteriore abbassamento dei salari e unasempre minore tutela dei diritti dei lavoratori, con unincremento di utilizzo di lavoro sommerso. Allo stessotempo un quadro del genere ha reso più complesso il la-voro di emersione che ci eravamo proposti all’internodella «Campagna Ingaggiami»: lanciare una campagnasimile in un momento in cui l’attenzione pubblica èconcentrata sulla crisi sarebbe risultato quantomenoanacronistico se non inutile dal punto di vista della sen-

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sibilizzazione sui diritti dei lavoratori, data la condizio-ne di disoccupazione maggiormente diffusa.

Data la crisi e la conseguente assenza di lavoro mi sono molto

preoccupato; c’era agitazione, serpeggiava malcontento, molta

gente stazionava senza prospettiva nel campo… Il tutto lasciava

presagire una difficile gestione rispetto allo scorso anno.

(Gennaro Loffredo Bsa Lazio)

Questa crisi locale andava poi ad aggiungere peso aquella nazionale, già evidente anche Nardò: molti deilavoratori presenti alla masseria venivano dalle fabbri-che del nord, anch’esse in crisi, rendendo così maggior-mente eterogenea la composizione sociale dei braccian-ti e implementando la domanda di impiego dentro unagenerale diminuzione di offerta.

A Boncuri, quest’anno in particolare, il tempo sembra dilatarsi in

una gigantesca bolla di difficoltà di convivenza e infinita attesa,

sopravvivenza e attesa, fame e attesa, raramente lavoro, ma poco

e per pochi. Le angurie marciscono nei campi e i migranti non

hanno soldi né per mangiare né per andarsene altrove. Le strut-

ture e i servizi del campo sono fortemente inadeguati rispetto al-

le necessità e ai numeri, ma il Comune non ha soldi, la Provincia

non ha altre tende da mettere a disposizione. I caporali hanno

iniziato a fare ingaggi falsi: con quello di un bracciante regolare

ne fanno lavorare altri dieci irregolari, a 3,50 euro l’ora, ma nei

campi non ci sono controlli. Ci sentiamo isolati, impotenti, ri-

succhiati dentro il vortice di imprevisti quotidiani, dalla rissa

sanguinolenta per il furto di una bicicletta ai passaggi rocambo-

leschi per riuscire a prenotare una Tac dopo un infortunio sul la-

voro. I problemi organizzativi, i soldi che non bastano mai, la

tensione tra i migranti, il difficile dialogo con le istituzioni, ogni

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giorno ci sentiamo in bilico tra l’idea di un progetto dirompente e

innovativo e le continue complicazioni che ne minano le possibi-

lità di realizzazione.

(appunti dal campo)

Le barriere linguistiche, la sproporzione di numeritra militanti e braccianti, le incombenze pratiche e il po-co tempo disponibile hanno reso complicata la possibi-lità di comunicazione al campo e di aprire spazi di con-divisione e confronto per riuscire a dare un senso politi-co ad una pratica assistenziale. Le assemblee plenariedavano spazio quasi esclusivamente a discussioni ri-guardo le carenze dei servizi e le condizioni disagiate divita, poco per ragionamenti più ampi sul senso politicodel nostro stare lì, sugli obiettivi dell’intervento e sulleprospettive del campo. Spazi di condivisione in questosenso si sono creati a livelli più intimi durante le lezionia scuola o in piccoli gruppi, durante il giro serale delletende, mentre distribuivamo i volantini o le bottigliedell’acqua, durante la pulizia del campo. Se da un latodunque, proprio attraverso le pratiche di gestione quoti-diana del campo riuscivamo a intessere relazioni con ibraccianti, dall’altro capitava spesso di incontrare diffi-denza da parte loro. Come spiegare ad un campo di 400braccianti immigrati che la nostra accoglienza vuole es-sere funzionale all’aggregazione e alla presa di coscien-za da parte loro in quanto categoria lavorativa avente deidiritti? Come fargli capire perché fossimo lì, senza esse-re pagati, senza perseguire scopi o interessi altri? Comecomunicare l’importanza dell’autogestione degli spazidi tutti, la presa in carico degli stessi come assunzionedi responsabilità collettiva, dentro un quadro comples-sivo di «guerra tra poveri» e difficoltà relazionali? Come

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elevare l’intervento sull’accoglienza a ragionamento po-litico sul lavoro, parlando di diritti e di ricatto, dentro untessuto di disgregazione sociale, emarginazione, indi-genza e disagio portati allo stremo? Tutto questo, nellasua estrema complessità, è ciò che significa per noi sta-re dentro i conflitti assumendone e vivendone le con-traddizioni.

Spingere una comunità eterogenea come quella dei braccianti

stagionali, e non solo, a concepire la sola mera possibilità di otte-

nere rispetto dei propri diritti, come lavoratori, come dipendenti

e in primo luogo come essere umani, si è manifestata già come

una prima difficoltà. Sottolineare, in secondo luogo, che il primo

passo verso una condizione diversa sta nel sapere rispettare il

campo stesso, andare oltre le differenze etniche, i pregiudizi che

per un tendenza umana intercorrono continuamente tra sogget-

ti di culture diverse, soprattutto se impiantate in un territorio

estraneo, in una cultura estraneo anni luce dalla propria. Gestire

Nardò per quanto mi riguarda è riuscire a creare una collabora-

zione, che possa portare ad una autorganizzazione definitiva.

Vuol dire far capire che è l’unione, la coesione di un gruppo che

porta all’adempimento di un obiettivo comune.

(Luca de Cicco, Bsa Tuscia)

Ci saranno stati cinquanta gradi, non un filo di vento, l’aria a Bon-

curi era pesante, gonfia di umidità, ti faceva camminare con la

sensazione di portare una colonna sopra la testa…. Il ventilatore

dentro il piccolo ufficio girava quasi a vuoto, dalle finestre entra-

vano lame di luce chiarissima, quasi da far strizzare gli occhi. Sa-

ranno state le 17.30, cercando di respirare il meno possibile, sor-

seggiando il bollente e speziato the sudanese (che avrebbe dovu-

to evitarci il collasso) compilavamo schede di accoglienza. Il

campo era al limite delle sue possibilità, ci saranno state 400-450

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persone, non avevamo più posti già da giorni, le persone che arri-

vavano in cerca di lavoro, piene di aspettative, si sarebbero scon-

trate con il sovraffollamento del campo, con la crisi delle angurie,

con la sospensione temporale di una comunità in stallo. Alto,

giovane, un paio di jeans e una maglietta a righe bianche e verdi,

occhiali dalla montatura leggera, un borsone a tracolla…in uffi-

cio entra Ysmail, un ragazzo togolese. Ci racconta in un fluido e

melodico francese un po’ della sua storia: è uno studente di

Scienze politiche, ha una moglie e una figlia di tre mesi che an-

cora non ha mai visto, ha lasciato la sua casa, la sua famiglia in

cerca di una possibilità in più…Fin a questo punto, tutto nella

norma: di storie così nel mosaico della Masseria ne avevamo sen-

tite a decine… ha bisogno di lavorare, gli hanno detto che a Nardò

forse c’è lavoro, ci chiede un posto in tenda. «Ci dispiace tanto ma

siamo pieni, non abbiamo più posti». Gli spieghiamo la partico-

larità del campo, il fatto che sia principalmente un campo per la-

voratori ma che i servizi presenti (sportello medico, sportello le-

gale, la scuola di italiano) sono per tutti…. Ysmail ci ascolta in si-

lenzio e alla fine del nostro discorso impacciato, ci regala un

sorriso disarmante e dice: «Ho capito le vostre regole, questo po-

sto funziona come se fosse una famiglia, sono onorato di rispet-

tare le regole di questa famiglia». E poi ci chiede: «ma oltre alla

scuola almeno c’è una biblioteca?».

Una biblioteca? Se ci avesse preso a schiaffi sarebbe stato meglio,

siamo rimaste lì, con la sorpresa negli occhi, ci veniva voglia di

chiedergli «ma cosa ci fai tu in un posto così?». Ysmail rimarrà a

Nardò fino alla fine della stagione, sarà uno dei promotori dei

rappresentanti dello sciopero, in neanche due mesi imparerà l’i-

taliano in modo sorprendente, sarà uno degli allievi più entusia-

sti e ricettivi che metteranno piede nella nostra «aula da campo».

E nonostante le difficoltà che dovrà affrontare, continuerà a sor-

ridere…

(appunti dal campo)

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L’esperienza della scuola è stata tra le più significati-ve all’interno del progetto. A partire dalla conoscenzadella lingua si costruisce la possibilità di ridurre la con-dizione di emarginazione sociale, acquisendo gli stru-menti basilari per poter comunicare, orientarsi, cono-scere il contesto sociale e culturale dentro cui si vive e silavora. Data la discontinuità di frequentazione dovutaal lavoro e al carattere temporaneo del progetto, le lezio-ni sono state organizzate intorno a temi concreti chepotessero avere riscontro diretto nella vita quotidianadegli studenti. Questo ci ha permesso di creare uno spa-zio di ragionamento collettivo sulle condizioni di vita edi lavoro, un terreno utile per il confronto tra le diverseesperienze soggettive dei braccianti che potesse favori-re, attraverso il dialogo e la condivisione dei vissuti per-sonali, la costruzione di un’identità di gruppo.

Imparare parole semplici come i nomi degli ortaggiha significato, oltre che ricostruire i diversi tragitti per-corsi dai braccianti tra una raccolta e l’altra, di territorioin territorio, rendersi conto di quanto scollamento cifosse tra il lavoro fisicamente esercitato, in molti casi daanni, nelle campagne, e la consapevolezza e padronan-za dell’«arte» del lavoro stesso: è capitato che bracciantiprovenienti da esperienze di lavoro a Rosarno non co-noscessero la parola «arancia» nonostante ne avesseroraccolte a quintali o che non conoscessero il significatodi parole come «caporale», «imprenditore», «commer-ciante» nonostante avessero sempre lavorato con capis-quadra connazionali per conto dei proprietari terrieri ovedessero tutti i giorni le angurie che raccoglievano ve-nir caricate sui tir e trasportate altrove. Dare un nomealle cose ha dunque permesso di muovere piccoli passiverso l’autoconsapevolezza di sé in quanto categoria la-

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vorativa e anello di un complesso e articolato sistema diproduzione e distribuzione.

Abbiamo cercato di ricostruire l’attività della scuola nello stesso

modo in cui la svolgiamo durante l’anno sul nostro territorio:

l’obbiettivo è la trasmissione di nozioni base di italiano, a livello

grammaticale e lessicale, prendendo spunto dalla situazione e

dalle condizioni di vita dei braccianti stessi, creando uno spazio

protetto di informazione, socializzazione e presa di coscienza. La

classe si è strutturata sul dialogo e sul confronto coi lavoratori,

creando una comunità condivisa: abbiamo avuto occasione di

parlare ogni sera insieme ai braccianti della crisi delle angurie,

dello sciopero e della legge anti-caporalato… I discorsi che si fa-

cevano di sera in classe, durante il giorno successivo facevano il

giro delle tende, così ogni giorno gli studenti si rinnovavano.

Giorno dopo giorno i volti son diventati nomi, le parole son di-

ventate storie. E si andava al di là dell’orario canonico della scuo-

la per salutarsi e parlare insieme.

In questo modo il nostro ruolo all’interno del campo si è potuto

chiarire attraverso le pratiche: conoscendoci più da vicino è au-

mentata anche la fiducia reciproca in un clima più disteso. Sicu-

ramente parlerò dell’esperienza della Masseria agli studenti della

scuola di italiano del mio territorio, cercando di stabilire un cana-

le di solidarietà tra migranti.

(Marta Ursella, Bsa Bergamo)

4. Lo sciopero autorganizzato dei bracciantimigranti

30 luglio 2011, ore 6:00. Un esercito senza generaliirrompe alla Masseria. Una quarantina di braccianticamminano compatti gridando, gesticolando, bloccanola strada, protestano. È l’inizio del più importante e lun-

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go sciopero auto-organizzato di lavoratori stagionalimigranti in Italia. In principio è il caos, un caos teso emeraviglioso, al centro di tutta quella indignata confu-sione non ci sono le poche brandine o l’acqua fredda,ma lo sfruttamento dei caporali, la rivendicazione diret-ta, la presa di coscienza attiva della propria condizionedi sfruttamento: «Siamo lavoratori e come lavoratori vo-gliamo essere rispettati». Siamo, al plurale: le comunitàdiventano collettività.

Ore 8:00. Assemblea spontanea, assemblea allarga-ta: quei quaranta lavoratori che dal campo erano partitiabbandonando il lavoro, dopo l’ennesimo rifiuto di unaumento salariale da parte dei caporali a fronte di un’ul-teriore lavoro richiesto, si aprono a tutti i migranti pre-senti alla Masseria. Quella che si svolge sotto i nostri oc-chi non è un’assemblea di migranti, quella è un’assem-blea di lavoratori che stanno alzando la testa. Lademocraticità con cui l’assemblea si è costituita coinvol-gendo tutte le nazionalità presenti al campo e le modali-tà con cui da quella prima assemblea sono stati scelti iportavoce dei lavoratori (uno per nazionalità) ha segna-to profondamente l’origine della protesta. Intorno almegafono di Yvan, tra la folla di braccianti in cerchio, iltunisino che ha lavorato pochi giorni con le angurie staa fianco del burkinabé appena tornato dal campo di po-modori. In mano tengono il volantino della Campagna«Ingaggiami», come a confermare che quel moto di ri-bellione a lungo covato e oggi improvvisamente esplosonon si ferma alla pura reazione di pancia ma si costrui-sce intorno a quei diritti che sono lì, scritti nero su bian-co, che gli spettano e che è ora di pretendere. Davanti ainostri occhi increduli partono le prime richieste.

Rispetto del contratto provinciale

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Contratti veri Aumento del pagamento a cottimoEliminazione della figura del caporale Contatto diretto con le aziende Ufficio per l’impiego dentro la masseria Controlli nel campi

Queste le rivendicazioni, esplicitate con lucidità econvinzione. Yvan le scrive su un foglio, intorno un vo-ciare scomposto ma coeso. Lo sciopero è stato il ricono-scersi tra loro dei migranti come lavoratori, è stata unaforte presa di consapevolezza che va ben al di là dei ri-sultati ottenuti e degli errori commessi. La spontaneitàe l’autorganizzazione della protesta è il punto cardineche li muove, i braccianti si riuniscono a gruppetti, siparlano, si confrontano, prendono decisioni insieme.

1 agosto 2011, ore 2.30. I braccianti in sciopero si po-sizionano nei punti della Masseria dove i lavoratori pas-sano per raggiungere i campi o i camioncini dei capora-li. Cercano di allargare lo sciopero, cercano di convince-re gli altri, quelli che alla protesta ancora non hannoaderito, a rimanere in Masseria. Lo fanno in modo ani-mato ma pacifico, si sforzano di esprimere le ragioni, lemotivazioni, le rivendicazioni, si chiamano fratelli, litrattengono per le maniche, li rincorrono per non farlisalire su i furgoncini, per non perderli nel buio dellecampagne… e ci riescono, lo sciopero funziona, prendeforma, si allarga ancora. E così per giorni tutte le matti-ne alla stessa ora sono sempre di più i braccianti chefanno i blocchi.

Quella che si respira è un’aria diversa, più tesa e den-sa di aspettative. Il campo è diverso. La crisi delle angu-rie ha lasciato spazio allo sfruttamento dei pomodori,

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inferocito dalle paghe sempre più basse e dai contrattiche non arrivano mai. La staticità disperata della disoc-cupazione sembra all’improvviso spazzata via dall’ener-gia della ribellione; alla rassegnazione e alla frustrazio-ne di essere bloccati senza lavoro e senza prospettive,fuggiti dalla crisi per trovare un’altra crisi, si sostituisceimprovvisamente la rabbia e gli occhi fermi di chi rico-nosce il proprio sfruttamento e decide di non accettarlopiù. Un obiettivo comune unisce i braccianti del camporestituendo loro un senso comunitario più forte, smor-zando le differenze e creando uno spazio nuovo di con-divisione. Un risultato che ci eravamo prefissati senzatuttavia poterlo direttamente concretizzare: essere soli-dali stimolando l’emancipazione, senza sostituirsi matentando di creare un terreno fervido per la presa diconsapevolezza, significava avere l’obiettivo che nasces-se qualcosa di nuovo e spontaneo senza però metterloin moto noi stessi.

Non era un progetto di intervento politico astratto tipo «campa-

gna tematica». Aveva le sue fondamenta sulla dimensione mate-

riale di intervento, per cui le persone che lavoravano erano riferi-

menti credibili da parte dei migranti: sei lì a pulire la merda con

loro, sei lì con loro. Se fosse stata una campagna mediatica o di

sensibilizzazione sarebbe stato meno forte. E non era esclusiva-

mente un progetto di solidarietà ma un progetto politico sul lavo-

ro nero, cosa che creava quello che di solito i progetti solidarietà

non fanno, cioè mettere in moto altro da sé.

(Francesco Purpura, centro sociale Z.A.M. Milano)

Osservare partecipando a questo movimento di co-struzione e di autocoscienza ridefiniva il nostro ruolodopo lo sciopero in modo difficilmente spiegabile e ri-

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assumibile. La difficoltà dell’esserci e allo stesso tempola necessità di fare un passo indietro per lasciare spazioallo sviluppo di una collettività in lotta, ancora tutta dacostruire, ci è piombata addosso con una violenza chenon ci aspettavamo. Alla normale gestione del quotidia-no si aggiunge un vortice nuovo che ci trascina in nuovecontraddizioni, in nuove immersioni, sempre più arti-colate e difficili da attraversare. La spaccatura più evi-dente: come trovare le pratiche adeguate per riuscire asostenere lo sciopero senza rischiare di influenzarel’autorganizzazione nascente dei braccianti? Il linguag-gio si complica, si articola, tutto il vivere Boncuri si am-plifica, ora l’immersione è tale da farci sentire apparte-nenti a quella terra polverosa come se non fossimo maistati altrove.

Ascoltare. Durante le prime ore abbiamo ascoltato,abbiamo partecipato silenziosi cercando di intravederela forma di quella protesta, le interminabili e spessoconcitate riunioni dei lavoratori, che discutevano, si ar-rabbiavano, cercavano di mantenere il filo – quello dellosfruttamento, dei caporali, delle aziende – costruivano edecostruivano anche loro tra di loro esattamente comefacevamo noi, si mettevano in discussione, ci metteva-no in discussione, forse stavano capendo tra le tante co-se il motivo che ci aveva spinto fin laggiù da tutta Italia.

«Li facciamo anche noi i blocchi la mattina alle 2.30, perché non

esiste che guardiamo e basta, che solidarietà è stare a guardare

una lotta altrui?». Assemblea di gestione nostra, interna, con una

notte in bianco alle spalle (una delle tante) discutiamo reduci dal-

l’entusiasmo iniziale delle prime ore di sciopero. I braccianti

hanno deciso di fare i blocchi la mattina per convincere le perso-

ne a non lavorare, a scioperare con loro. E noi? Ci domandiamo

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cosa sia giusto fare. «Ma io singolo volontario, se pur spinto dalle

più nobili motivazioni, che diritto ho di andare da un ragazzo su-

danese (magari mio coetaneo) e dirgli di scioperare perché quel-

lo non è lavoro ma sfruttamento estremo? Sarebbe come sosti-

tuirsi, prendere parola al posto di…». Lo sciopero è stato sponta-

neo e così deve rimanere la sua prosecuzione. Possiamo esserci,

fisicamente, perché li appoggiamo e siamo con loro, ma dobbia-

mo trovare il modo per supportarli e sostenerli lasciando la ge-

stione in mano loro. Se metti in moto un processo di emancipa-

zione poi devi anche saperlo riconoscere e lasciarlo andare. Sei lì

con loro e per loro, se ti chiedono aiuto tu ci sei sempre ad ogni

ora, condividi le tensioni e l’entusiasmo. Lo sciopero costruisce e

destabilizza, a volte si ha la duplice sensazione che quello che si

sta vivendo è talmente forte da essere fragilissimo, quando ci si

ferma manca il respiro.

(appunti dal campo)

Il nostro è stato un ruolo di sostegno e mai di condu-zione, non avremmo mai potuto rivendicare come no-stro qualcosa che auspicavamo partisse da loro. Così sicreava una nuova sinergia, fatta di turni di vigilanzamentre i braccianti facevano i picchetti, di bombolette estriscioni per il primo presidio in Prefettura, di un blog,che loro stessi ci hanno chiesto di aprire per potersi co-municare al mondo esterno. Quando abbiamo capitoche rifiutarsi di andare a lavorare significava per i mi-granti trovarsi a contare quanti spaghetti gli rimaneva-no per la cena, abbiamo deciso di attivare una cassa diresistenza appellandoci alla solidarietà di tutti i soggettie le realtà fuori dalla masseria, in modo da poter orga-nizzare raccolte alimentari e distribuzioni di cibo insupporto allo sciopero. La relazione dentro la protestatra braccianti e BSA era dunque intrecciata in modo

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biunivoco: alzando la testa hanno rianimato il senso po-litico del nostro agire, e l’hanno fatto lì e non altrove, ri-conoscendo in noi e nel campo uno spazio di tutela e le-gittimazione.

L’esperienza a Nardò mi ha insegnato l’importanza di non sosti-

tuirsi agli altri, al fine che ognuno prenda coscienza di sé e della

propria situazione. La solidarietà «non etica» vale a dire: sono ac-

canto a te, ma non per questo ti tratto da bisognoso di assistenza.

Ecco, l’assistenzialismo non era proprio previsto nel nostro pro-

getto. Possiamo provvedere delle basi per l’emancipazione, per la

rivendicazione di diritti, per la richiesta di maggiore visibilità.

Ma non sarà mai la Bsa a farlo, saranno i soggetti con i quali stia-

mo collaborando, in questo caso i braccianti presenti in masse-

ria. Credo che questo spirito sia stato espresso nella sua forma

più ampia durante lo sciopero.

(Elena Di Cesare, BSA Lazio)

Non è un caso che la protesta non sia stata violenta.Non è un caso che sia avvenuta in un campo «aperto»nel quale il confronto costante con il fenomeno del ca-poralato e le pratiche messe in atto per combatterlo av-venissero dall’interno, partendo dal basso, con la consa-pevolezza della complessità del fenomeno stesso. Gliscoppi di rabbia che animano rivolte efferate comequella di Rosarno nel 2010 o quella di Bari, che avveni-va a poche centinaia di chilometri dal campo di Nardòproprio durante lo sciopero, sono segni evidenti di un’e-sasperazione che arriva al punto di non poter più esseresubita in silenzio, reazioni irrazionali del tutto fisiologi-che dentro un contesto disumano e feroce. Trovare sulterritorio una struttura che riduce l’isolamento e mo-stra segnali concreti della volontà di cambiamento con-

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sente di dare il giusto valore a quella rabbia converten-dola in conflitto costruttivo.

Avevano i volantini della campagna «Ingaggiami» stamattina, è

lì che hanno visto il salario previsto dal contratto provinciale, è al-

la scuola di italiano, è parlando con noi tra le tende o in ufficio o

pulendo il campo che hanno trovato uno spazio di confronto.

Questo posto ha funzionato, ha funzionato l’idea che la possibili-

tà di aggregazione stimola la libertà di confrontarsi, organizzar-

si, in questo caso di ribellarsi e rivendicare i propri diritti.

(appunti dal campo)

La costruzione dello sciopero, in tutte le sue declina-zioni, è stata pacifica e basata sul dialogo. Tantissime lepratiche messe in atto dagli scioperanti per convinceregli altri lavoratori ad aderire alla protesta, e con diversecaratteristiche operative, segno di una profonda com-prensione del fenomeno. Chi ha scelto di non sciopera-re non è stato additato come traditore della causa: in untale contesto «sperimentale» che ripropone dinamichesociali di inclusione ed esclusione la capacità di media-zione tra diverse posizioni ha raggiunto livelli altissimidi democraticità e rispetto. L’essere accomunati deibraccianti, al di là delle diverse origini nazionali, da unacesura trasversale che in egual maniera li esclude dalla«società civile» ha reso radicale la presa di consapevo-lezza verificatasi. La partecipazione alla protesta ha avu-to come fulcro il tema del lavoro, i migranti si sono rico-nosciuti tra loro come lavoratori, le diverse nazionalitàdi provenienza non determinavano più divisioni.

Ma il campo si è trasformato non solo nelle sue di-namiche interne. Quei confini immaginari che lo sepa-ravano dal resto del mondo sono improvvisamente crol-

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lati. La Masseria si apre, su giornali e televisioni si parladello sciopero, il resto del paese improvvisamente si ac-corge che nelle campagne del sud si lavora in nero e incondizioni di estremo sfruttamento. Boncuri è diventa-ta all’improvviso terreno di giornalisti, fotografi, mili-tanti di vario genere, associazioni, semplici curiosi, po-litici, sindacalisti. Non ci sono più confini, gli equilibriprecari del campo si sgretolano sotto i nostri occhi met-tendo in moto reazioni a catena. Quello che fino a quelmomento era fuori, entra prepotentemente nella ge-stione ordinaria del campo.

Se da un lato la curiosità di svariati soggetti esternirappresentava un effetto positivo di rottura della nor-malità e invisibilità del fenomeno, dall’altro andava adaggiungere elementi di ulteriore destabilizzazione algià complicato e delicato equilibrio del campo. Lo stu-pore di chi da esterno mette piede in Masseria e si ac-corge che i lavoratori stagionali sono costretti a vivere incondizioni di indigenza e ricattabilità, rende facile pun-tare il dito, facilmente si grida allo scandalo e alla dis-umanità di quel campo. Diritti per tutti, letti per tutti,frontiere per nessuno. Ma la protesta dei lavoratori do-v’è finita in tutto questo rivendicare uguaglianza diffu-sa? Un continuo rivendicare e criticare senza chiedersise forse non sia un caso che lo sciopero sia partito daibraccianti di Nardò e non da quelli del foggiano. Senzachiedersi se forse quel campo con tutti i suoi limiti econtraddizioni inevitabili non sia qualcosa da protegge-re e migliorare invece che da attaccare.

La nostra priorità era sostenere la protesta cercandoil modo di portare le rivendicazioni dei braccianti all’at-tenzione delle strutture istituzionali di competenza,dal sindacato alla Prefettura, oltre che dell’opinione

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pubblica tramite i mezzi di informazione più dispara-ti. Ma troppo spesso i media e le realtà istituzionaliconcentravano l’attenzione sulle condizioni di vita pre-carie dei migranti al campo, al punto di arrivare alla se-conda interrogazione parlamentare sulle condizioniigieniche della Masseria. Le immagini dello scioperocorrono rimbalzando da giornali a Tg, tutti si affanna-no alla ricerca della notizia più succulenta e possibil-mente melodrammatica. Nella perversa logica degliascolti e della risonanza si fa fatica a mantenere il pun-to fermo su i diritti.

Ovviamente dentro un contesto di indigenza e di-sperazione del genere, fare leva sul disagio sociale den-tro cui i braccianti vivono significava andare a toccareun tasto fortemente sentito e vissuto ogni giorno da lo-ro stessi sulla propria pelle, alimentando sentimenti dirabbia che seppur comprensibili rischiavano di non tro-vare un canale di sfogo.

La forma che hanno preso questi dieci giorni di militanza vera-

mente in frontiera sono le Brigate di solidarietà attiva, cuore e

braccia dell’esperienza. Compagni da tutta Italia, incazzati ma

umili, l’unica combinazione possibile di sentimenti per portare

avanti quel lavoro laggiù. Sportello sanitario, sportello legale,

accompagnamenti in ospedale, pulizia campo, campagna con-

tro il lavoro nero e per l’ingaggio (il contratto). A tutto questo nel

periodo della mia permanenza in quella polveriera sociale sem-

pre pronta ad esplodere in rissa si è aggiunto un evento storico.

Il primo sciopero di braccianti migranti autorganizzati in Italia,

durato ben tredici giorni (moltissimo, fatti i conti di quanto a lo-

ro «costi», in tutti i sensi, un solo giorno di lavoro mancato), due

incontri-presidio sotto la prefettura di Lecce, un incontro in Re-

gione a Bari. Giornali, tv locali, nazionali. Qualche risultato,

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senz’altro un meraviglioso, sorprendente inizio di una lotta du-

rissima, tutta ancora da combattere e vincere. Questo ha anche

però voluto dire il doppio, il triplo dello sforzo: assemblee dei

migranti, assemblee interne, comunicati, ronde notturne di

protezione (tutto il «gruppo dirigente» dei migranti minacciato

di morte), ronde di «controllo-supporto» dei picchetti e dei bloc-

chi stradali, una marea di giornalisti da gestire, i presidi, la cas-

sa di resistenza alimentare da organizzare e mettere in pratica.

Bioritmi a puttane, notti in bianco e pasti saltati, tutto sempre

fatto di gusto. Non era facile farsi trovare pronti, in tutto questo.

Farlo funzionare. Non cedere per primi. Fisicamente, psicologi-

camente, sono stati giorni duri. Che hanno dato grandi frutti

certo, dentro e fuori di noi, ma duri.

(Dario Clemente, Bsa Cinisello Balsamo)

A reggere il fulcro delle contraddizioni del campoin quei giorni c’era soprattutto il gruppo dei «rappre-sentanti». Su di loro si concentrava la massima esposi-zione e visibilità, da parte del resto del campo innanzi-tutto, che li guardava chiamare le assemblee aggiran-dosi tra le tende col megafono, partecipare alle nostreriunioni per capire insieme come costruire la vertenzapolitica, organizzare la distribuzione dei beni alimen-tari per gli scioperanti, raccontare ai giornalisti le ra-gioni della protesta. In quei giorni molti braccianti cichiedevano di essere accompagnati al Commissariatoper denunciare i caporali. Nonostante lo facessero inmolti, le conseguenze immediate e dirette si riversava-no principalmente sui portavoce, che in più occasionihanno ricevuto minacce di morte e intimidazioni. Era-no i più esposti. Dall’invisibilità che fino a pochi giorniprima li riguardava esattamente come tutti gli altri,erano stati catapultati d’un tratto nell’improvvisato e

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difficile ruolo di leadership. Un camerunense, tre tuni-sini, due togolesi, un sudanese e un ghanese alla guidadi un campo di oltre 400 migranti. Dallo sciopero inpoi sono diventati il nostro tramite per il campo, in vir-tù della loro rappresentanza «etnica» e sociale, e a loroin particolare andavano i nostri pensieri di preoccupa-zione, sostegno, tutela. Dopo le minacce, abbiamo de-ciso di proporre loro di dormire nei locali della masse-ria, tra l’ufficio e l’ambulatorio medico. Una scelta det-tata dalla paura che dopo aver acceso la protesta nedovessero subire le conseguenze peggiori. Una sceltache però ha segnato un confine fisico tra i rappresen-tanti e il resto del campo.

5. Quando l’auto-organizzazionesi scontra con il vuoto della politica

Metti in moto un processo di emancipazione, lo faicalandoti nella difficoltà delle pratiche, lo fai comegruppo e non come singolo, lo fai perché sei convintoche la forza potenziale dei lavoratori sfruttati sia qualco-sa di forte e dirompente, lo fai anche animato dalla con-vinzione che il sistema possa e debba essere cambiatopartendo dal basso, dagli ultimi della scala sociale, dachi addirittura è fuori dalla scala sociale perché non ri-conosciuto. Poi ci si scontra con il vuoto delle istituzio-ni, ci si scontra con chi non centra il punto, ci si rendeconto che la rivendicazione dei lavoratori di Boncuri èmolto più scomoda di quanto si pensasse: le rivendica-zioni sulle condizioni di sfruttamento ricollocano vio-lentemente al centro della discussione e dell’opinionepubblica il tema del lavoro.

La vaghezza delle risposte ottenute ai tavoli istituzio-

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nali, la latitanza delle aziende, il vuoto legislativo chenon prevedeva il reato di caporalato, portano quasi apensare che le forze in causa avrebbero preferito una ri-volta violenta, un fenomeno più ingovernabile. Avreb-bero preferito un rigurgito incontrollato ed irrazionalemagari riversato sulla cittadinanza neretina, così da po-terlo reprimere, soffocare, controllare, normalizzare.Invece no, lo sciopero è pacifico, la rabbia e le frustra-zioni chiedono di avere voce, di essere ascoltate da chidi dovere. Ma allora chi è il nemico da combattere, il ca-porale o chi se ne serve? Entrambi sicuramente, macombattere il caporale è funzionale a chiamare in causale aziende, i datori di lavoro. Sullo sfondo, una politicacomplice e succube delle leggi di mercato annaspa inevidente difficoltà.

Al di là di Nardò, prima della Masseria e della sua ge-stione sperimentale, ci sono le migliaia di lavoratori chevivono nei casolari, dispersi tra le campagne del sud, incondizioni disumane. Senza nessuna possibilità di ve-dersi riconosciuti come lavoratori aventi diritti. Ci sichiede dove siano state la politica, le forze sindacali e leistituzioni negli ultimi vent’anni. Ci si chiede se al di làdel potere mediatico che tutto vede e tutto distorce ci siaqualcosa oltre il vuoto. La delusione per gli scarsi risul-tati ottenuti ma soprattutto la frustrazione per avere inmano rivendicazioni molto precise e puntuali che sten-tano a trovare risposte reali e concrete, si riversa nella vi-ta del campo con un velocissimo effetto domino. Ten-sioni, stanchezza, fame, la sensazione di essere presi ingiro, la diffidenza e il sospetto crepano il gruppo dellosciopero, lo rendono più vulnerabile meno coeso. Cisentiamo tutti sotto assedio, il quotidiano ci sfugge dimano, ci sfugge di mano il nostro essere lì.

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La realtà socio-economica che i migranti sono costretti a vivere in

un paese che nega quotidianamente diritti fondamentali e biso-

gni personali ribadisce ancora una volta come lo Stato e le realtà

istituzionali, ritengano tali soggetti privi di alcuna importanza,

se non esclusivamente in termini di mano d’opera a basso costo.

Il sistema capitalistico continua a sopravvivere basandosi sullo

sfruttamento di quelle classi, tra cui rientrano i migranti, che og-

gi sono costretti a vendersi per qualche euro al giorno per soprav-

vivere. Lo sciopero in un contesto come quello di Nardò mette in

piena mostra il predominio del capitalismo e la complicità delle

istituzioni politiche su cui esso si fonda, ma dall’altro lato, per

fortuna, rende il futuro non poi così buio. Difatti dovremmo tut-

ti prendere esempio dallo sciopero dei braccianti migranti di

Nardò, così come dalle rivolte arabe di quest’anno. L’autorganiz-

zazione dal basso che solo uno sciopero autoconvocato sa rende-

re così tangibile e reale, dovrebbe essere la base da cui ripartire

per un nuovo ordine sociale ed economico realmente gestito dai

veri protagonisti. Noi.

(Claudio Ferrante, associazione Africa Insieme Pisa)

La violenza c’è stata, è stata la violenza di un sistemaeconomico e politico colluso, è stata la violenza di strut-ture che si muovono su un piano mediatico e non sullarealtà quotidiana, la violenza delle rivendicazioni delsingolo individuo a discapito della collettività, uno con-tro tutti, tutti contro uno, tutti contro tutti.

Credo che, se si vuol fare lo sforzo di comprendere una realtà ed

ambire ad aver una buona presa su di essa, non si possa omettere

di tener conto anche di questi, assai problematici, aspetti. Pre-

messo che non sono tra quelli che possono affermare di sapere

cosa sia la mafia, ritengo però di essermi fatto un’idea di quelli

che possono essere definiti rapporti mafiosi. Questa distinzione

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mi permette, del resto, di non dare direttamente del mafioso a

nessuno dei soggetti di cui sto parlando, pur avendo maturato la

convinzione che siano invece definibili come mafiosi i rapporti

che tra di loro tali soggetti intrattengono. Credo che rapporti ma-

fiosi possano scorgersi nel sonnolento lasciar fare da parte delle

istituzioni nel permettere alle aziende presenti sul territorio di

perpetuare l’avvilente sistema del capolarato come strumento

preponderante di reclutamento della manovalanza bracciantile.

Tale strumento, di fatto, relega i lavoratori nella posizione di non-

soggetti: rendendoli privi di qualsiasi rilevanza giuridica, li con-

danna ad una dimensione di non-esistenza, condizione dalla

quale non è dato pretendere niente che non sia quanto concesso

da varie provvidenze, siano esse istituzionali o di concorrenza.

Ho avvertito come mafioso l’atteggiamento impaurito e colpevol-

mente debole delle forze dell’ordine, pronti a scappare lasciando-

ci soli ad affrontare situazioni ad alto rischio ed assai prudenti

nel lasciare che – in particolare – la notizia di una nuova legge

con cui il capolarato andava a costituire reato penale venisse dif-

fusa. Rapporti mafiosi possono riconoscersi infine, purtroppo,

anche nel modus operandi di un certo sindacato, anch’egli son-

nolento e disinteressato verso le condizioni lavorative, le rivendi-

cazioni e le lotte dei braccianti, almeno fino a quando la prospet-

tiva di un tornaconto – in termini di visibilità mediatica – non ne

ha determinato, a giochi fatti, l’improvviso ma non troppo ina-

spettato risveglio: ciò che costituisce, come ho sopra affermato,

giusto il contrario di ciò che con il nostro intervento ci siamo pro-

posti di fare, ossia l’offrire forza, sostegno e strumenti d’analisi

atti a sostenere una lotta che è stata – e tale deve rimanere – la lot-

ta dei braccianti per l’emancipazione dalla loro condizione di non

esistenza, attraverso il riconoscimento dei propri diritti in quan-

to lavoratori.

(Andrea Ciacci, Bsa Toscana)

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Il post-sciopero, la gestione del reflusso, lo scivola-mento e l’appiattimento inevitabile sulla condizionemateriale sempre più difficile da sopportare, ora più diprima proprio perché era ormai consolidata la consape-volezza di quanto dipendesse da un meccanismo piùampio e complesso, ci ha schiacciati tutti, volontari ebraccianti, in una condizione generale di fortissimatensione. La voglia che quasi era un bisogno fisico deimigranti di lasciare Boncuri, di recarsi altrove, è ormaievidente, si respira, si vive in ogni gesto, in ogni scoppiodi rabbia improvvisa.

Ancora una volta la tensione si riversa soprattuttosul gruppo dei portavoce, gli otto nomi usciti dalla pri-ma assemblea spontanea di Boncuri, le stesse personeche hanno partecipato ai tavoli. Molti di loro hanno de-nunciato i caporali (e molti hanno seguito il loro esem-pio), molti di loro sono stati minacciati, poiché identifi-cati come responsabili dello sciopero. Rappresentavanole rivendicazioni dei lavoratori in virtù di un’iniziale fi-ducia che ora vacilla perché i risultati stentano ad arri-vare. L’attenzione mediatica e politica li ha risucchiati inuna rincorsa alla visibilità che se pur necessaria ha crea-to scollamento tra loro e il resto del campo. Gli altribraccianti non si fidano più, serpeggia la convinzione,alimentata anche da malelingue esterne, che quegli ot-to «privilegiati» ci guadagnassero qualcosa, che addirit-tura venissero pagati. Il dubbio e il sospetto, calati inuna dimensione che si regge su equilibri così labili, sidiffondono come un gas nocivo. La condizione materia-le viene aggravata, amplificata, esasperata al punto daidentificare in quelli che dall’assemblea erano stati scel-ti una sorta di nemico.

Il problema sta tutto lì: rappresentare non vuol dire

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«prendere il posto di», ma deve essere un elemento difacilitazione che ha senso se quella stessa comunità,quella stessa collettività di singoli che portano avanti in-sieme una battaglia tortuosa e difficile si fa motore atti-vo della protesta considerandosi come blocco unico diun rivendicare collettivo. Il meccanismo di delega inve-ce inevitabilmente porta ad assumere su di sé la respon-sabilità collettiva, nel bene e nel male, fino a trovarsi adun certo punto a dover rispondere ingiustamente dellemancanze e degli errori della politica istituzionale.

Così quando ai portavoce viene detto che da uno deiprimi tavoli sarebbe uscita la possibilità di chiedere ilpermesso di soggiorno per i clandestini del campo, inbuona fede hanno deciso di adibire momentaneamentel’ufficio accoglienza per la compilazione di liste di pos-sibili candidati. Le false illusioni create da enti esterni alcampo si sono dunque riversate all’interno per manodei rappresentanti, additati come «sbirri» e promotoridi un altrui inganno. Lo stesso è accaduto per le liste diprenotazione dell’ufficio di collocamento: la promessadi sensibilizzazione delle aziende ad accedere alle listeper l’assunzione diretta dei braccianti, sbandierata dalsindacato come risultato formidabile di una lotta vitto-riosa, non ha fatto che produrre ulteriori abbagli e con-seguenti tensioni, di nuovo scoppiate dentro la Masse-ria contro i portavoce che organizzavano le compilazio-ni. «Se scriviamo i nostri nomi su quella lista troviamolavoro? Le aziende ci contatteranno direttamente senzapassare per il capo-nero?». Erano queste le domane cherimbalzavano di bocca in bocca durante le interminabi-li e animate code per mettere il proprio nome in quelleliste da portare al centro per l’impiego. E più che do-mande erano fiduciose certezze.

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Il vuoto legislativo pesa enormemente, pesa enor-memente l’assenza delle aziende ai tavoli istituzionali,pesa enormemente l’immobilità di un intero sistemaeconomico in cui lo sfruttamento dei lavoratori attra-verso il sistema del caporalato è parte fondante.

Il mondo fuori, amministrazioni, forze politiche e sindacali, ci

sono, ma spesso non riescono a comprendere la complessità di

cosa voglia dire agire in un contesto profondamente diverso da

quelli a cui si è abituati. Le parole e le buone intenzioni (quando

ci sono) non bastano, è necessaria una profonda umiltà e atten-

zione, per capire realmente cosa voglia dire, nel caso dello scio-

pero dei braccianti di Nardò, autonomia. Autonomia vuol dire

nascita e presa di coscienza, vuol dire inizio di un percorso che ha

bisogno di tempo per prendere forma e per maturare, vuol dire

fare un passo in avanti e due indietro. Non si sta parlando dei la-

voratori di una fabbrica per i quali lo sciopero fa parte di un lin-

guaggio che rientra nella dimensione del concetto stesso di lavo-

ro. I braccianti della Masseria hanno in pochi giorni portato

avanti un processo di emancipazione e presa di coscienza che ri-

chiede per consolidarsi molto più tempo e forse molti più errori

ed inciampi.

Il campo sembra ferito, crepato, nuove disgregazioni si sovrap-

pongono e si mischiano, le giornate si fanno più dolorose. La

mancanza si acuisce, alla Masseria si soffoca, ma questa volta

non per il caldo… i giorni della mobilitazione sembrano lontani

anni luce…ma la traccia rimane, c’è, si fa largo faticosamente tra

polvere e partenze di fine stagione.

(appunti dal campo)

Sabato 13 agosto 2011, il governo vara un decretod’urgenza (n138) nel quale introduce all’articolo 12 ilreato di «intermediazione illecita e sfruttamento del la-

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voro». Quando lentamente la notizia si sparge nel cam-po, assistiamo ad un momento quasi di stordimento,non tutti ci credono, facciamo fatica a spiegare che inparte è stato l’effetto dello sciopero ad influire, accele-rando i tempi istituzionali di una proposta di legge vec-chia di quasi dieci anni, che fino a quel momento era ri-masta lettera morta. Questo ovviamente non basta, è unriconoscimento che fa sperare nella possibilità di nonrendere vane tutte le denunce fatte dai braccianti, met-tendo a rischio la propria incolumità, ma certo non ri-solve il problema. Di fatto i caporali tornano ad esserepresenti e si muovono indisturbati.

Nel vortice di frustrazione e scoraggiamento genera-le, la raccolta fondi della cassa di resistenza aveva dato isuoi buoni frutti. Come distribuire quei soldi, con checriterio? In parte sono stati utilizzati per acquistare ge-neri alimentari per sostenere gli scioperanti, in parte perdelle tendine da assegnare ai migranti che dormivanodentro alcune baracche di amianto, che il Comune in-tendeva smantellare. Ma ne restavano altri. Era ormai fi-ne agosto, la tensione era alta, molti sarebbero partiti perandare a cercare lavoro altrove, ma non potevano per-mettersi di comprare i biglietti del treno. Il fondo dellacassa non sarebbe stato sufficiente per tutti. I tentativi dicoinvolgere le istituzioni per raccogliere altri fondi e pa-gare loro i biglietti non vanno a buon fine. E così doporisse, sospetti, accuse, riusciamo ad individuare unaventina di braccianti, primi protagonisti dello sciopero,che ancora si trovano in masseria, tra cui dividere i soldiche restavano. Proprio loro che si erano così esposti du-rante la protesta, alla fine dello sciopero non avevano piùpotuto lavorare: colpevoli di aver agitato le acque, oranon potevano godersi i frutti che la mobilitazione aveva

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portato. Perché anche se dai tavoli istituzionali uscivanopochi risultati concreti, di fatto dopo qualche giorno incui i pomodori non venivano raccolti, i caporali avevanoaumentato i salari e molti braccianti erano tornati a lavo-rare. Incrociando le braccia in modo compatto si era cosìristabilito un minimo potere contrattuale, seppur nell’o-rizzonte sommerso del lavoro, che ridava ai lavoratori ladignità dell’autodeterminazione.

L’autorganizzazione dello sciopero ha messo in moto un proces-

so indipendente che non dipende più da noi. I lavoratori non pa-

gati si organizzano tra di loro: chiamano i carabinieri, sequestra-

no le chiavi del camioncino del caporale che per giorni, ogni mat-

tina, li ha trasportati nei campi di pomodori sotto l’implacabile

sole del sud. Alla fine dopo ore di concitazione riescono a farsi

pagare e tu ti trovi lì nel pieno della contraddizione, perché quel-

le persone il contratto non ce l’hanno, ma hanno assunto ed in-

troiettato la consapevolezza che come lavoratori hanno dei dirit-

ti, hanno capito che ci sono dei responsabili, hanno capito di po-

ter pretendere, hanno capito anche che la condizione che vivono

può essere cambiata solo da loro…e insieme hanno agito come

un corpo solo con molte teste e molte braccia.

No, non è semplice vivere il compromesso, ci si sente perenne-

mente inadeguati, si riscrive la propria concezione di vittoria e

sconfitta. Semplicemente si vive quello di cui altri parlano, ci si

sporca le mani e lo si fa tutto sommato con orgoglio.

(appunti dal campo)

6. La forza del progetto oltre Nardò

I braccianti migranti di Nardò hanno incrociato le braccia, contro

lo sfruttamento, contro il lavoro nero, chiedendo un salario de-

gno e condizioni di lavoro dignitose e adeguate. Non possiamo

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che appoggiare questa lotta, chiedendo a tutti di solidarizzare e

unirsi intorno a questi coraggiosi migranti, che stanno rivendi-

cando pacificamente i propri diritti…

Comunicato Rete Immigrati Autorganizzati di Milano,

4 agosto 2011

I delegati Fiom della Fincantieri di Ancona esprimono profonda

solidarietà alla lotta in corso dei lavoratori di Nardò. Sosteniamo

con grande forza e convinzione chi si sta battendo per un giusto

salario e delle condizioni di lavoro dignitose. Siamo convinti che

la nostra lotta per la salvaguardia del posto di lavoro e le vostre ri-

vendicazioni nascano dalla medesima necessità di riconoscere la

giusta importanza alla condizione umana che va riportata al cen-

tro della discussione. Non riteniamo né tollerabile né degno di

una società civile che la crisi della finanza e delle banche venga

scaricata tutta completamente sul lavoro a vantaggio di chi, inve-

ce, con la crisi si sta arricchendo sempre di più: contro questo,

tutti insieme dobbiamo costruire l’alternativa unificando, da

nord a sud e anche nel resto del mondo le lotte del lavoro.

Comunicato Fiom Fincantieri di Ancona, 7 agosto 2011

Lo sciopero dei braccianti ci ha ricordato ancora unavolta quanto sia importante la solidarietà tra diverserealtà in lotta. Oltre alle donazioni per la cassa di resi-stenza, moltissimi sono stati i comunicati in sostegnoalla protesta di Nardò, arrivati da decine di comitati,gruppi e associazioni sparsi in tutta Italia. Un segnaleche va nella direzione di quella ricomposizione dellelotte e del tessuto sociale di cui tanto avremmo bisogno,in questo momento di crisi soprattutto, per ridare forzae vigore al movimento che si batte per costruire un’al-ternativa concreta al sistema.

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Prima di partecipare all’esperienza di Nardò e nonostante un cer-

to grado di consapevolezza, ero convinto che la causa dello sface-

lo in cui viviamo fosse colpa del consumismo e la mercificazione

di tutto e quindi risolvibile facendo qualche acquisto responsabi-

le ed utile. Non è così, è il sistema intero che va scardinato e mes-

so fortemente in discussione. Quel sistema basato sullo sfrutta-

mento, sulla negazione dei diritti, sulla privazione della dignità

umana, sulla competitività e sullo schiacciamento sempre verso

il basso delle classi più deboli. Credo che un’altra visione del no-

stro modo di vivere debba emergere con forza e determinazione.

Un altro modo di fare comunità, di fare politica, di fare gruppo.

Una cultura diversa da quella dominante. Quella cultura del più

bello, del sempre giovane, del più forte e del più furbo. So che ri-

schio di essere banale elencando cose risapute ma l’esperienza

delle Brigate ha dimostrato che un altro modo esiste e funziona.

La lotta che hanno intrapreso i braccianti di Nardò quest’estate,

grazie sopratutto all’intervento delle brigate, non era solo contro

lo sfruttamento. Era contro un sistema criminale, perché si affi-

dava a pratiche mafiose. Contro un sistema ingiusto perché ne-

gava il diritto ad un salario equo. Contro un sistema crudele per-

ché poche multinazionali controllano l’intero mercato ortofrutti-

colo imponendo i loro prezzi a tutti. Una lotta che sotto certi

punti di vista ha pagato e ha fatto sì che i braccianti potessero ot-

tenere pochi ma fondamentali diritti. Registro infine una sorta di

filo rosso che collega tutto, perché lottare per i diritti dei brac-

cianti ad un salario equo e vita dignitosa significa difendere i di-

ritti di tutti.

(Alaa Nasser, Bsa Pavia)

A Boncuri quest’anno ci sono stati due campi, maforse anche molti di più: il purgatorio di sussistenza e ilfragore della lotta, e in entrambi hanno inciso le dinami-che economiche nazionali e globali. La crisi è stata prota-

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gonista, ha determinato situazioni e commistioni, inqualche modo ha creato connessioni tra lavoratori, incontesti diversi, che egualmente vedono il proprio lavo-ro non riconosciuto come tale. Il mondo a sé della Mas-seria si è spinto oltre il confine dell’emarginazione, ibraccianti si sono spinti oltre e l’hanno fatto anche graziealla presenza di migranti portati nei campi dalla crisi del-le fabbriche, che hanno consegnato a Nardò una consa-pevolezza maggiore e sicuramente hanno permesso diaccelerare il processo di emancipazione di tutti.

Durante lo sciopero si cercava di far conoscere all’e-sterno della Masseria le rivendicazioni dei lavoratori, apartire dai braccianti sì, ma con la speranza di esseresimbolo di tutte quelle braccia che, in contesti diversi,vivono dentro la dimensione frustrante di ricattabilitàdella propria condizione lavorativa. In molti ritengonoche nell’era della globalizzazione non ha più senso par-lare di classi sociali, che le classi sociali non esistonopiù, che lo stereotipo degli operai e dei braccianti insciopero appartengono a un immaginario collettivo chemal si adatta al «capitalismo immateriale». Sicuramen-te i cambiamenti storici, politici economici e sociali cisono stati, non si tratta di riproporre schemi e teoriesenza un’adeguata contestualizzazione temporale.Quello che però forse sfugge è il dato meramente mate-riale in cui viviamo: il lavoro coatto c’e ancora, importase siano italiani, africani, asiatici? La globalizzazione hareso le classi sociali semplicemente più elastiche, ne haprodotte di nuove, ma certo non le ha eliminate. I co-municati di solidarietà per la lotta dei braccianti di Nar-dò hanno lasciato la traccia tangibile di quanto trasver-sale sia lo sfruttamento dei lavoratori.Il termine previsto per la chiusura del campo è il 31 di agosto, di

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braccianti ne sono rimasti pochi, moltissimi partono alla fine del

Ramadan; alla Masseria c’è aria di perdita, di baracche e cucine

dismesse, di camioncini carichi. Si smontano le dinamiche co-

struite in quella terra polverosa, tra divani sfondati e sedie di pla-

stica abbandonate, si consumano le ultime giornate della stagio-

ne. La chiusura viene fatta gradualmente e in modo elastico, per

qualche giorno oltre il termine previsto dal progetto si manten-

gono attivi bagni chimici, acqua e luce. Alcuni braccianti lavora-

no ancora forse sono una cinquantina scarsa. Si parla di «sgom-

bero» il sindacato accusa il comune di Nardò ed implicitamente

noi volontari di voler cacciare i migranti. Le tensioni accumulate

nel corso di quei tre mesi di contraddizioni vissute in nome del

cambiamento dal basso, resistono si insinuano e ci esplodono

nuovamente tra le mani al punto da assistere increduli ad alcuni

migranti che in un video ci accusano di razzismo. Il paradosso è

talmente potente da farci rabbrividire nonostante il caldo africa-

no. Ancora una volta il potere della macchina mediatica schiaccia

e distorce la realtà. Ancora una volta ci troviamo nel mezzo, ci tro-

viamo a dichiarare quello che per noi è ovvio e lampante ossia la

responsabilità delle aziende nel provvedere economicamente al-

l’alloggio dei braccianti; ci rendiamo conto che il tema dell’acco-

glienza è stato sì lo strumento che ci ha permesso di agire sul fe-

nomeno dal suo interno, ma è stato anche scenario di incom-

prensioni, fraintendimenti e strumentalizzazioni. Far capire che

in nessun modo siamo dipendenza amministrativa, che non ab-

biamo preso soldi e che le insufficienze strutturali della Masseria

non dipendono da noi è difficilissimo. Altro paradosso: il comu-

ne di Nardò contribuisce con una quota di trenta euro a persona

al pagamento dei biglietti per chi deve recarsi a Foggia o a Palaz-

zo San Gervasio, facendosi in qualche modo carico della forte di-

soccupazione della stagione delle angurie e degli effetti dello

sciopero. I soldi dei biglietti verranno sottratti alle politiche so-

ciali, alle fasce più deboli quindi della popolazione neretina. Le

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aziende continuano ad essere gli strozzini invisibili di questa

guerra tra poveri.

Probabilmente il prossimo anno la masseria Boncurisarà adibita ad altro, probabilmente sarà utilizzata comeun campo di accoglienza diffusa dei migranti e si perde-rà il perno sul lavoro, dunque l’intera cornice di senso delnostro progetto. Ma questo forse è il più grande risultatoche si poteva ottenere, perché significa che ha funziona-to, che il campo ha scosso equilibri grigi: scoprendo rela-zioni tra la politica e le aziende, ha messo in crisi un pic-colo pezzo di sistema, inceppando (forse per poco) l’in-granaggio di un sistema macroscopico e transnazionaleche certo non investe solo l’Italia.

Quello che resta è che dopo le mille difficoltà, le ten-sioni, le incomprensioni e le frustrazioni, i lavoratori diBoncuri sono andati via – in molti sono tornati al nord,molti altri hanno seguito le raccolte nel foggiano e a Pa-lazzo San Gervasio – portandosi appresso la consapevo-lezza di poter scegliere anche quando la scelta sembraimpossibile. Ripartono con la forza del potere collettivodi un corpo sociale che si è riconosciuto ed è in grado dilottare per modificare la propria condizione. Ognunodei braccianti di Nardò se lo vorrà avrà la possibilità di re-plicare altrove e con altri con una consapevolezza nuova.

Nardò, agosto 2011. La Masseria Boncuri oggi è anche un punto

di partenza, è il simbolo di una classe sociale (quella dei brac-

cianti migranti) che ha alzato la testa, occhi che guardano altri oc-

chi con la consapevolezza della merda che stanno vivendo e con

in mano uno strumento forte – «mettere in moto altro da sé» – ed

una dignità che ora si sa come difendere, forti dei propri mezzi.

Una dignità pronta a combattere per i propri diritti, una dignità

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che ha in sé la difficilissima, ma non più impossibile, soluzione.

(Maddalena Benanchi, Bsa Toscana)

La sfida, oltre Nardò, sta nel cercare di rendere repli-cabile altrove l’esperienza della Masseria Boncuri e neldeclinare in altri territori la campagna «Ingaggiamicontro il lavoro nero» intessendo relazioni con i lavora-tori e creando una rete di realtà autonome ed eteroge-nee che lavorino insieme nella stessa direzione. A parti-re dalle pratiche, riteniamo essenziale ricomporre set-tori apparentemente distanti – braccianti agricoli (manon solo), piccoli produttori, precari della grande distri-buzione – per difendere il diritto ad un lavoro dignitosoattraverso l’auto-organizzazione dal basso, declinandocosì una politica altra, solidale e concreta.

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Gennaio-giugno 2011Nel corso dell’anno sono tre gli avvenimenti che aiutano acomprendere lo sciopero, sebbene non si tratti in senso strettodi momenti o eventi preparatori: lo sbarco in Sicilia di tunisinie altri africani da gennaio 2011; la lotta dei lavoratori migranticontro Tecnova, azienda del fotovoltaico; la pessima annatadelle angurie a Nardò, per cui pochi lavoratori alloggiati allaMasseria riescono a trovare impiego nella raccolta di questifrutti, che precede temporalmente quella dei pomodori.Da gennaio iniziano ad arrivare prima a Lampedusa e poi neivari centri di accoglienza e detenzione di tutto il Sud Italia di-verse migliaia di tunisini prima e di altri africani in fuga dalconflitto bellico in Libia successivamente. Per quanto riguar-da la Puglia, essi vengono sistemati a Manduria, poco lontanoda Nardò, e a Bari-Palese. Numerose altre piccole sistemazio-ni poi accolgono altri richiedenti asilo in tutta la regione.Nell’aprile 2011 la Procura della repubblica di Lecce arrestauna decina di persone – soci, amministratori e capocantieredella società Tecnova – con l’accusa di associazione per delin-quere finalizzata alla riduzione e al mantenimento in schiavi-tù, estorsione, favoreggiamento della condizione di clandesti-nità di lavoratori non-Ue e truffa aggravata ai danni dello Sta-

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CronologiaLo sciopero e le sue dinamiche

to. La Tecnova è un’impresa che opera nel settore del fotovol-taico e installa pannelli solari nelle campagne salentine. Ladenuncia dei migranti, iniziata a gennaio 2011, era poi sfocia-ta in uno sciopero della fame e nell’occupazione delle stradedel centro di Lecce. Impossibile per le forze dell’ordine e lamagistratura non intervenire. In questo caso è l’Ugl a soste-nere le ragioni dei migranti.

Lunedì 20 giugno 2011Come l’anno precedente, presso la Masseria Boncuri, a pochichilometri dal centro di Nardò (Lecce), apre il centro di acco-glienza. Qui in 25 grandi tende, altri «igloo» personali oppureall’aperto alloggiano per poco più di due mesi i braccianti oc-cupati nell’agricoltura dell’area circostante. La Masseria Bon-curi è gestita, attraverso un accordo con il Comune di Nardò ela Provincia di Lecce, dall’associazione Finis Terrae e dalleBrigate di solidarietà attiva (Bsa). Come nel 2010, le due asso-ciazioni, oltre a soddisfare alcuni dei bisogni quotidiani deimigranti, sostengono la campagna «Ingaggiami. Contro il la-voro nero» e distribuiscono volantini informativi in varie lin-gue (italiano, inglese, francese e arabo). Nella Masseria i mi-granti possono usufruire dei servizi di base: acqua potabile,docce, water chimici, corrente elettrica, presenza di un medi-co dell’Asl locale dalle 17 alle 22, assistenza legale. Il cibo vie-ne preparato, per 3-4 euro a pasto, da altri migranti che si de-dicano esclusivamente a questa attività in baracche collocatenell’area della masseria e dotate di tavoli, sedie e televisore.Un centinaio di volontari delle Bsa, provenienti da tutta Italia,si alternano settimanalmente nella gestione del campo. I 350-400 migranti, provenienti da diversi paesi africani, lavoranoin agricoltura prevalentemente nella raccolta delle angurie edei pomodori.

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Sabato 2 luglio 2011Nelle campagne di Castellaneta e di Ginosa, nel tarantino, po-co lontano da Nardò, vengono arrestate 17 persone italiane erumene che minacciavano e sfruttavano soprattutto lavoratri-ci rumene, costringendole anche a favori sessuali. Un centi-naio di donne rumene sarebbero state costrette a lavorare neicampi in condizioni degradanti, minacciate da connazionalie caporali italiani e costrette a sottostare a richieste sessuali.

Lunedì 18 luglio 2011Le associazioni Finis Terrae e Brigate di solidarietà attiva, chegestiscono il centro di accoglienza per braccianti agricoli allamasseria Boncuri, promuovono la campagna «Ingaggiamicontro il lavoro nero». Durante il lancio della campagna (fattotra la fine della raccolta delle angurie e l’inizio di quella dei po-modori) si parlerà di crisi ma anche di quanto proprio la crisirenda il lavoro nero e lo sfruttamento più feroci, aumentandola ricattabilità dei lavoratori. L’iniziativa raccoglie un ampiorisalto negli organi di stampa.

Venerdì 22 luglio 2011L’associazione Finis Terrae deposita una dettagliata relazioneal Prefetto di Lecce e al Sindaco di Nardò nella quale si espon-gono i problemi relativi al campo, dalla ridotta quantità dimezzi a disposizione per l’accoglienza alla presenza dei capo-rali. Si sottolinea, inoltre, l’importanza di un coordinamentoistituzionale. Si chiede un incontro urgente con tutte le istitu-zioni preposte. L’incontro avrà luogo il 22 Settembre, a campogià chiuso.

Fine luglio 2011La raccolta delle angurie, la coltura più redditizia in quest’area,è andata male, in parte a causa della concorrenza di prodotti

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greci e turchi a basso costo. Circa il 60-70% delle angurie nonè stato raccolto e i migranti hanno lavorato poche giornate. Leproteste degli agricoltori che chiedevano aiuti economici ave-vano già raggiunto le prime pagine dei giornali nella secondametà di luglio.

Sabato 30 luglio 2011Alle 6 del mattino un gruppo di una trentina di migranti sirifiuta di svolgere un’ulteriore mansione richiesta da un ca-porale, migrante anch’esso, di selezione dei pomodori suicampi per un medesimo salario: 3,50 euro per cassone di cir-ca 300 chili. Dopo una veloce riunione con altri migranti ri-masti nel campo si decide per il blocco della vicina strada sta-tale, che dura però poco a causa dell’immeditato interventodella polizia. La protesta si conclude con la convocazione diun’assemblea nella Masseria per il sabato sera autoconvoca-ta dai braccianti.Poco prima dell’assemblea, giunge al campo un caporale tu-nisino con altri tre giovani migranti. Questi per mezz’ora con-versa con alcuni migranti e salda qualche arretrato. All’as-semblea auto-gestita dai migranti si decide per lo sciopero e sireclamano: aumenti del cottimo, abolizione del sistema delcaporalato, «veri» contratti di lavoro, apertura di un ufficio dicollocamento nel campo. I migranti eleggono quattro porta-voce sulla base delle principali lingue parlate nel campo: ara-bo, francese, inglese, kwa (ghanese).

Domenica 31 luglio 2011Verso le tre del mattino vi sono i primi blocchi stradali, portatiavanti da circa 30-40 migranti per evitare che i caporali possa-no raccogliere i lavoratori. Le strade intorno alla Masseria ven-gono rese impraticabili mettendo sassi in mezzo alla strada.Al mattino la Masseria è concentrata sul caso del migrante tu-

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nisino di 34 anni ospite del campo che viene trovato mortonella sua tenda. Si saprà in seguito che la causa del decesso èimputabile a una polmonite virale (se ne registrano circaquattri caso l’anno).

Lunedì 1 agosto 2011Lo sciopero continua, mentre da Bari arriva la notizia della ma-nifestazione dei rifugiati e richiedenti asilo del Cara di Bari.Anche i giornali nazionali cominciano a interessarsi dellosciopero. La segretaria nazionale della Flai-Cgil Stefania Crogiin un comunicato stampa afferma: «Centinaia di lavoratoriimmigrati hanno deciso di protestare ieri nelle campagne diNardò chiedendo di essere retribuiti in maniera più equa epretendendo diritti e tutele. Centinaia di lavoratori senegalesi,maghrebini, sud africani [sic] hanno deciso di scioperare e dinon andare a raccogliere i pomodori nei campi» (www.flai.it).Alla sera si tiene una nuova assemblea auto-gestita dove si ri-badisce l’intenzione di continuare a scioperare e portare avan-ti il blocco notturno contro i caporali. Yvan Sagnet, emerso co-me principale leader e portavoce degli scioperanti, rende pub-bliche le minacce ricevute dai caporali. Solo una quindicina dibraccianti è al lavoro.

Martedì 2 agosto 2011I lavoratori in sciopero attendono che il Prefetto di Lecce ac-colga la richiesta, sostenuta anche dall’assessore regionale alwelfare, Elena Gentile, di convocazione di un tavolo con i rap-presentanti dei datori di lavoro. La solidarietà intanto iniziaad arrivare, individuale e collettiva, in particolare in aiuti ali-mentari. Le Bsa distribuiscono un piccolo sacchetto di cibo,rimarcando che si tratta della solidarietà a lavoratori in lotta,non di mera elemosina. Alla sera una assemblea decide dicontinuare la mobilitazione.

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Mercoledì 3 agosto 2011Durante il blocco notturno, i migranti in sciopero hanno pro-vato a bloccare un furgone di un caporale e le forze dell’ordinehanno fermato il pulmino, ma il caporale è riuscito a fuggire.Molti caporali adesso non si fanno vedere al campo, ma qual-cuno che cerca di portare i lavoratori a raccogliere i pomodoririmane. D’altra parte gli scioperanti hanno scelto un profilo as-solutamente moderato contro i crumiri, quanto radicale nellaloro lotta.Il numero di quanti lavorano è basso, ma qualcuno è stato tra-sportato fin qui dai caporali dal foggiano per lavorare, mentread altri è stato suggerito di dormire fuori dalla Masseria. Il vo-lume dei prodotti conferiti nella pesa pubblica di Nardò è co-munque dimezzato rispetto all’anno scorso.L’onorevole Teresa Bellanova (Pd) presenta un’interrogazioneparlamentare in merito ai fatti della Masseria. In particolaresi sofferma sulla mancanza di servizi adeguati forniti nelCampo, quali l’acqua calda.Continuano le minacce, anche di morte, nei confronti deiprincipali promotori dello sciopero. Nuove denunce vengonodepositate presso il commissariato di polizia e la stazione deicarabinieri di Nardò. Si chiede al Prefetto la convocazione diun tavolo per affrontare la questione.L’associazione Finis Terrae e le Bsa lanciano una cassa di resi-stenza per aiutare i migranti in sciopero.

Giovedì 4 agosto 2011Dopo il consueto blocco notturno, al mattino un centinaio dimigranti effettua un sit-in davanti alla Prefettura di Lecce perl’apertura di un tavolo negoziale, anche grazie al sostegno del-la Flai-Cgil locale. Uno degli striscioni firmato dai bracciantidi Nardò recita: «Contro lo sfruttamento e la discriminazionedei lavoratori». Una delegazione di lavoratori viene ricevuta

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dal viceprefetto vicario, presente anche l’assessore alle attivitàproduttive della provincia di Lecce, Salvatore Perrone, checonvoca un tavolo in prefettura per lunedì 8 agosto. Lavorato-ri e imprese dovrebbero confrontarsi alla presenza di associa-zioni sindacali e padronali.Il presidente del gruppo consiliare Sel della Regione Puglia,Michele Losappio, chiede alla giunta regionale di intervenirenella vertenza dei braccianti.Alla sera una nuova assemblea auto-gestita, in presenza delletelecamere della televisione, conferma la volontà della mag-gior parte dei migranti presenti nella Masseria di continuarelo sciopero. Intanto viene aperto un blog (http://braccianti-boncuri.wordpress.com/) per comunicare la lotta.

Venerdì 5 agosto 2011Continuano i blocchi notturni dissuasivi, ma il numero di mi-granti al lavoro comincia a crescere. Il Raggruppamento ope-rativo speciale (Ros) dei carabinieri del comando provincialedi Lecce indaga nella zona di Nardò per il reato di «riduzionein schiavitù» sotto la supervisione di Cataldo Motta che dirigela Direzione distrettuale antimafia di Lecce.Nel campo in questi giorni sono presenti le forze dell’ordineper monitore la situazione; arrivano inoltre giornalisti e tele-camere; Presa diretta, Report, televisioni locali quali TeleNor-ba, il Tg3, giornalisti della carta stampata, oltre a qualche sin-dacalista e a meri curiosi, magari in vacanza nelle spiagge delSalento.Alla sera si svolgono lunghe discussioni tra i lavoratori, conqualche momento di tensione. Una parte dei migranti è infa-stidita dalla eccessiva attenzione mediatica, altri vorrebberoestendere la protesta alle altre aree di raccolta: Foggia, Palaz-zo San Gervasio. Anche la Flai-Cgil regionale sembra inten-zionata a mobilitarsi per le prossime raccolte.

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Sabato 6 agosto 2011I blocchi dissuasivi non vengono più effettuati. Circa un cen-tinaio di migranti, sui quasi quattrocento presenti, è ritornatoal lavoro. L’azione di padroni e caporali sembra dare i fruttisperati: ingaggio di crumiri provenienti anche dalla provinciadi Foggia; suggerimenti da parte dei caporali per alimentareconflitti tra scioperanti di diverse nazionalità; minacce direttee indirette ai protagonisti più in vista.Alcuni caporali hanno regolarizzato la posizione contrattualedei lavoratori e alzato il prezzo del cassone fino a 6 euro. Main altri casi i caporali vogliono «far pagare cara» la protesta aimigranti con un ulteriore abbassamento del prezzo del cotti-mo. Una parte dei migranti si rifiuta di tornare a lavorare aquelle condizioni. La regolarizzazione contrattuale penalizzale poche decine di persone senza documenti, alcune dellequali lavorano però sotto falso nome. I caporali, che restanosostanzialmente impuniti – incorrono in una semplice san-zione amministrativa di circa 40-50 euro -, ricominciano afarsi vedere alla Masseria.Al mattino alcuni lavoratori della Fiom-Cgil incontrano i brac-cianti in sciopero. Nel pomeriggio si svolge un’assemblea direaltà antirazziste per discutere anche delle prossime raccolte.L’assemblea è affollata da almeno cinquanta persone – caricheanche di cibo e sostegno concreto agli scioperanti – venute datutta la Puglia, ma anche dalla Basilicata, dalla Calabria, da Bo-logna e altre città del Nord. Qualcuno ricorda con forza ai lavo-ratori di Nardò che questo è un evento storico: è la prima voltache braccianti stranieri impegnati in agricoltura decidono discioperare in modo auto-organizzato per rivendicare diritti le-gati al lavoro e per spezzare il sistema del caporalato. L’assem-blea mette in luce diverse sensibilità: le Reti antirazziste pu-gliesi sostengono la necessità di organizzare nelle prossimesettimane a Bari una manifestazione regionale, allargata ad al-

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tre realtà del Sud Italia, che parli non solo dello sciopero diNardò, ma anche di quanto sta avvenendo al Cara di Bari e aimigranti «ospitati» a Manduria; altri discutono invece di comeaiutare i migranti a dare seguito allo sciopero o ad altri tipi dimobilitazione nei territori delle prossime raccolte, a Foggia, aPalazzo San Gervasio, a Rosarno.

Domenica 7 agosto 2011Il procuratore Cataldo Motta capo della Direzione distrettua-le antimafia di Lecce rilascia un’intervista sulle pagine localidi «Repubblica» (p. V) in cui esclude la presenza della crimi-nalità organizzata salentina dietro alla gestione della raccol-ta agricola, difende gli organi deputati ai controlli sul lavoroin quanto dispongono di capacità limitate, mentre afferma:«Penso piuttosto che anche i sindacati abbiano le loro re-sponsabilità, perché prima di essere difensori di altri inte-ressi, dovrebbero essere i controllori delle modalità di lavo-ro. Di recente su Nardò c’è stato un intervento sindacale maho la sensazione che sia stato fatto in ritardo, a fuochi spara-ti». Di fronte alle denunce portate avanti autonomamentedai migranti nei casi di Nardò e dei parchi del fotovoltaiconella primavera del 2011, Cataldo afferma: «Gli immigratinegli ultimi mesi ci hanno dato una grande lezione di civiltà,dimostrando che non bisogna avere paura di denunciare eche quando la denuncia diventa corale si stempera ogni ri-schio… Dovremmo imparare ad avere coraggio, prendereesempio da chi lo ha avuto pur essendo in una condizione digrande debolezza». Alla Masseria la giornata passa lenta, in attesa dell’incontro inPrefettura dell’indomani. Il numero di migranti che sono tor-nati al lavoro rimane stabile, mentre continua la solidarietà. Al-la sera una nuova assemblea auto-organizzata rilancia lo scio-pero e chiede anche a chi ha ripreso il lavoro di sospenderlo.

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Lunedì 8 agosto 2011All’incontro in Prefettura a Lecce partecipano: una delegazio-ne di braccianti, alcune associazioni datoriali, la Flai-Cgil, laRegione Puglia, la Provincia di Lecce, il Comune di Nardò, l’as-sociazione Finis Terrae e le Bsa. Gli accordi, che non vengonoperò sottoscritti né dai migranti in sciopero né dall’associazio-ne Finis Terrae né dalle Bsa, riguardano: l’istituzione di liste diprenotazione per i lavoratori immigrati stagionali a livello spe-rimentale presso il Centro per l’impiego di Nardò, dalle quali leaziende dovrebbero scegliere la forza lavoro; il trasporto dallamasseria fino ai campi, garantito gratuitamente dal Comunedi Nardò, per quanti saranno scelti dalle aziende dalle liste diprenotazione; la convocazione delle associazioni datoriali, at-traverso l’Agea, l’ente regionale che gestisce i contributi euro-pei, per orientarle all’utilizzo delle liste di prenotazione; infinela costruzione di una Commissione provinciale tripartita perl’agricoltura. La delusione dei migranti è forte e si decide di ri-manere di fronte alla Prefettura per un sit-in a oltranza. La pro-testa porta subito a un altro appuntamento in Regione per l’in-domani. Intanto una delle associazioni datoriali, la Cia, riven-dica la propria assenza all’incontro in quanto essa «nonrappresenta e né intende rappresentare presunti agricoltori,per lo più mediatori e commercianti che utilizzano in modoselvaggio i caporali e praticano lo schiavismo».In mattinata gli assessori regionali alle Politiche agricole Da-rio Stefàno e al welfare-lavoro Elena Gentile effettuano un so-pralluogo nella Masseria per capire i motivi della protesta.Alla sera Nabil Salameh del gruppo musicale Radiodervish,dal palco di Nardò dove sta tenendo un concerto, testimoniala propria vicinanza ai braccianti in lotta.Una nuova assemblea auto-organizzata alla sera alla Masse-ria discute gli scarsi risultati ottenuti e rilancia per un’ampiapartecipazione di migranti a Bari presso la Regione per l’in-

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domani. Il numero di migranti ritornato al lavoro sale, ma laprotesta ha ancora una presa piuttosto ampia nella Masseria.Gli scioperanti vogliono andare fino in fondo.

Martedì 9 agosto 2011Alle 15 l’incontro presso l’assessorato alle Politiche agricoledella Regione Puglia a Bari, a cui partecipano associazioni da-toriali, i tre sindacati confederali, alcuni assessori regionali,Bsa e Finis Terrae e una rappresentanza dei lavoratori in scio-pero, conferma gli accordi siglati alla Prefettura di Lecce ilgiorno precedente. Vengono stanziati dei fondi per il miglio-ramento delle condizioni di vita nella Masseria e la Regione siimpegna a cercare di collegare i finanziamenti regionali all’a-gricoltura con maggiori controlli sul lavoro.

Mercoledì 10 agosto 2011Nella Masseria si respira un’aria di delusione e un sentimen-to di amarezza. I migranti cominciano a iscriversi alle listeaperte al centro di collocamento di Nardò, ma i datori di lavo-ro non sono obbligati a reclutare da tale lista. Una parte sem-pre più consistente decide di tornare al lavoro sia perché lalotta sta diventando economicamente insostenibile, sia supressioni dei caporali.

Giovedì 11 agosto 2011È un giorno ad alta tensione. Si cerca di capire quali sono leprossime mosse, ma i migranti comprendono che gli spazi dimanovra sono ormai assai ristretti. Nella notte Yvan Sagnetlascia la Masseria dopo una accesa discussione con un grup-po di scioperanti. Lo sciopero è sostanzialmente finito, sebbe-ne alcune decine di persone rivendichino ancora la loroastensione dal lavoro.

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Sabato 13 agosto 2011La situazione alla Masseria rimane tesa e la chiusura è antici-pata di una decina di giorni. Il sindaco di Nardò in visita pro-mette una certa attenzione ai bisogni dei migranti, in partico-lare a quanti necessitano di andarsene e sono senza un soldo. Il governo vara un decreto d’urgenza (n. 138) nel quale intro-duce all’articolo 12 il reato di «intermediazione illecita e sfrut-tamento del lavoro»: per i braccianti di Nardò è un riconosci-mento della lotta. I caporali però continuano indisturbati amuoversi dentro e fuori il campo, nonostante la decina di de-nunce che gli stessi migranti hanno risolutamente presenta-to in questi giorni alle forze dell’ordine.Nel frattempo un’impresa assume regolarmente una decinadi lavoratori dalle liste di prenotazione, applicando la tariffaoraria di 5,92 euro e mettendo a disposizione dei lavoratoriun piccolo alloggio.Nella stessa giornata, alcuni membri delle Bsa e una delega-zione dei migranti in sciopero partecipano a Palazzo San Ger-vasio (PZ) a un’assemblea che riunisce varie realtà associativeche si occupano del lavoro dei migranti in agricoltura in variterritori dell’Italia meridionale (Osservatorio Migranti Basili-cata, Osservatorio Migranti Africalabria Rosarno, EquoSud,Assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma), ma an-che associazioni contadine, osservatori sulle migrazioni, cen-tri sociali, e una rappresentanza della Cgil. L’assemblea si po-ne l’obiettivo di costruire una rete tra queste realtà per daremaggiore forza alle lotte dei migranti in agricoltura, per con-nettere le mobilitazioni nei vari territori e per costruire unalotta contro la Grande distribuzione organizzata. Una secon-da assemblea di questo coordinamento si terrà a Castelvoltur-no (Caserta) l’11 settembre; la rete parteciperà con un propriospezzone alla manifestazione di Roma del 15 ottobre e il 16 ot-tobre terrà una terza assemblea nazionale, aperta anche ad as-

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sociazioni contadine e gruppi di acquisto solidale del centro-nord Italia.

Mercoledì 17 agosto 2011Altri otto lavoratori vengono assunti da due medie aziendeche lavorano ortaggi. Queste assunzioni non avvengono peròattraverso la lista di prenotazione.

Giovedì 18 agosto 2011Prima del concerto al Parco Gondar di Gallipoli, il cantanteCaparezza incontra un gruppo di lavoratori migranti e gli atti-visti della Masseria Boncuri. Poi, a sostegno della campagnanazionale «Ingaggiami. Contro il lavoro nero», indossa, pertutto il concerto, la t-shirt con impresso lo slogan.

Sabato 20 agosto Dal palco della festa «LiberaGrecìa» di Zollino (Lecce) primadell’inizio del concerto della Banda Bassotti un giovane tuni-sino racconta la lotta dei braccianti migranti.Intanto si decide di prorogare senza clamori la chiusura delcampo della Masseria poiché vi sono ancora molti migranti.Gli aiuti per il trasporto dei migranti fino alle loro destinazio-ni offerti dal sindaco non vengono forniti e tra gli immigraticresce la tensione.Contemporaneamente, alla Masseria Boncuri diventano visi-bili gli effetti della capacità di auto-organizzazione cresciutadurante lo sciopero. Alcuni braccianti, non pagati per il lorolavoro, sequestrano le chiavi del camioncino di un caporale e,una volta bloccato, chiamano i carabinieri. Le forze dell’ordi-ne prendono in consegna il caporale e lo costringono a pagarei braccianti. Il pagamento avviene negli uffici della Masseriaalla presenza dei volontari, su esplicita richiesta dei braccian-ti. La contraddizione è evidente: i carabinieri non informano i

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lavoratori del loro diritto a denunciare il caporale; saranno ivolontari a farlo, mentre costringono il caporale a pagare tuttiallo stesso modo.

Mercoledì 24 agosto 2011Yvan Sagnet ritorna alla Masseria e cerca di ricostituire ilgruppo iniziale dello sciopero per provare ad estenderlo nelleprossime raccolte.A Nardò si svolge un concerto organizzato dal Comune, dallaFlai-Cgil e da alcune associazioni e artisti pugliesi dal titolo«NO CAP – Artisti pugliesi contro lavoro nero e caporalato» acui partecipano Eltdown, Mentaly Doof, Aban, Laїoung, San-tu Pietru cu tutte le chiai, Tonino Zurlo, Eugenio Bennato eMohammed Ezzaime El Alaoui, Sonia Totaro, Ezio Lambia-se. I proventi del concerto andranno a favore dei migranti insciopero. Il 13 ottobre, presso la sede Flai-Cgil di Roma, in unaconferenza stampa verrà presentato il Cd-Dvd «NO CAP – Ar-tisti contro il lavoro nero e il caporalato».

Giovedì 25 agosto 2011A Bari si tiene la manifestazione regionale antirazzista (controil razzismo, le discriminazioni e la precarietà) che era stata lan-ciata il 6 agosto alla Masseria. Al corteo partecipano circa 500persone. Negli slogan e negli interventi vi è un forte sostegno aibraccianti di Nardò e alle loro rivendicazioni, contro il capora-lato ed il lavoro nero, per assunzioni regolari, salari equi e il ri-spetto del contratto collettivo nazionale di lavoro. Un gruppo diuna cinquantina di migranti di Nardò partecipa all’iniziativa.

Venerdì 26 agosto 2011Una delegazione degli scioperanti si reca nel «ghetto» di Ri-gnano Garganico (una baraccopoli abitata da centinaia dibraccianti stagionali africani) nel foggiano per un’assemblea.

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Buona l’accoglienza, sebbene la situazione sia molto più com-plicata e dispersa rispetto alla Masseria Boncuri.

Sabato 27 agosto 2011A Melpignano al grande concerto finale della Notte della Ta-ranta molti musicisti e tecnici indossano magliette con l’ade-sivo «No Cap. Artisti pugliesi contro il caporalato». Alle22.40, di fronte ai 100 mila presenti, Yvan Sagnet, il giovanecamerunense leader dello sciopero, insieme ad altri tre brac-cianti, sale sul palco e lancia un messaggio di denuncia con-tro lo sfruttamento dei braccianti. Il discorso di Yvan Sagnet èseguito con grande attenzione dal pubblico dei «tarantolati».L’edizione 2011 della Notte della Taranta è dedicata alla me-moria di Uccio Aloisi, una delle voci storiche della pizzica sa-lentina, scomparso nell’ottobre scorso. Aloisi, da giovane,aveva partecipato, come bracciante, all’occupazione delle ter-re dell’Arneo.L’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema, attualmentedeputato del Pd, chiede di incontrare una delegazione degliscioperanti di Boncuri. In seguito, secondo la cronaca del sito«20 centesimi», D’Alema visita il banchetto di sostegno allalotta dei migranti allestito dalla Flai-Cgil di Lecce e lascia «uncontributo, comunicando anche il suo indirizzo mail per rice-vere una testimonianza scritta sui fatti di Boncuri. E promet-terà di occuparsene» (www.20centesimi.it).

Mercoledì 31 agosto 2011Il campo dovrebbe ufficialmente chiudere, ma circa 150 mi-granti sono ancora alloggiati. I braccianti non hanno soldi perandarsene; il Comune di Nardò offre 30 euro a testa. La Flai-Cgil della Puglia scrive una lettera aperta a Nichi Ven-dola per prorogare il servizio di accoglienza presso il campodella Masseria Boncuri e completare gli accordi sottoscritti

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qualche settimana prima. Anche Teresa Bellanova, deputatadel Pd, scrive a Vendola chiedendo un impegno più incisivoper affrontare l’anno prossimo le questioni legate alla presen-za della manodopera immigrata. Ft e Bsa nel giorno della chiusura del campo chiedono che l’e-ventuale prolungamento delle attività del campo sia a caricodelle aziende per rompere lo schema «spese pubbliche, profittoprivato» (www.controlacrisi.org/notizia/Lavoro/2011/9/1/15420-DALLA-MASSERIA-BONCURI:-E%27-ORA-CHE-LE-AZIENDE-AGRICOLE/)

Giovedì 1 settembre 2011Il sito di informazione «20 centesimi» pubblica un video incui alcuni lavoratori accusano di razzismo i volontari dell’as-sociazione Finis Terrae e delle Bsa. Già il primo di agosto erapalese il disprezzo che «20 centesimi» aveva rispetto al lavorosvolto dai volontari: «La masseria Boncuri, a Nardò, ad oggi, èpoco più di uno slum, di una bidonville… La nostra visita alloslum di Boncuri viene interrotta con discrezione da qualchevolontario che ci avvisa che gli immigrati non vogliono esserefotografati. In realtà molti ci invitano a fotografare, più che lo-ro, il campo. Poi i volontari ci spiegano quello che fanno. Oche provano a fare in questo disastro dell’accoglienza che èBoncuri». In un comunicato stampa Ft e Bsa chiedono al Prefetto diconvocare le aziende che utilizzano lavoratori stranieri per or-ganizzare un’accoglienza a carico delle aziende stesse.

Venerdì 2 Settembre In un comunicato stampa Ft e Bsa invitano tutti i soggetti socia-li a prendere posizione sulla questione del coinvolgimento del-le aziende nell’accoglienza, poiché le stesse beneficiano del la-voro svolto dai braccianti stranieri. Si denuncia la lobby delle

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aziende ed il probabile intreccio con la politica (www.controla-crisi.org/notizia/Lavoro/2011/9/2/15446-MASSERIA-BON-CURI:-BSA/FT-CHIESTO-INTERVENTO-PREFETTO-PER/)

Sabato 3 SettembreUn caporale tunisino minaccia di morte la Presidente di FinisTerrae e il coordinatore del progetto di Boncuri. Ft denuncial’accaduto e convoca per il giorno 5 Settembre una conferenzastampa alla Masseria Boncuri.

Martedì 6 settembre 2011Il campo della Masseria Boncuri chiude. I pochi migranti ri-masti se ne vanno.

Mercoledì 7 settembre 2011L’assessore regionale Elena Gentile dichiara che verranno at-tivate liste di prenotazione per il reclutamento della manodo-pera in agricoltura nei Centri per l’impiego di tutte le provin-ce pugliesi. Per le aziende che assumeranno i lavoratori attra-verso le liste di prenotazione sono previsti degli incentivi.

Giovedì 22 SettembreAlla Prefettura di Lecce si svolge una riunione per analizzare lasituazione; il tavolo di discussione è convocato dalla neo pre-fetto Giuliana Perrotta. Il tavolo ha luogo grazie alla relazionedi Ft di luglio. Al tavolo è presente il procuratore della Repub-blica Cataldo Motta, oltre a Finis Terrae e alle rappresentanzedatoriali e sindacali, insieme a tutti i rappresentanti degli orga-ni di Pubblica sicurezza (Carabinieri, Polizia, Guardia di Fi-nanza). Il tavolo istituisce una conferenza provinciale perma-nente sul tema. Al momento non è più stato riconvocato.

Gli autori

Bsa (Brigate di solidarietà attiva): federazione di associazionidislocate sul territorio nazionale. Nascono nel 2009 dal ter-remoto dell’Aquila. Hanno gestito il campo di Tempera per lapopolazione abruzzese (in contrapposizione per principiispiratori a quelli della protezione civile). Nei diversi territo-ri di appartenenza portano avanti progetti di auto organizza-zione dal basso ad ampio raggio dal sostegno delle lotte deilavoratori disoccupati o in cassa integrazione nelle fabbriche(come la Frattini e l’Eutelia) all’accoglienza dei tunisini e del-le popolazioni subshariane richiedenti asilo (Marzo 2011). Lagestione della Masserie Boncuri e la campagna «INGAG-GIAMI CONTRO IL LAVORO NERO» è uno dei progetti na-zionali sviluppati negli ultimi due anni.

Gianluca Nigro: operatore sociale. È membro dell’associa-zione Finis Terrae Onlus. Responsabile del ProgettoA.M.I.C.I della Masseria Boncuri di Nardò dal 2010. Ha pub-blicato alcuni saggi sul lavoro migrante in agricoltura e suldiritto d’asilo in Italia. Da circa quindici anni si occupa di in-terventi sul tema dell’immigrazione.

Mimmo Perrotta: è docente a contratto di Comunicazione

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interculturale e Sociologia dell’organizzazione presso l’Uni-versità di Bergamo. E’ autore del volume Vite in cantiere. Mi-grazione e lavoro dei rumeni in Italia (Il Mulino, 2011).

Devi Sacchetto: è ricercatore di Sociologia del lavoro pressola Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Tra isuoi lavori recenti, Ai margini dell’Ue. Spostamenti e insedia-menti a Oriente (a cura di, Carocci 2011), Fabbriche galleggian-ti. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai (Jaca Book2009), il volume curato con Massimiliano Tomba, La lungaaccumulazione originaria. Politica  e lavoro nel mercato mon-diale (ombre corte, 2008).

Yvan Pierr Jean Sagnet: È nato il 4 aprile del 1985 a Douala(Camerun). Nell’agosto 2008 arriva in Italia e si iscrive al po-litecnico di Torino per studiare Ingegneria delle Telecomuni-cazioni. Per sostenere le spese delle tasse universitarie cer-cherà lavoro nelle campagne pugliesi, sarà uno dei portavocedurante lo sciopero alla Masseria Boncuri nell’agosto 2011.

Introduzione 5

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto«Un piccolo sentimento di vittoria». Notesullo sciopero di Nardò 9

Yvan SagnetTutte le cose belle si ottengono lottando 56

Gianluca NigroLavori in corso. Pratiche e ideeper la liberazione del lavoro migrante 76

Brigate di Solidarietà attivaMasseria Boncuri: sciopero e contraddizioni 101

Cronologia: lo sciopero e le sue dinamiche 148

Indice

finito di stampare nel mese di gennaio 2012presso la tipografia Iacobelli

per conto delle edizioni DeriveApprodi


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