1Remarks: Francesco Ansaloni e Fabrizio Ferretti sono, rispettivamente, Ricercatore e Dottorando diRicerca presso la Sezione di Economia del Dipartimento di Protezione e Valorizzazione Agro-Alimentare(DIPROVAL) - Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi di Bologna, Reggio Emilia. Alessandro Duca èResponsabile del Settore Zootecnico, Divisione Approvvigionamento Materie Prime, del Consorzio EmilianoRomagnolo Produttori Latte "Granarolo-Felsinea" (CERPL). Le opinioni qui espresse impegnano solamente gliAutori. I paragrafi 1 e 2 sono da attribuire al Dott. Francesco Ansaloni, il paragrafo 3 al Dott. Fabrizio Ferretti,il paragrafo 4 ad entrambi. La raccolta dei dati è stata curata dal Dott. Alessandro Duca. Lavoro eseguito con il contributo del Ministero per l'Università e la ricerca scientifica e tecnologica (Murst) -Quota 60% , “Mutamenti strutturali organizzativi nella filiera lattiero-casearia” esercizio anno 1993.
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IDENTIFYING FACTORS FOR DAIRY FARM SURVIVAL IN ITALY: ADISCRIMINANT ANALYSIS
Francesco Ansaloni - Alessandro Duca - Fabrizio Ferretti1
Contents: 1 - INTRODUCTION. 2 - "VIABLE", SUCCESSFUL AND SURVIVING FARM.
3 - AN EMPIRICAL INVESTIGATION. 3.1 - Data and model specification. 4 - RESULTS AND CONCLUSIONS.
1 - INTRODUCTION
Tra i fatti che maggiormente caratterizzano l'evoluzione di lungo periodo del settore
agricolo delle economie occidentali un posto di rilievo spetta ai processi, graduali ma
costanti, di diminuzione del numero delle aziende e di concentrazione della
produzione in una esigua frazione dell'intero universo di quelle esistenti. Sia pure con
sensibili differenze fra i singoli paesi, sono infatti tratti comuni alla struttura aziendale
dell'agricoltura delle economie sviluppate la netta predominanza delle imprese di tipo
familiare, il continuo declino del numero delle unità produttive e la coesistenza di due
anime: una “...industrializzata, professionale, a cui si deve la maggior parte della
produzione del paese e che fa capo ad una minoranza di imprese operanti in un
contesto agro-industriale” ed una “...poliattiva, non professionale, che si regge sulla
combinazione dei redditi agricoli con quelli extra-agricoli e che contribuisce solo in
minima parte alla produzione complessiva” [Pedrini 1994, 12].
Questi fenomeni assumono delle dimensioni considerevoli anche nell'agricoltura
italiana, la cui struttura aziendale, pur conservando il non invidiabile primato europeo
della numerosità, della frammentazione e della esigua dimensione, ha subito nel corso
del tempo alcune rilevanti trasformazioni. Si consideri, a titolo di esempio, che il
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numero delle aziende agricole si è ridotto dal 1961 al 1990 del 30% circa [Fanfani
1993, 174] e che, in base ai dati dell'ultimo Censimento, appena l'1% delle imprese
fornisce oggi quasi il 40% della produzione vendibile del settore; è sufficiente solo il
10% delle unità produttive per raggiungere i due terzi dell'output totale, a fronte del
48% circa del 1970. A ciò occorre aggiungere che più dell'80% di questi due terzi
viene realizzato da imprese coltivatrici le quali rappresentano quindi il fulcro sia
dell'agricoltura di tipo professionale che di quella non professionale [Barberis 1994].
Si pone perciò all'economista agrario un duplice problema: occorre infatti spiegare
non solo perché "...le agricolture delle economie occidentali sono ancora organizzate
sulla base di imprese familiari" [Schmitt 1991, 443], ma anche perché esista fra queste
una così profonda dicotomia, con un nucleo di imprese competitive numericamente
assai modesto a fronte di una miriade di unità non più produttive e completamente
svincolate dal mercato. Con questo studio, dal carattere prettamente empirico, si vuole
offrire alla riflessione teorica qualche elemento di discussione circa i caratteri assunti
nel nord Italia dal fenomeno dello sviluppo e del declino delle aziende coltivatrici ad
indirizzo bovino da latte. Concentrando l'interesse sul processo di selezione,
intendiamo affrontare una questione che giace, per così dire, "a monte" dei temi sopra
accennati: la ricerca dei fattori comuni alle aziende che dimostrano nel lungo andare la
capacità di sviluppo, cioè in grado di proseguire l'attività produttiva, sia essa di tipo
professionale oppure no.
Sulla base di informazioni di tipo strutturale, produttivo ed imprenditoriale, raccolte
tramite un questionario per la realizzazione di una indagine relativa ad un campione di
oltre 800 imprese coltivatrici ad indirizzo zootecnico per la produzione di latte a
destinazione alimentare localizzate in alcune regioni del nord Italia si è costruito un
modello di analisi discriminante allo scopo di verificare la possibilità di spiegare e
prevedere l'evoluzione del processo di sopravvivenza (selezione) delle aziende, in
virtù della conoscenza delle loro principali variabili. Si tratta appunto di discriminare
le singole unità produttive in base alla probabilità che il modello attribuisce a ciascuna
di esse di proseguire, o di cessare, l'attività produttiva. Oltre a fini strettamente
conoscitivi, l'individuazione delle aziende dotate di maggiori probabilità di restare nel
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mercato risponde a rilevanti esigenze di carattere normativo.
Prima di entrare nel merito dell'indagine empirica, a cui è dedicato il paragrafo 3, nel
paragrafo 2 ci soffermeremo a discutere dei concetti di impresa "vitale" e di impresa
"di successo", al fine di chiarire i limiti del lavoro e liberare così il campo da possibili
equivoci. Alla illustrazione ed al commento dei risultati del modello è infine dedicato
il paragrafo 4.
2 - "VIABLE", SUCCESSFUL AND SURVIVING FARM
In materia di classificazione economica dell'impresa nella letteratura si fa
riferimento alla nozione di azienda "vitale" [Prestamburgo 1973] e, più recentemente,
anche a quella di azienda "di successo" [Pennacchi 1993]. Sono due categorie non
sovrapponibili. In generale con queste nozioni si intende delineare i tratti essenziali
dell'impresa che meglio si adatta a soddisfare determinati obiettivi di politica
economica. Nel caso dell'azienda "vitale" l'accento, secondo un punto di vista
essenzialmente di politica agraria per il raggiungimento di determinati obiettivi, viene
di norma posto sulla possibilità di remunerare i fattori produttivi al loro prezzo di
mercato. Nel caso dell'azienda "di successo" ci si riferisce al conseguimento di un
complesso di obiettivi di natura socio-economica.
Conviene perciò chiarire da subito che il modello discriminante qui sviluppato,
poiché raccoglie tutte le imprese che, nell'arco temporale in esame (1990-93), non
hanno cessato l'attività produttiva, è un "setaccio" a maglie ben più larghe di quello
rappresentato delle categorie della “vitalità” e del “successo” e che, di conseguenza, le
imprese qui discriminate non rappresentano degli esempi su cui modellare la struttura
aziendale del settore. L'introduzione delle nozioni di impresa “vitale” e di impresa di
“successo” ha, a nostro giudizio, scarse possibilità di apportare qualche elemento di
novità allo stato delle conoscenze sulla struttura aziendale e sulla sua evoluzione.
Senza voler entrare nel merito della questione, qui ci limitiamo a svolgere alcune brevi
considerazioni.
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Qualora si accolga, fra le tante, la definizione di Prestamburgo è “vitale” l'azienda
che “... permette di remunerare i fattori della produzione al prezzo di mercato e di
ottenere un profitto non negativo” [Prestamburgo 1973, 181]. Data la persistente e
generalizzata sotto remunerazione dei fattori impiegati in agricoltura, in base a questa
definizione pressoché l'intero universo delle imprese coltivatrici risulterebbe non
vitale: con riferimento al caso italiano, anche il decimo delle imprese professionali nel
caso in cui dovesse retribuire il lavoro familiare al suo costo opportunità è assai
improbabile che spunti un profitto positivo od anche nullo. Eppure queste imprese, che
sfuggono alla categoria della vitalità, non solo esistono ma rappresentano la base
produttiva professionale dell'agricoltura nazionale.
Come per la categoria di azienda “vitale”, una definizione non banale e priva di
ambiguità dell'azienda di “successo” è difficilmente rintracciabile in letteratura. In un
recente contributo, dove vengono riassunti i termini della questione, Olsson osserva
che ciò accade perché, in definitiva, esistono tanti tipi di successo quanti sono gli
imprenditori agricoli [Olsson 1988, 251-2]. Per Olsson, infatti, possono considerarsi
imprenditori agricoli di successo, e quindi imprese di “successo”, coloro che riescono
a raggiungere, allo stesso tempo, sia un obiettivo collettivo, sociale, che un obiettivo
individuale. Il primo è stabilito dall'ambiente sociale, la comunità, cioè da attori
esterni all'impresa, e risulta quindi comune a tutti gli individui che operano nel
medesimo ambiente (successo normativo), mentre il secondo è strettamente legato alle
preferenze dei singoli e può perciò assumere connotati molto diversi da un
imprenditore all'altro (successo soggettivo). Questa distinzione, fra un obiettivo di tipo
collettivo ed uno di tipo individuale, ha il pregio di sottolineare come l'azienda di
“successo”, essendo una categoria a metà strada fra l'economia e la sociologia, sia di
fatto impossibile da definire con chiarezza e risulti quindi inutilizzabile a fini euristici.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che la semplice permanenza di una azienda
sul mercato, sia in modo professionale che in modo non professionale, non rappresenta
una condizione sufficiente per classificare l'impresa come “vitale”, nel senso di
Prestamburgo, o come di “successo”, nel senso di Olsson.
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3 - AN EMPIRICAL INVESTIGATION
La politica economica dell'Ue nel mercato dei prodotti lattiero-caseari, a fronte di
una sostanziale stabilizzazione dell'offerta di latte a livello della produzione, ha
indotto alcune profonde trasformazioni nella struttura aziendale di produzione del
settore, fra le quali particolare rilievo assume la riduzione sia delle unità produttive
che del patrimonio bovino (si veda la Tabella 1). Si tratta di un fenomeno che, pur
Tabella 1 - Alcuni caratteri dell'evoluzione del settore lattiero-caseario dell'Ue
PRODUZIONE
DI LATTE
(.000 t)
TAV% AZIENDE
(.000 di
unità)
TAV% VACCHE DA
LATTE
(.000 di unità)
TAV%
Ue '86-'91 -1,7 '87-'91 -6,9 '87-'91 -3,2
Nord -- -2,1 -- -6,2 -- -3,0
Sud -- 0,3 -- -7,7 -- -3,7
Italia -- 0,7 -- -10,7 -- -4,3
Fonte: nostre elaborazioni su dati EUROSTAT.Note: Nord = B, DK, D, F, IRL, L, NL, UK; Sud = G, S, P, I; TAV = Tasso composto di variazione annua.
interessando tutti i membri dell'Unione, è molto forte nell'area mediterranea ed in
particolar modo in Italia, dove nel corso della seconda metà degli anni ottanta,
nonostante l'assenza del regime individuale delle quote di produzione, le aziende con
vacche da latte e la consistenza di quest'ultime sono diminuite con tassi annui
superiori, rispettivamente, al 10% ed al 4%.
La scarsissima riduzione dell’offerta di latte potrebbe dipendere dal fatto che sono
gli allevamenti medio grandi, che continuano l’attività produttiva, che aumentano di
numero e contribuiscono maggiormente alla produzione. In altre parole, probabilmente
sono usciti dal settore gli allevatori meno efficienti, quelli cioè che, anche con una
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dotazione non trascurabile di patrimonio vacche, contribuivano marginalmente alla
produzione di latte.
La scelta delle variabili strutturali, produttive ed imprenditoriali di un campione di
aziende coltivatrici, con bovini da latte, impiegate nel modello di analisi discriminante
è caduta su quelle che, relativamente al periodo in esame (1990-93) hanno mostrato
una relazione statisticamente significativa con la capacità di sopravvivenza delle
aziende stesse sul mercato. L'indagine interessa 819 imprese ubicate nel nord Italia ed
aderenti al Consorzio Emiliano-Romagnolo Produttori Latte - Granarolo-Felsinea
(C.E.R.P.L.) il quale raccoglie la materia prima per destinarla all'uso alimentare
diretto. Sebbene quello di cui disponiamo non sia un campione probabilistico, ci
troviamo di fronte ad un insieme di aziende che ben rappresentano la realtà aziendale
oggetto di studio (si veda la Tabella 2 1 ). Nel corso del periodo 1990-93, 554 di
Tabella 2 - Principali caratteristiche delle aziende in esame (numero dei casi = 819)
MEDIA DEV. STANDARD
Produzione di latte L/anno 69.386,03 13.9415,3
Superficie totale ha 22,2 42,7
Vacche da latte n. 17,0 24,6
Addetti alla stalla n. 1,8 0,8
Resa media per vacca L/anno 3.857,9 2.150,3
Vacche per ettaro n. 1,4 8,0
Tipo di stabulazione: fissa % casi 9293Tipo di mungitura: al secchio % casi
Fonte: nostre elaborazioni su dati CERPL.
queste aziende hanno cessato l'attività di allevamento dei bovini da latte; qui ci
proponiamo di individuare i tratti comuni alle 265 che sono invece rimaste nel
mercato.
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3.1 - Data and model specification
La conoscenza dei fattori dai quali dipende la "sopravvivenza" dell'impresa, e quindi
la possibilità di individuare quali unità produttive hanno maggiori probabilità di
restare nel mercato, assume grande importanza ai fini della definizione di una politica
delle strutture. La tecnica dell'analisi discriminante può rappresentare a questo scopo
un utile strumento di indagine. Sulla base di una combinazione lineare di n variabili
indipendenti, essa permette infatti di classificare delle singole osservazioni in uno o
più gruppi che si escludono reciprocamente. Definita una variabile indipendente e dato
un set di variabili esplicative è cioè possibile calcolare per ciascun caso, azienda in
esame, un punteggio in virtù del quale decidere a quale gruppo predefinito attribuire
le singole osservazioni [Norusis 1988a, 187].
A ciascun imprenditore in esame è stato sottoposto un questionario dal quale si sono
desunti alcuni dati relativi ad un set di variabili esplicative inerenti i seguenti aspetti
dell'azienda: dotazione di risorse, tecnologia di allevamento, risultati produttivi, età del
conduttore e sue previsioni sul futuro livello di produzione di latte (si veda la Tabella
3). Si è poi attribuita una variabile dipendente, di tipo dicotomico, ad ogni singola
osservazione in funzione dell'appartenenza dell'azienda, al termine del 1993, al
gruppo delle unità produttive che ancora conservavano l'attività zootecnica oppure
quello relativo a chi aveva invece chiuso l'allevamento2. Per giungere alla
specificazione del modello, allo scopo di selezionare ed impiegare nello stesso soltanto
quelle variabili dotate di un legame significativo con la capacità di sopravvivenza, si è
quindi reso necessario verificare per ogni carattere il grado di eterogeneità dei due
gruppi di aziende, utilizzando a questo fine il test t per l'analisi della varianza su
popolazioni indipendenti3. I segni attesi delle singole variabili
Tabella 3 - Variabili del modello discriminante
VARIABILI
Simboli Segno atteso
Produzione totale di latte PT (+)
Produzione media per vacca da latte PMv (+)
Produzione media per addetto alla stalla PMa (+)
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Superficie totale T (+)
Vacche da latte C (+)
Addetti alla stalla L (+)
Percentuale di superficie foraggera sulla superficie totale Sf (+)
Vacche da latte per ettaro di superficie totale Vh (+)
Vacche da latte per addetto alla stalla Va (+)
Età dell'imprenditore ET ( - )
Tipo di stabulazione (dummy) TCN (+)
Previsione sul futuro livello di produzione (dummy) PRV (+)
indipendenti indicano che nel modello si ipotizza che la capacità di sopravvivenza
dell'impresa cresca al crescere delle variabili inerenti le seguenti caratteristiche
strutturali: dimensioni economiche, livello di efficienza tecnica, e grado di
specializzazione e di intensivizzazione dell'allevamento.
Nell'analisi discriminante i coefficienti delle variabili esplicative sono calcolati in
modo tale da garantire che i punteggi della variabile dipendente risultino il più
possibile simili all'interno del gruppo ed il più possibile dissimili fra i gruppi [Norusis
1988, 188]4. Dati tali coefficienti diviene possibile classificare i singoli casi: si calcola
cioè il punteggio per ciascuna osservazione la quale può così essere inserita, con una
determinata probabilità di errore, entro uno dei due gruppi.
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4 - RESULTS AND CONCLUSIONS
Occorre in primo luogo soffermarsi sul risultato del test della varianza che è
preliminare alla specificazione del modello (si veda la Tabella 4). Fra i due gruppi di
aziende esistono delle significative differenze circa i singoli caratteri quantitativi, con
due rilevanti eccezioni: la resa media per vacca ed il numero delle vacche per ettaro. Il
fenomeno dell'abbandono ha quindi sostanzialmente colpito in egual misura tutte le
imprese, a prescindere dal loro grado di efficienza tecnica e di intensità
dell'allevamento. In particolare, la produttività media per capo, a cui viene di norma
Tabella 4 - Tests delle ipotesi sulle variabili quantitative: test "t"
VARIABILE FVALUE
2 TAILP.
METODO tVALUE
2 TAILP.
PT 3,00 0,000 Separate Variance Est. -2,33 0,020
PMv 1,52 0,005 -- -0,04 0,967
PMa 1,51 0,000 -- -2,70 0,007
T 1,32 0,000 -- -2,60 0,010
C 3,65 0,000 -- -3,97 0,000
L 1,47 0,000 -- -3,44 0,001
Sf 2,73 0,000 -- -4,66 0,000
Vh 1,54 0,000 -- -0,96 0,340
Va 1,82 0,000 -- -4,39 0,000
ET 1,21 0,063 Pooled Variance Est. 3,53 0,000
Fonte: nostre elaborazioni su dati CERPL
attribuito il significato di indice sintetico dell'efficienza dell'intera azienda, non sembra
qui avere alcun legame con la capacità della stessa di proseguire l'attività. Entrambe le
variabili sono quindi state escluse dal modello discriminante.
Il modello discriminante specificato è in grado di classificare correttamente al 65%
circa le aziende che resteranno nel mercato ed al 68% le aziende che abbandoneranno
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l’attività produttiva. La statistica di Wilks indica che il punteggio medio fra i due
gruppi è significativamente diverso, a conferma dell'ipotesi che questi sono costituiti
da aziende con differenti caratteristiche strutturali. Le ipotesi circa la direzione
dell'influenza di ciascuna variabile sul grado di sopravvivenza dell'impresa sono tutte
confermate, ma si presenta anche qui una rilevante eccezione data dal livello
complessivo della produzione che mostra un segno negativo (si veda la Tabella 5).
La scarsa capacità dimostrata dal modello nell'attribuire correttamente le imprese al
rispettivo gruppo di appartenenza impone a questo punto una riflessione. La natura
dicotomica della struttura aziendale può costituire una prima fonte di errore. La
Tabella 5 - Risultati del modello discriminante
Discriminant function coefficients:
a PT T C L TCN Sf Va ET PRV
-1,778 -0,001 0,019 0,025 0,178 0,573 2,107 0,017 -0,022 1,070
Average scores:
Aziende ancora in attività Aziende non più in attività
Score = 0,387 Score = - 0,242
Wilks' lambda statistic = 0,913 Chi-squared = 63,89 Significance = 0,000
Classification results:
Predicted group membership
Aziende non più in attività N. of cases 441 68,7%
Aziende ancora in attività -- 276 59,4%
Percent of "grouped" cases correctly classified = 65,1%
Fonte: nostre elaborazioni su dati CERPL
presenza di piccole imprese coltivatrici, di tipo non professionale, le cui decisioni di
mantenere o abbandonare l'attività produttiva sono del tutto indipendenti da
valutazioni di carattere tecnico-economico abbassa il rendimento del modello, poiché
questo risulta appunto specificato su variabili strettamente economiche. In questo caso,
infatti, la permanenza in azienda dell'attività zootecnica può essere meglio spiegata
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dalla semplice disponibilità di lavoro a costo opportunità nullo. Ma l'interpretazione di
questo risultato può anche spingersi più avanti. Su questa base, si può infatti sostenere
che anche per le imprese che mostrano caratteri spiccatamente professionali non basta
considerare i criteri di bilancio economico per spiegare in maniera soddisfacente la
ragione della scelta dell’impresa di permanere o meno nel mercato. A tale proposito, è
illuminante la scarsa importanza osservata in precedenza riguardo l'efficienza tecnica
dell'allevamento, produzione media di latte per vacca per anno, in relazione alla
capacità di sopravvivenza dell'azienda. Per l'utilizzo dello strumento dell’analisi
discriminante a livello operativo occorre perciò costruire modelli differenziati in
funzione delle tipologie imprenditoriali maggiormente diffuse sul territorio e, in ogni
caso, è anche indispensabile la conoscenza di un insieme di variabili non direttamente
legate agli aspetti di carattere tecnico ed economico.
Nella letteratura economico agraria sono frequenti le proposte di classificazione
della figura dell’imprenditore agricolo realizzate da diversi Autori [Evans 1949, 336
citato da Karayannis 1990, 257; Rushton e Shaudys citati da Pennacchi 1993, 14;
Renborg e Fock 1977 citati da Olsson 1988, 246; Olsson 1988, 254; Huirne-Dyhuizen-
King-Harsh 1933, 63]. Dal nostro punto di vista, sulla base dei risultati dell’indagine
svolta, i tipi di imprenditori più diffusi nel nord Italia che praticano l’allevamento
bovino da latte sembrano individuabili sulla base di duplice criterio: il grado di
professionalità tecnica ed economica e l’ampiezza della dotazione di capitali aziendali.
Le categorie identificate sono rappresentate dai seguenti tipi di imprenditori: Î quello
non professionale che dispone una piccolissima azienda; Ï quello professionale che
gestisce una azienda di medie dimensioni orientata alla crescita; Ð quello
professionale che dirige una azienda di dimensioni molto ampie.
L'imprenditore non professionale è in genere un coltivatore diretto, che solo in rari
casi dispone di un allevamento di oltre trenta capi, che talvolta è impegnato a tempo
parziale. I capitali aziendali risultano ampiamente ammortizzati; troppo spesso gli
impianti sono datati e le tecniche di produzione obsolete. Il ritmo di rinnovamento
delle attrezzature è lentissimo ed è diffuso l'acquisto di “seconda mano” (usato); la
tecnologia usurata è sostituita con altra identica, di conseguenza la tecnica di
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produzione non beneficia di servizi innovativi dovuti a forme di progresso tecnico
incorporato; spesso, ad esempio, la tecnologia di mungitura è quella dei primi anni
Sessanta. Queste scelte tecniche anacronistiche appaiono giustificate dall’impiego del
lavoro familiare a costo nullo. Questo imprenditore non calcola nel costo di
produzione i costi fissi; pertanto, permane pertanto nel settore per un maggior periodo
di tempo rispetto ad altri imprenditori.
La spesa per l'acquisto dei mezzi tecnici è nullo o quasi. I foraggi per l'alimentazione
del bestiame sono quelli prodotti in azienda e l'unico mezzo tecnico, eventualmente,
acquistato è il mangime.
Il principale obiettivo del piccolo imprenditore non professionale è spesso quello di
impegnare in una qualche maniera i fattori di produzione. Per questa ragione,
nell’impresa coltivatrice, spesso il lavoro si trasforma da risorsa a vincolo della
funzione obiettivo. Frequentemente la disponibilità di un qualsiasi componente la
famiglia dell’imprenditore a svolgere i lavori di stalla è sufficiente per giustificare il
mantenimento dell'attività zootecnica. Infine, il lavoro dell’imprenditore e dei suoi
familiari difficilmente appare idoneo, per indisponibilità o incapacità, a lavori
extragricoli. Il prezzo del lavoro è frutto di una valutazione interna all'unità familiare,
costo interno [De Benedictis-Cosentino 1979, 291]. Questo imprenditore non cerca
infatti, per i fattori da lui conferiti, una retribuzione a prezzi correnti ma stabilisce
soggettivamente un livello di compenso minimo al di sotto del quale cessa la
convenienza del loro impiego [Di Cocco 1970, 79-80].
I criteri di scelta di questo imprenditore spesso sono soltanto il frutto dell'esperienza
passata; non si basano su analisi di bilancio e non esiste separazione tra incassi
dell'impresa e spesa della famiglia dell'imprenditore. In genere tutto il
“ricavo”dell'azienda è inteso come “guadagno”. Questo imprenditore considera la
remunerazione per il latte prodotto, anche se molto bassa, sempre vantaggiosa. Infatti,
anche se la mandria è piccola ciò non significa che l'impresa nel suo complesso
raggiunga modesti livelli di incasso; spesso, infatti, nelle aziende agricole il maggiore
contributo al reddito è fornito dalle piantagioni legnose, quali, pere, pesche, ecc.
Inoltre il reddito familiare è talvolta integrato da flussi di reddito extra-aziendale
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(lavoro part-time; pensioni). I criteri di scelta dipendono anche dalla preferenza per lo
stile di vita, in particolare per il godimento del patrimonio residenziale a favore anche
di quei componenti il nucleo familiare che svolgono attività extragricole, e
dall'influenza della «tradizione» o, più semplicemente, dalla resistenza al
cambiamento di decisioni prese in passato.
Per concludere, si può affermare che nella tipologia imprenditoriale non
professionale l'attività zootecnica è sostanzialmente «ad esaurimento»; essa cioè
continuerà ad esistere fin quando un componente il nucleo familiare sarà disponibile a
svolgere i lavori di stalla; quando questa disponibilità di lavoro cesserà, per vecchiaia
o malattia, l'attività zootecnica verrà abbandonata.
Il secondo tipo di imprenditore è quello professionale che gestisce una azienda di
medie dimensioni. Questo imprenditore è in genere un coltivatore diretto, di età tra 45
e 55 anni, che dispone una mandria compresa tra 30 e 50 vacche. La tecnica di
produzione adottata è intensiva; rispetto alla media, si osserva infatti una presenza di
impianti ed attrezzature a maggior contenuto di progresso tecnico ed un livello di
selezione genetica del bestiame più elevato. Inoltre, anche gli investimenti unitari di
capitale, impianti, attrezzature e la quantità di bestiame e di mangime per capo
acquistato sul mercato appaiono più rilevanti [Ansaloni 1988, 141].
La principale fonte di finanziamento degli investimenti, a causa dei prolungati
periodi di attesa necessari per ottenere l'erogazione di mutui a tasso agevolato o di
contributi della pubblica amministrazione, è rappresentata dai risparmi familiari e/o
prestiti bancari a tasso non agevolato.
L’elevato livello di intensivazione produttiva testimonia che questo tipo di
imprenditore tende soprattutto ad aumentare la dimensione economica dell'impresa e
questo comportamento risulta in gran parte giustificato dalla presenza in azienda di un
“successore”, generalmente un figlio in età lavorativa.
Per questo tipo di imprenditore l’analisi del costo totale di produzione ai fini della
valutazione dell’attività produttiva e delle scelte di impresa non rappresenta una
dotazione concettuale abituale; egli, infatti, non considera il suo costo di lavoro, e
quello dei suoi familiari, in quello totale di produzione.
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Du sono le ragioni che caratterizzano ad elevato rischio il grado di sviluppo
dell'attività zootecnica di questo tipo di imprenditore: la prima dipende dai costi di
produzione che risultano di poco inferiori a quelli di mercato, ed eventuali diminuzioni
di prezzo portano l'azienda in passivo; la seconda dipende dagli effetti negativi
conseguenti la sopravvalutazione di capacità professionali, produzione e
commercializzazione, che questo tipo di imprenditore tende frequentemente ad
attribuirsi.
Il terzo tipo di imprenditore è quello professionale di tipo capitalista, impegnato a
tempo pieno, che possiede una azienda medio-grande orientata al mercato.
Gli investimenti si presentano proporzionati alle reali necessità della produzione. Il
capitale utilizzato è tecnologicamente moderno; per quanto riguarda il bestiame, ad
esempio, si osserva l'impiego della tecnica di inseminazione strumentale e
l’applicazione sistematica della selezione.
Il lavoro è fornito da manodopera acquistata sul mercato (salariati).
Questo tipo di imprenditore mostra un elevato livello di professionalità tecnica e
commerciale. I risultati di questa indagine, ed altre [Ansaloni 1988, 141], confermano
infatti che all'aumentare della dimensione della mandria, e della superficie
dell'azienda, tende a crescere anche la resa di latte per vacca.
L'imprenditore nella conduzione dell'attività produttiva è affiancato da un
successore, in genere un figlio, e la sua strategia produttiva è orientata alla ricerca
della qualità del prodotto ed è sensibile ai problemi di accesso al mercato: percepisce,
ad esempio, i problemi contrattuali, aderisce alle Associazioni dei Produttori, e la
necessità della concentrazione dell'offerta.
I suoi criteri di scelta si basano sull'analisi di bilancio, strumento permanente di
conoscenza delle condizioni produttive, e la continuazione dell'attività produttiva è
giustificata dalla produzione di reddito. E' un tipo di imprenditore che vede l'attività
zootecnica come un'industria e che ritiene vantaggioso praticarla in relazione alla
possibilità di ricavare un profitto.
L'attività zootecnica realizzata da parte di un imprenditore professionale dotato di
un’azienda di grandi dimensioni permette di mantenere il costo di produzione ad un
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livello inferiore a quello di mercato e ciò conferisce a questo tipo di imprenditore
ottimistiche prospettive di sviluppo. Inoltre, gli impianti di produzione dimostrano
ulteriori capacità di ampliamenti produttivi. Ciò si è evidenziato in due circostanze: in
passato, in occasione di prezzi esteri del latte molto bassi e conseguente incremento
delle importazioni, ed attualmente in coincidenza del regime attuale di alti prezzi
nazionali (rispetto agli altri paesi europei). Ciò è confermato dal fatto che in
Lombardia i grandi allevamenti sono aumentati, nonostante il vincolo delle quote latte
ed il fatto che già sono molto diffusi, mentre nel Veneto e nell'Emilia si è osservata
una diminuzione. In tal senso concordiamo con Majnoni quando afferma che «... il
regime di alti prezzi che si è andato consolidando in Italia nel corso degli ultimi anni è
valso a consolidare gli allevamenti privilegiati per posizione e per dimensioni o
avanzati per caratteristiche organizzative, senza arrecare vantaggi di rilevo agli altri»,
ed anche con la tesi che «... la totale mancanza di una gerarchia di prezzi del latte al
consumo a seconda della qualità e della provenienza, ha rafforzato un processo di
concentrazione territoriale dell'offerta di latte alimentare che tende a saturare la
domanda di zone anche lontane, e così anche a precludere in esse la possibilità di
espansione dell'offerta di latti prodotti localmente» [Majnoni et al. 1980, 105].
In prospettiva, questo tipo di imprenditore potrebbe far parte del nucleo di allevatori
di latte più produttivi del nostro paese. Imprese cioè con dimensioni economiche in
grado di minimizzare i costi di produzione ed adottare tecnologie ed innovazioni tali
da garantire elevati standard qualitativi del prodotto.
Porre davanti a noi il problema dello sviluppo delle imprese zootecniche è un tema
che ci appassiona perché ci permette di contribuire alla discussione intorno ad alcuni
quesiti fondamentali, come, per esempio, quelli del destino di una parte di famiglie
rurali e delle possibilità di intervento della collettività per migliorare i loro redditi ed,
infine, della capacità del nostro Paese di rispondere alla domanda di beni alimentari di
origine animale.
La nostra scelta di schematizzare l’analisi dello sviluppo dell’impresa zootecnica
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bovina da latte solo mediante l’esame di alcuni elementi economici non deve però far
pensare che l’imprenditore possa essere ridotto al rango dell’ingegnere, il cui
problema è quello di individuare la ricetta tecnica ottimale di produzione e di
applicarla correttamente “... un tanto di questo fattore, un tanto di quell’altro, una certa
quantità di professionalità ed intuizione, ecc.”. Siamo convinti che lo sviluppo è
cambiamento e che per interpretarlo occorra conoscere tutti gli aspetti che riguardano
l’attività produttiva dell’impresa, tra cui quelli di tipo sociologico. Per creare
“successo” non basta la disponibilità delle risorse ma è necessario qualche cosa di più,
che sembra dipendere tanto dalla fortuna quanto dall’accettare delle sfide rischiose e
l’attuale scarsità dell’offerta interna di latte impone agli allevatori del nostro Paese un
cambiamento.
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NOTES
1 Le aziende in esame sono in prevalenza ubicate in Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto eMarche. Poco più della metà opera in pianura, mentre il restante 45% si divide fra collina, 35%, emontagna, 10%. Per ulteriori informazioni a carattere descrittivo sul campione si rinvia il lettore ailavori di Ansaloni [Ansaloni 1993, 1995]. L'indagine è stata svolta da CERPL per rispondere adesigenze interne di informazioni sulle aziende associate. Il campione può tuttavia, ai nostri fini, essereconsiderato probabilistico, poiché risulta coerente con i dati dell'ultimo Censimento relativi alleaziende con bovini da latte ubicate nella medesima area geografica.
2 Si è inoltre trasformato in variabili di comodo le osservazioni relative al tipo di stabulazione edalla previsione sul futuro livello di produzione (rispettivamente: stabulazione fissa = 0, stabulazionelibera = 1 e diminuire la produzione = 0, aumentare o lasciare costante la produzione = 1).
3 Per un dato carattere quantitativo, con il test t è possibile verificare la significatività delladifferenza esistente fra le medie aritmetiche di due gruppi, o popolazioni, che qui sono indipendentifra loro ed, a seconda dei casi, con uguali o diverse varianze (test t, rispettivamente, delle varianzeassociate o separate). Seguendo l'approccio "valore p" alla verifica delle ipotesi, specificato il livellodi significatività del test (α = 0,05), ogni qual volta p risulta maggiore di α occorre accettare l'ipotesinulla, H0, relativa all'assenza di differenze significative fra le medie aritmetiche dei due gruppi, eviceversa nel caso opposto [Berenson-Levine 1989, 339-88].
4 Dato che non tutti gli imprenditori hanno risposto in modo completo alle richieste del questionario,il numero delle osservazioni impiegate dal modello è inferiore al totale delle osservazioni. è risultatocosi disponibile solo una frazione pari a 717 aziende sulle 820 di partenza. Di queste 717, al terminedel 1993 risultavano attive 276 imprese, mentre 441 avevano chiuso l'allevamento.
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