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Incanto in Valnerina. L'abbazia di San Pietro in Valle a Ferentillo (Tr). MEDIOEVO n. 229 (febbraio...

Date post: 23-Nov-2023
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Ferentillo (Terni). L’abbazia di S. Pietro in Valle, la cui prima fondazione viene attribuita, su basi perlopiú leggendarie, a due eremiti di origine orientale, Giovanni e Lazzaro, che vi avrebbero posto mano nel VI sec. Nelle sue forme attuali, il complesso è l’esito di numerosi interventi, ma è comunque evidente la forte impronta romanica. Incanto in Valnerina di Elena Percivaldi MEDIOEVO NASCOSTO FERENTILLO
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92 febbraio MEDIOEVO

Ferentillo (Terni). L’abbazia di S. Pietro in Valle, la cui prima fondazione viene attribuita, su basi perlopiú leggendarie, a due eremiti di origine orientale, Giovanni e Lazzaro, che vi avrebbero posto mano nel VI sec. Nelle sue forme attuali, il complesso è l’esito di numerosi interventi, ma è comunque evidente la forte impronta romanica.

Incanto in Valnerina

di Elena Percivaldi

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U n campanile quadrato spunta da un mare di cipressi e ulivi, al termine di una stradina che si snoda tortuosa fra rare casupole. Siamo a

Ferentillo, in provincia di Terni, nel cuore della Val-nerina. Il gioiello romanico adagiato nel verde della collina, a 360 m sul livello del mare, è S. Pietro in Valle, una delle piú belle abbazie dell’Umbria. La sua posi-zione discosta rispetto ai grandi e piú popolari itinera-ri della spiritualità e del turismo, pur a poca distanza dalle Cascate delle Marmore, lo ha forse penalizzato, ma la visita al complesso non delude: oltre a pregevoli esempi di scultura altomedievale e a un importante ci-clo di affreschi duecentesco, S. Pietro conserva infatti la sepoltura degli eremiti che la fondarono e dei duchi longobardi di Spoleto che la dotarono di terre e doni.

Le informazioni sull’origine dell’abbazia sono contraddittorie e, come spesso accade, avvolte nella leggenda. Nella sua forma attuale, è frutto di ripetu-ti interventi. Sembra certo che sia stata edificata sui resti di un precedente edificio – a sua volta costruito nei pressi di una piú antica villa romana o santuario pagano – fondato nel VI secolo da due eremiti siriaci, Giovanni e Lazzaro. Costoro erano giunti in Italia in-sieme ad altri trecento connazionali dall’Oriente per sfuggire al caos creatosi in seguito allo scisma acacia-no e alle conseguenti dispute teologiche (il conflitto prende nome da Acacio, patriarca di Costantinopoli, il quale collaborò conl’imperatore Zenone alla redazio-ne dell’Enotico [482], un decreto emanato dal sovra-no con l’intento di conciliare la dottrina cattolica con quella dei monofisiti circa la duplice natura, divina e umana, in Cristo; l’iniziativa, condannata da papa Fe-lice III nel 485, provocò uno scisma della durata di 34 anni, n.d.r.), e si erano posti sotto la protezione di papa Ormisda (514-523).

Il sogno di FaroaldoAlcuni erano poi partiti alla ricerca di luoghi nei quali ritirarsi per condurre vita eremitica, e, tra questi, an-che Lazzaro e il cugino Giovanni. Dopo aver predica-to a lungo nello Spoletino, intorno al 535 decisero di stabilirsi in una spelonca alle falde del monte Solen-ne, poco lontano dal fiume Nera, che solcava la valle. Qui vissero in quiete e preghiera per decenni, finché, nel 575, Giovanni morí. Resosi conto che, ormai ultra-ottantenne, non avrebbe piú potuto badare da solo a se stesso, Lazzaro pregò allora san Pietro di aiutarlo. Vuole la leggenda che l’apostolo fosse apparso in so-gno al duca di Spoleto, Faroaldo I (ma una confutazio-ne è riportata in vari testi e in particolare negli studi di Ansano Fabbi), per esortarlo a cercare l’eremita e a costruire per lui un monastero nel quale pregare insie-me ai suoi discepoli.

Secondo la leggenda, alla metà del VI secolo, 300 monaci orientali lasciarono la propria terra per scampare al conflitto innescato dallo scisma di Acacio e trovarono rifugio in Italia. Due di loro, Giovanni e Lazzaro, scelsero l’Umbria per fondarvi un’abbazia, che, da una visione ricevuta in sogno, venne intitolata al principe degli apostoli: nasceva cosí S. Pietro in Valle, uno dei gioielli dell’arte medievale, custodito dallo splendido scrigno verde di una delle valli piú belle del Centro Italia

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colare indipendenza del ducato. Una scelta, quella del duca, condivisa dalla moglie Adelasia, alla quale viene attribuita la fondazione del convento femminile di S. Maria della Consolazione, nel castello della vicina Sam-bucheto (frazione di Ferentillo), dove vent’anni dopo passò a miglior vita.

Ma c’è un piccolo «giallo». Gran parte della tradizio-ne storiografica attribuisce a Faroaldo II non soltanto l’ampliamento, ma anche la fondazione vera e propria dell’abbazia, che invece, come si è visto, sarebbe di oltre cent’anni anteriore. Perché? Sempre Ansano Fabbi, e con lui altri storici locali, sostiene che la memoria di Fa-roaldo II, già duca di Spoleto, poi monaco benedettino e addirittura santo festeggiato il 19 febbraio, sia stata confusa con quella del predecessore Faroaldo I († 591), in quanto il culto di Faroaldo II cade il giorno successivo a quello dei santi eremiti.

Poco tempo dopo, recatosi sul posto forse per una battuta di caccia, il duca incontrò Lazzaro e, memore del sogno, ordinò la costruzione, poco lontano dalla grotta dell’eremita, del nucleo della prima abbazia. La dedica, ovviamente, fu per san Pietro. In breve tempo il nuovo centro religioso divenne un punto di riferimento per tutto il territorio. Organizzata secondo la Regola be-nedettina, la comunità fu guidata per cinque anni dal santo eremita ora divenuto abate. Lazzaro spirò nel 580 e il suo posto fu preso dal discepolo Giacomo. Tutti e tre i «fondatori» furono sepolti in altrettanti sarcofagi posti sotto l’altare della chiesa, laddove un tempo sorgeva con ogni probabilità un’ara pagana.

Abdicazione o deposizione?Passò un secolo e mezzo e il complesso, ormai abitato da numerosi monaci, si legò sempre piú ai duchi longobar-di di Spoleto, che lo dotarono di beni e ne fecero un cen-tro di potere di notevole importanza. La dimostrazione piú chiara di questo processo è data dalla scelta di Faro-aldo II, già benefattore dell’abbazia di Farfa, di ritirarsi proprio a S. Pietro quando, nel 720, rinunciò al trono o, secondo un’altra versione, venne deposto dal figlio Trasamondo II, che gli si era ribellato per la debolezza mostrata nei confronti della politica egemonica condot-ta da re Liutprando in Italia centrale a scapito della se-

Foligno

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ArezzoCittà di Castello

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eps già corretto, ma va sistemata la scritta Ferentillo con il doppio colore, grazie

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anch’egli sotto l’altare della piccola chiesa che, da allo-ra, ospitò le tombe di altri duchi susseguitisi in quegli anni turbolenti. Per quanto carente, la documentazione consente di supporre che vi fu deposto Trasamondo II, cacciato a sua volta e morto nel 765, dopo due effimeri ritorni al potere. E, probabilmente, anche Ilderico Dagi-leopa, ucciso proprio da Trasamondo dopo che fu nomi-nato duca al suo posto da parte di Liutprando: ancora oggi la chiesetta conserva infatti un pluteo commissio-nato da Ilderico all’artigiano Urso nel breve periodo in cui resse il potere, come si deduce dall’iscrizione dedica-toria (vedi box alle pp. 98-99).

Nei decenni seguenti l’abbazia ospitò duchi e potenti e accrebbe la sua influenza e la sua ricchezza, come mo-stra un documento dell’840 nel quale Lotario sottrasse i cospicui beni ai monaci per conferirli al vescovo Si-gualdo di Spoleto (sarebbero stati restituiti dal succes-

Faroaldo I sarebbe quindi il primo «fondatore» leg-gendario del monastero, mentre Faroaldo II, che vi si ritirò, lo «rifondò» e, con donazioni e restauri, ebbe un ruolo determinante nel suo sviluppo. Quanto le due fi-gure fossero legate è dimostrato anche da un interes-sante aneddoto. Il padre di Faroaldo II, Trasamondo, era conte di Capua e fu insediato a Spoleto da re Grimo-aldo, suo suocero, nel 663: sradicato e proveniente da un ducato lontano, dove era stato imposto dal sovrano, Trasamondo pensò di ingraziarsi i sudditi dando al figlio il nome del primo (e venerato) duca longobardo e ricol-legandosi cosí alle piú antiche e gloriose tradizioni del territorio che avrebbe dovuto governare.

Un’epoca turbolentaDopo averne restaurato e allargato gli edifici, Faroaldo II morí a S. Pietro in Valle intorno nel 728 e fu sepolto

Dove e quandoChiesa abbaziale diS. Pietro in Vallevia dell’Abbazia,località Macenano, Ferentillo (Terni) Orario 1° apr-30 set: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-18,00;1-15 ott: tutti i giorni, 10,00-13,00e 15,00-17,00;16 ott-28 feb: sabato e domenica,10,00-13,00 e 15,00-16,30;1-31 mar: sabato e domenica,10,00-13,00 e 15,00-17,00;

Museo delle Mummie(chiesa di S. Stefano)via della Rocca,località Precetto, Ferentillo (Terni)Orario 1° apr-30 set: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 15,00-19,30;1-31 ott: tutti i giorni, 10,00-13,00e 15,00-18,00;1° nov-28 feb: tutti i giorni,10,00-13,00 e 15,00-17,00;1-31 mar: tutti i giorni,10,00-13,00 e 15,00-18,00;

Info tel. 328 6864226oppure 335 6543008;e-mail: [email protected];www.mummiediferentillo.it

Il chiostro dell’abbazia di S. Pietro in Valle.

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A sinistra pianta della chiesa abbaziale con l’annesso chiostro.In basso, a sinistra l’interno della chiesa. Sulle pareti della navata si conservano resti del ciclo affrescato con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento.

sore Luitario). Un’ascesa bruscamente interrotta, però, negli ultimi anni del IX secolo quando il complesso fu saccheggiato dai Saraceni. Nel 898 dopo ben sette anni di assedio, Farfa subí la stessa sorte: ma mentre il mo-nastero sabino fu prontamente ricostruito, S. Pietro in Valle rimase in rovina per un secolo.

Si dovette infatti attendere il 996, quando l’impera-tore Ottone III di Sassonia, in occasione del suo arrivo a Roma per cingere la corona imperiale, diede ordine di restaurare le chiese e i monasteri devastati dalle in-cursioni. L’abbazia di Ferentillo riottenne cosí non so-lo il pieno possesso dei propri beni ma anche cospicui fondi per la ricostruzione. Secondo l’erudito Ludovico Jacobilli (1598-1664), che per primo raccolse e studiò

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abati – sulle pareti o ai lati dell’altare, senza piú alcun rapporto con la collocazione originaria. Alla ristruttura-zione e al successivo ampliamento appartengono anche il chiostro, gli ambienti monastici e il campanile a pian-ta quadrata che sembra richiamare moduli stilistici in voga nel Mille a Roma.

Nei decenni successivi, cosí ripristinata, S. Pietro poté espandere i propri possedimenti fino all’alto Lazio e a Roma, finendo per attirare l’attenzione dei vescovi spoletini, i quali cercarono a piú riprese di assumerne il controllo. Nel 1190, i monaci dovettero quindi cede-re al Comune alcuni castelli fortificati in loro possesso, riuscendo a mantenervi la sola cura delle anime. Con il passaggio del ducato di Spoleto allo Stato pontificio (dal 1198 e poi, definitivamente, dal 1228), l’abbazia passò

i documenti sulla storia religiosa dell’Umbria, il mona-stero era cosí malridotto che l’abate dovette far demolire buona parte della costruzione. Durante i lavori furono ritrovati, sotto l’altare, i corpi degli eremiti e di Faroaldo II e si provvide a dividere i primi dal secondo, ponendoli in due deposizioni separate. Nonostante l’illustre patro-nato, la riedificazione procedette a rilento e, nel 1016, il successore di Ottone III, Enrico II, dovette far pervenire all’abate Ruitprando nuovi fondi per portare a termine il restauro.

Ristrutturazioni e ampliamentiProprio a quest’epoca risale buona parte dell’aspetto attuale del complesso, che è dunque in stile romanico, mentre scarsissime sono le tracce della chiesa preceden-te: le scarne testimonianze longobarde e altomedievali sono oggi disposte – insieme a quattro sarcofagi romani del II secolo, da attribuire per stile a maestranze orien-tali e riutilizzati per ospitare le spoglie dei duchi e degli

In basso, sulle due pagine il sarcofago di Faroaldo II, il duca longobardo che viene considerato il «rifondatore» dell’abbazia di S. Pietro in Valle, nella quale morí nel 728.

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La lapide di Ursus

La lastra anteriore di marmo dell’altare della chiesetta conserva una scena originale. La didascalia che corre sui margini superiore e sinistro è la seguente: «+ HILDERICVS DAGILEOPA + IN HONORE(m) / S(an)C(t)I PETRI ET AMORE S(an)C(t)I LEO(nis) / ET S(an)C(t)I GRIGORII / PRO REMEDIO A(ni)M(ae)». Si tratta quindi del pluteo voluto dal duca Ilderico Dagileopa, che resse il ducato di Spoleto tra il 739 e il 742 circa. Decorata con motivi a girandola e a rosa (probabili simboli solari), la lastra presenta, al centro, ai piedi di tre croci (il Golgotha? O forse tre croci astili? O ancora, tre flabelli, ventagli mutuati dall’uso orientale e utilizzati durante la liturgia?), due figure maschili barbute, con copricapo aureolato e gonnellino (o tunica).Mentre l’uomo di destra non presenta particolari caratterizzazioni, quello di sinistra impugna un oggetto appuntito e tagliente, sopra e attorno al quale campeggia la scritta «VRSVS MAGESTER FECIT». Chi e cosa

rappresentano? Entrambi sono ritratti in atteggiamento orante e con le braccia alzate, il che fa pensare che siano stati immortalati in un momento rituale: probabilmente il battesimo, se si considerano anche le due colombe e la coppa poste proprio sopra la testa della figura a destra. Il rito avveniva a quell’epoca ancora per immersione.A suggerire l’idea è anche il confronto con altre immagini coeve, che rappresentano scene di battesimo: cosí, per esempio, il cofanetto in osso di san Ludger a Werden, che il monaco, evangelizzatore dei Frisoni e primo vescovo di Münster, usava come altare portatile (e la cui ordinazione episcopale è illustrata con la stessa posizione in un codice del XII secolo conservato alla Biblioteca di Stato di Berlino). E cosí anche la teoria di figure scolpite sul sarcofago del vescovo Agilberto del Wessex conservato nella cripta dell’abbazia francese di Saint-Paul de Jouarre (ultimo quarto del VII secolo). Si è anche pensato che la scena ritragga il sacrificio di Isacco: quindi il

personaggio a sinistra sarebbe Abramo che brandisce il coltello, e quello di destra, appunto, Isacco.Un’altra possibilità è che i due raffigurino il committente della lastra, ossia il duca Ilderico, a destra, e l’esecutore, ovvero Urso, a sinistra, con quest’ultimo che si ritrae con lo scalpello in mano e «firma» l’opera, rivendicando orgogliosamente la paternità del lavoro. Una recente indagine di Donatella Scortecci ha però identificato nella prima figura il duca Ilderico con in mano lo scramasax, classico «attributo militare» longobardo, e, nella seconda, lo stesso duca che spogliatosi dell’arma riceve il battesimo e diventa monaco in abbazia. E oggi questa sembra l’ipotesi più accreditata.Nell’Alto Medioevo, la presenza del nome dell’artista è un evento raro: infatti, nella quasi totalità dei casi, artefici e maestranze sono rimasti anonimi. Le testimonianze giunte integre si contano sulle dita di una mano: oltre al problematico (per via della datazione) «Adam magister»,

Quel ritratto in cerca di un’identità

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che compare su una semicolonnina a intreccio del IX secolo in S. Ambrogio di Milano, sappiamo di un altro «magister Ursus», immortalato con gli allievi Iuvintinus e Iuvianus su una colonnina del ciborio della pieva di S. Giorgio in Valpolicella (Verona) e di un «magister Johannes», che compare sulla lastra di Cumiano nell’abbazia di Bobbio (Piacenza). C’è poi il «magister Gennarius», che firma la lastra tombale del venerabile Gudiris nella chiesa di Santa Croce a Savigliano (Cuneo). Infine, un certo Paganus (uno stuccatore, probabilmente il capomastro), che incise il suo nome vicino a una finestra del Tempietto longobardo di Cividale del Friuli (vedi «Medioevo» n. 217, febbraio 2015).

Nella pagina accanto la lastra anteriore dell’altare della chiesa abbaziale, decorata con motivi ornamentali di varia natura e che, al centro, presenta una scena in cui compare anche la firma dell’artista che la realizzò: «Magister Ursus» (vedi foto in alto).

sotto il controllo della basilica di S. Giovanni in Latera-no, a Roma, grazie al cui patrocinio furono intrapresi ulteriori restauri e realizzato il ciclo di affreschi della navata (ma va detto che altri retrodatano le pitture alla metà del XII secolo).

Questi lavori coincisero con quelli intrapresi per di-fendere il monastero nei prospicienti insediamenti di Matterella e Precetto, anch’essi parte dell’odierna Fe-rentillo: le due torri di avvistamento già presenti furono fortificate e dotate di cinta muraria in modo che, grazie alla loro posizione a strapiombo, potessero tenere age-volmente sotto controllo gli spostamenti lungo la valle del fiume Nera ed evitare improvvisi attacchi. Tuttavia, l’aumento progressivo del traffico a fondovalle compor-tò il graduale abbandono degli abitati in collina e, di conseguenza, lo sviluppo del borgo moderno intorno alla duecentesca pieve di S. Maria.

Sempre piú isolata, S. Pietro viene affidata nel 1234 all’abbazia di Chiaravalle di Fiastra (situata nei pressi di Tolentino), di obbedienza cistercense: scelta che segnò l’inizio di un lungo periodo di decadenza. Meno di un secolo piú tardi, il 3 agosto 1303, a causa della vita non proprio irreprensibile condotta dai monaci, papa Boni-facio VIII decideva di assegnarla in via definitiva al Ca-pitolo Lateranense. In seguito l’abbazia passò dapprima sotto il controllo della famiglia Cybo, a cui fu concessa in feudo da papa Sisto IV nel 1477, e poi degli Ancajani, che la tennero come commenda fino al 1850, quando ne divennero proprietari.

Agli inizi del secolo scorso l’ultima discendente degli Ancajani cedette la chiesetta al parroco di Ferentillo e vendette il convento a Ermete Costanzi. Oggi la famiglia Costanzi, attuale proprietaria del sito, dopo un interven-to di ristrutturazione ultimato nel 1998, ha trasformato il complesso in una raffinata residenza d’epoca. Ma se le celle un tempo occupate dai monaci sono diventate il ricovero ideale per turisti in cerca di riposo e tranquilli-tà e non sono dunque visitabili, la chiesetta, con i suoi affreschi e le sue tombe illustri, è meta di un turismo consapevole e rispettoso del suo passato nobile e plu-risecolare. E grazie agli eventi, alle mostre e ai conve-gni che ospita, rivendica oggi il ruolo di alfiere culturale della Valnerina e rappresenta lo scrigno piú autentico e suggestivo delle sue memorie.

Visitiamo insiemeDella prima costruzione del VII secolo, a croce latina con una grande aula longitudinale, oggi non rimane praticamente nulla. Saccheggiato dai Saraceni alla fine del IX secolo, il complesso era ridotto a poco piú di un rudere quando, un secolo dopo, fu iniziato il restauro su impulso della corona imperiale. Ciò che ancora si conservava venne abbattuto, le reliquie di Faroaldo e dei primi abati furono divise in due sepolcri distinti e

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A sinistra particolare del registro mediano della parete destra nel quale si vede il ritorno dei Magi ai loro paesi dopo avere reso omaggio al Bambino. Nella pagina accanto Madonna in trono e due santi, affresco dell’abisde sinistra della chiesa abbaziale. 1452. Alla stessa epoca risalgono altri dipinti murali, realizzati da un artista noto come maestro di Eggi, attivo nello Spoletino e nel Folignate.Qui accanto la parete sinistra.Nel registro mediano si susseguono: il Sacrificio di Abele e Caino, Noè davanti all’eterno e la Costruzione dell’arca.

scolpiti commissionata dal duca Ilderico: le lastre super-stiti si trovano ora disposte attorno all’altare.

L’attuale facciata risale alla fine del Quattrocento e fu voluta dall’abate Dario Ancajani (1478-1503), che arricchí l’interno con altre opere d’arte e vi impose lo stemma di famiglia. Tra gli elementi piú interessanti conservati all’interno, oltre alle testimonianze romane e longobarde murate in una sorta di lapidario sulle pareti, va senz’altro annoverato l’imponente ciclo di affreschi del XII secolo raffigurante, nella navata, scene dall’An-

la chiesa ricostruita con pianta a croce commissa (o a tau) secondo modelli in vigore Oltralpe nella seconda metà del Mille (per esempio nel secondo ampliamento di Cluny e a St. Michael di Hildesheim).

A questa età risalgono anche le sculture dei santi Pietro e Paolo che ornano il portale sud dell’edificio. Del ciborio che doveva trovarsi sopra l’altare, probabilmen-te caduto in rovina nel secolo successivo al danneggia-mento, resta solo qualche frammento arcuato, cosí co-me del tutto perduta è la struttura decorata con plutei

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tico e dal Nuovo Testamento, dalla Creazione fino alla Morte di Cristo. Disposte su tre diversi registri delimitati da finte architetture, le scene furono eseguite da due artisti (rimasti anonimi) in due tempi diversi: dapprima l’Antico, poi il Nuovo Testamento.

Un grande cantiere pittoricoLa storica dell’arte Giulia Tamanti ha voluto riconoscer-vi gli affreschi romanici piú antichi dell’Umbria, pro-dotti da quello che può essere considerato il cantiere pittorico piú grande dell’Umbria fino alla costruzione della basilica di S. Francesco di Assisi. Di piú, per via dell’«introduzione del movimento, del naturalismo, del-la prospettiva» e per l’abolizione delle proporzioni gerar-chiche il ciclo rappresenterebbe un autentico preludio alle innovazioni stilistiche del XIII secolo e sarebbe stato studiato da Giotto in persona.

Il ciclo rimase occultato sotto uno strato di intonaco fino al 1869, quando fu riscoperto e liberato dalla scial-batura. Le scene sottostanti, fortunatamente, erano quasi tutte abbastanza ben conservate, per quanto ri-guarda l’Antico Testamento, mentre le prime del Nuovo erano andate perdute. Studi stilistici, rinvigoriti in oc-casione dei recenti restauri, hanno ribadito la vicinanza degli esecutori alla scuola romana, in particolare ai ma-estri impegnati nella decorazione di S. Giovanni a Porta Latina (ciclo datato al 1191 circa).

La chiesetta conserva anche altri affreschi piú tar-di (XV e XVI secolo) uno dei quali – nel transetto, a

le mummie

Il gobbo, il soldato e i pellegriniPoco lontano dall’abbazia di S. Pietro in Valle, nel centro del paese (località Precetto), la cripta della parrochiale diS. Stefano ospita una sorprendente serie di mummie naturali.Il fenomeno fu scoperto quando, applicando le disposizioni previste dall’editto di Saint-Cloud (1804), anche a Ferentillo si dovette provvedere a dar sepoltura ai morti fuori dal paese e non piú, come fino ad allora era avvenuto, nelle chiese.Nello sgomberare la cripta ci si accorse che molti corpi dei defunti si conservavano ancora (per alcuni, abiti compresi): la causa fu attribuita (sebbene non vi sia alcuna certezza scientifica a riguardo) alla presenza di un microrganismo in grado di disidratare i tessuti. Le quindici mummie conservate appartengono

Appuntamento in abbazia

«Il sogno di Faroaldo. L’abbazia di San Pietro in Valle tra realtà e leggenda»: è questo il titolo del convegno in programma sabato 6 febbraio a Ferentillo, nell’abbazia di S. Pietro in Valle, in occasione del servizio che «Medioevo» dedica al monumento. L’incontro, organizzato nella Sala capitolare dal Gruppo Archeologico Naharki Valnerina con inizio alle ore 11,00, darà modo di rileggere la storia dell’abbazia legata al duca longobardo Faroaldo, ma anche di fare il punto sulle ultime scoperte, in particolare sulla nuova interpretazione della cosiddetta «lapide di Ursus», uno dei piú celebri manufatti conservati nella chiesetta.

Dopo il saluto del sindaco di Ferentillo Paolo Silveri, interverranno l’autrice dell’articolo, Elena Percivaldi, e il direttore del mensile, Andreas M. Steiner, Sebastiano Torlini (Gruppo Archeologico Naharki Valnerina), Donatella Scortecci (Università di Perugia), don Rinaldo Cesarini della Diocesi di Spoleto, Giorgio Flamini (Associazione Italia Langobardorum).L’editore Enrico Chigioni presenterà «Lo Scrigno del Tempo-I Longobardi», progetto che prevede la pubblicazione di alcuni facsimili di importanti codici longobardi a cura di Capsa Ars Scriptoria. L’incontro è arricchito dagli interventi dei rievocatori della

compagnia Fortebraccio Veregrense, che proporranno uno spaccato di vita quotidiana longobarda, combattimenti e, soprattutto, brani musicali ricostruiti in base alle ricerche compiute nell’ambito del progetto Winileod (nato per sperimentare la musica altomedievale partendo dallo studio dei testi originali e del folklore), e realizzati grazie a ricostruzioni di strumenti dell’epoca. Alla fine del convegno è prevista la visita guidata all’abbazia.

Info: tel. 3334317673,328 6864226 oppure 335 6543008; e-mail: [email protected]; www.mummiediferentillo.it

Ultime novità sulla storia del monumento

Nella pagina accanto una delle mummie che si conservano nella cripta della parrocchialedi S. Stefano. Si tratta di una quindicina di individui, morti in epoche diverse: il caso piú antico risale forseal XVI sec.

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sinistra – rappresenta il sogno del duca Faroaldo che, secondo la leggenda, diede origine al monastero. I piú interessanti sono però quelli attribuiti al maestro di Eggi, pittore attivo nello Spoletino e nel Folignate al-la metà del Quattrocento e nominato dal ciclo nella chiesa di S. Michele Arcangelo a Eggi (Spoleto). Il di-pinto che domina il catino absidale rappresenta il Cri-sto Benedicente attorniato dagli angeli e accompagnato, nel registro inferiore, da una teoria di santi: Marziale, Eleuterio, Lazzaro, Placido, Benedetto, Mauro e altri tre di cui solo il primo, Giovanni, è identificabile grazie all’iscrizione sottostante.

Molti di questi sono, secondo una diffusa tradizio-ne agiografica che amplia la Passio XII fratrum derivata dai Dialogi di Gregorio Magno, compagni di un eremi-ta, Isacco, che giunse a Spoleto in epoca gota e fondò un ritiro sul Monte Luco. A loro volta, i suoi discepoli furono artefici di fondazioni monastiche, poi affiliate all’obbedienza benedettina: tutti questi santi mona-ci sono infatti disposti idealmente intorno alla figura, centrale, di san Benedetto, che raccolse l’eredità dell’a-nacoretismo, dandole una Regola destinata a cambiare la storia religiosa d’Europa.

Il maestro di Eggi raffigurò anche molti di questi

Il gobbo, il soldato e i pellegrini

U Francesca Dell’Acqua, Ursus «magester»: uno scultore di età longobarda, in Enrico Castelnuovo, «Artifex bonus». Il mondo dell’artista medievale, Laterza, Roma-Bari 2004

U Giulia Tamanti (a cura di), Gli affreschi di San Pietro in Valle a Ferentillo. Le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, Electa, Napoli 2003

U Ansano Fabbi, Abbazia di S. Pietro in Valle a Ferentillo, Abeto 1972

U Giustino Farnedi, Nadia Togni, Monasteri benedettini in Umbri. Alle radici del paesaggio umbro, Regione Umbria-Centro Storico Benedettino Italiano, 2014

U Anna Maria Orazi, L’Abbazia di Ferentillo: centro politico, religioso, culturale dell’alto Medio Evo, Bulzoni Editore, Roma 1979

Da leggere

a varie epoche (la piú antica risale forse al Cinquecento) e sono state sistemate in teche nella cripta stessa, attualmente adibita a museo.Tra i personaggi, identificati grazie a tradizioni orali corroborate da ricerche condotte negli archivi locali, vi sarebbero un soldato dell’esercito di Napoleone morto impiccato, una donna deceduta durante il parto e il suo bambino, un avvocato ucciso da una coltellata, il «gobbo Severino» e, soprattutto, due sposi di origine asiatica che transitavano nella cittadina umbra forse per un pellegrinaggio a Roma: stroncati dalla peste, non vi sarebbero mai arrivati.

santi in un vasto ciclo di affreschi realizzati nel 1442 nella chiesa di S. Giuliano di Spoleto, di cui fu abate Marziale e che divenne punto di riferimento per gli al-tri eremi della zona.

Si ringrazia Sebastiano Torlini per l’aiuto fornito alla reda-zione dell’articolo e al reperimento del corredo iconografico. F

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